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Come ho già a più riprese denunciato, i limiti intrinsechi del modello “ESG – Enviromental, Social and corporate Governance”, tanto di moda negli ultimi anni, risultano evidenti agli occhi di qualunque professionista intellettualmente onesto.

Un’opinione attualmente diffusa vuole che le società che hanno posizioni migliori in classifica sulla base delle metriche ESG otterranno – già solo per questo – migliori rendimenti per gli azionisti: questa convinzione è semplicemente errata.

Certo, come dimostra  il celebre lavoro di Robert Eccles ad Harvard, ampiamente validato da ulteriori e successive evidenze scientifiche, l’introduzione di preoccupazioni di carattere etico nel business, a livello strategico, giova alla redditività delle aziende; ne ho parlato diffusamente anche in una delle mie ultime monografie, e questa verità da anni non è più in discussione, perlomeno in ambito accademico.

Il tema casomai è un altro, ovvero che gli indici ESG sono centrati su uno sguardo del tutto generale, avulso dal particolare e dalla specifica storia e prassi delle aziende esaminate: si tratta in poche parole di una vera e propria mania classificatoria. L’ennesima, tipica del mondo anglosassone.

L’esempio che cito spesso è quello dell’impatto ambientale di una banca, che non è necessariamente rilevante per la performance economica della stessa: una corretta politica di contenimento delle emissioni nocive in atmosfera otterrebbe un alto punteggio sugli indici ESG, ma non influenzerebbe significativamente le emissioni di carbonio globali. Al contrario, l’emissione da parte della banca di prestiti subprime che i clienti non saranno in grado di ripagare – o, peggio ancora, la commercializzazione di titoli tossici – potrebbe avere devastanti conseguenze sociali e finanziarie, come le cronache di pochi anni fa hanno dimostrato. Nonostante ciò, il reporting ESG ha dato credito alle banche per la prima questione, e allo stesso tempo ha tralasciato colpevolmente – o, peggio, dolosamente – la seconda.

Una possibile soluzione potrebbe essere quella di stimolare le istituzioni ad applicare il già esistente regime sanzionatorio previsto per le Dichiarazioni Non Finanziarie in caso di intenzionali scorrettezze nel processo di accountability delle imprese. La normativa attuale prevede, per tali violazioni, sanzioni da 25.000 a 150.000 euro, a seconda dei casi. Ma pare non sia mai stato concretamente applicato, anche perché è evidente la mancanza di expertise dell’istituzione preposta – nella fattispecie, Consob – che dovrebbe effettuare l’accertamento e l’irrogazione delle sanzioni, sulla base di verifiche effettuate a campione, sulle quali, paradossalmente, non esiste però alcun report pubblico, con il risultato che chi dovrebbe vigilare sulla corretta rendicontazione non rendiconta a sua volta.

Nell’attesa che la magistratura trovi il mordente necessario a far applicare la legge, e il legislatore motivi buoni per irrobustire l’apparato normativo, a dispetto delle discutibili azioni di lobby delle organizzazioni di categoria degli imprenditori, impegnate dietro le quinte a esercitare pressioni, al contrario, per consolidare l’attuale “laissez-faire”, le trasgressioni del patto etico e di trasparenza che dovrebbe legare aziende e stakeholder si moltiplicano, nell’indifferenza generale.

Il mondo della moda: come chiudere gli occhi e vivere felici

In un bell’articolo pubblicato qualche tempo fa sulla rivista americana The Nation, Maria Hangeveld denunciò come le certificazioni etiche, specie nel mondo della moda, e in particolare del fast-fashion, ovvero il settore delle aziende che produce capi di abbigliamento adeguandosi rapidissimamente alle mode del momento, siano sì ispirate all’auditing finanziario, ma fortemente marketing-oriented: di fatto, più che uno strumento di valutazione e controllo, sono invece un traguardo da raggiungere a fini di mera comunicazione esterna, un certificato da “appendere al muro” e soprattutto da veicolare sui Social e sui comunicati stampa, nonostante le condizioni di lavoro degli operai, lungo la filiera, restino quanto meno discutibili.

Anche il giornalista Meta Krese ne ha parlato, più recentemente, sulla rivista americana In These Times, ricordando come il Burkina-Faso sia ad esempio il più importante produttore ed esportatore di cotone dell’intero continente Africano: duecentomila piccoli coltivatori conferiscono ogni anno settecentomila tonnellate di cotone alla Sofitex, la Societé Burkinabé de fibres texiles, che le imbarca dai porti del Benin e della Costa d’Avorio verso l’Asia, dove vengono lavorati e poi rivenduti – previo confezionamento secondo le linee guida delle aziende europee e americane, apparentemente molto attente alla sostenibilità – a marchi occidentali del fast-fashion come H&M, Gap e Zara.

Sofitex paga alle fattorie un prezzo di circa 36 dollari per ogni chilo di cotone acquisito, il che si traduce per i lavoranti in uno stipendio di 360 dollari all’anno, circa 1 dollaro al giorno. I contadini cercano di utilizzare semi di cotone OGM, così da ridurre un po’ l’uso di pesticidi, dal momento che gli irroratori sono sempre in pessime condizioni e loro quindi usandoli, finiscono con il respirare sostanze velenose. Le sementi OGM della Monsanto, però, producono fibre sempre più corte ad ogni generazione, abbassando la qualità del cotone e quindi il prezzo finale di vendita. Di tutto questo, alle aziende occidentali, incluse quelle green, interessa poco o niente.

In Bangladesh, dove si confezionano i tessuti con il cotone del Burkina-Faso, la situazione è di poco migliore: lo stipendio è di circa 90 dollari al mese, e le spese vive per pagare il cibo e l’affitto, in una casa che è poco più che una baracca, ammontano a circa 73 dollari. Il risultato è che alle sarte – quasi sempre donne – restano 17 dollari al mese per vivere. Sindacalisti indipendenti attivi sul posto osservano come, nel momento in cui le condizioni di lavoro dovessero migliorare, con un decoroso aumento dei salari, ciò che succederebbe sarebbe che – su pressione delle multinazionali della moda, indisponibili a pagare di più il prodotto confezionato – la produzione verrebbe spostata in nazioni con un costo del lavoro più conveniente, gettando sul lastrico centinaia di migliaia di famiglie. Per questo, funzionari governativi e padroni delle fabbriche locali collaborano tra loro per contrastare qualunque iniziativa sindacale a favore dei lavoratori. Un esempio eclatante è quello di H&M: la multinazionale svedese dell’abbigliamento a buon mercato, che veleggia attorno a 2 miliardi di profitti all’anno, ha un’articolata policy sulla sostenibilità pubblicata sul proprio sito web e vanta anche la speciale collezione “Conscious Exclusive” a basso impatto ecologico, con abiti composti con tessuti derivanti da foglie di ananas, scarti della canapa, etc., ma delle criticità legate al controllo della filiera non fa accenno nella propria rendicontazione sociale, e anche noi cittadini siamo disponibili a chiudere gli occhi e non farci domande, ben lieti di pagare capi di moda a un prezzo assai accessibile.

Stesso dicasi per la Cina, dove si produce il 20% del cotone mondiale. Nella regione cinese dello Xinjiang, a raccoglierlo e lavorarlo è un esercito di oltre mezzo milione di cinesi appartenenti alla minoranza islamica degli Uiguri, trattati come schiavi nei campi di “lavoro e rieducazione”. Un problema enorme, visto che il cotone è la seconda fibra più usata a livello globale per la produzione di abiti, dopo il poliestere, e che molti marchi di fast fashion e sportswear, ma anche del lusso, si riforniscono da aziende attive proprio in questa regione. Tra i membri delle istituzioni più nettamente schierati su questo tema c’è l’Ambasciatore ed ex Ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, Presidente del Global Committee for the rule of law, ONG che si occupa di progetti internazionali sul tema dello Stato di diritto:

“È incredibile come molti marchi anche assai famosi girino la testa dall’altra parte senza prendere posizione contro questi abusi promossi dal Partito Comunista Cinese, con la scusa che loro acquistano da intermediari e quindi non sanno da dove proviene esattamente il cotone. Lo sanno eccome, in realtà, ma trovano forse comodo chiudere gli occhi dinnanzi allo strapotere cinese”.

Con buona pace delle certificazioni etiche ed ESG delle aziende occidentali.

Il Cile invece è diventato da tempo un polo internazionale di raccolta dove confluisce l’abbigliamento di seconda mano e invenduto, prodotto in Cina e in Bangladesh, e che passa attraverso l’Europa, l’Asia o gli Stati Uniti prima di arrivare in sud America, dove nel deserto di Atacama, vero e proprio paradiso naturale, vengono ammassate a cielo aperto circa 40.000 tonnellate all’anno di vestiti invenduti o di seconda mano provenienti dal settore del fast fashion: si stima infatti che 500 miliardi di dollari vengano persi ogni anno a causa di indumenti appena usurati e raramente riciclati.

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 2019, l’industria della moda è responsabile del 20% dello spreco totale di acqua a livello globale (per fare un singolo paio di jeans ci vogliono ad esempio 7.500 litri di acqua), e “ogni secondo della giornata, una quantità di tessili equivalente a un camion della spazzatura viene sepolta o bruciata” a causa delle attività industriali del settore moda. Attualmente – nonostante gli sforzi degli ultimi anni per ridurre le emissioni – l’industria del fashion presenta ancora a riguardo una tendenza assai preoccupante, per cui si prevede che le emissioni di gas serra di questo comparto – che già oggi sfiorano il 10% delle emissioni globali di Co2! – aumenterà ancora di un ulteriore terzo, raggiungendo l’enorme cifra di 2.7 miliardi di tonnellate annue entro il 2030.

Certificazioni etiche e criteri ESG: molta apparenza, poca sostanza

Esistono certificazioni etiche apparentemente rigide, come la SA8000, che prevede – tra le altre cose – la verifica del rispetto delle norme in materia di sicurezza, uno stipendio adeguato e assistenza medica ogni qual volta necessaria. Peccato che per le società di auditing i profitti paiano venire prima della sincera preoccupazione per gli standard etici tanto sbandierati dalle aziende di abbigliamento. Le ispezioni sono pagate dalle stesse aziende che le commissionano, e le società di certificazione non hanno particolare interesse a “contraddire il loro cliente”. Senza contare che i report – spesso ingannevoli o tali da sottostimare i rischi – non sono accessibili a coloro i quali dovrebbero tutelare, ovvero i lavoratori.

Sono una decina le multinazionali che si contendono il ricco mercato delle certificazioni etiche, come la francese Bureau Veritas, la tedesca TUV, la britannica Interteck e anche l’italiana RINA, Registro Italiano Navale, organizzazione nata per classificare e certificare le navi mercantili, che poi ha notevolmente espanso il proprio business.

In generale, per pressoché quasi tutte le società di certificazione, la situazione degli standard applicati è abbastanza desolante, in quanto questi organismi paiono essere disponibili a molti compromessi pur di acquisire un cliente. Sono stati documentati casi – riferisce la Hengeveld – nei quali le ispezioni sono ampiamente preannunciate e “addomesticate”, solo una minima parte dei rischi per la salute e la sicurezza viene riportato nei rapporti, i contenuti dei report sono a volte copia-incollati da un’ispezione all’altra, il numero dei dipendenti sistematicamente sottostimato, e anche il banale dato delle ore lavorate al giorno viene falsificato e ridotto dalle reali 12/13 ore alle più tollerabili 8 ore.

Questi e altri sono i motivi alla base di disastri come quello della fabbrica di abbigliamento Ali Enterprises a Karachi, in Pakistan, dove 250 operai morirono intrappolati al primo piano del palazzo, dietro finestre con le sbarre di ferro, le uscite di emergenza chiuse a chiave, e senza estintori funzionanti. L’azienda era stata certificata SA8000 proprio dal RINA poche settimane prima del disastro. Fatti come questo fanno sorgere ovviamente molte preoccupanti domande, e seppure il RINA ha successivamente dichiarato di aver rivisto le sue policy di certificazione, la situazione non pare del tutto rassicurante.

Certo, da quei tempi sono stati fatti dei progressi, e SAI (Social Accountability International, l’organismo che elabora questo genere di standard) ha finalmente rilasciato due anni fa una versione rivista delle linee guida per la certificazione SA 8000. Ma la sensazione che comunque ne ricavo è che l’immagine di progresso sociale e dei diritti dei lavoratori fornita dalle aziende della moda, grazie alla complicità di queste società di certificazione, è molto distorta, ad usum Delphini, utile principalmente per rassicurare i cittadini e i clienti, che necessitano di serenità circa il profilo etico dei propri acquisti, in chiave green, così da auto-giustificare le proprie scelte di consumo. I prezzi predatori applicati dalle multinazionali del fashion alle forniture, inoltre, non fanno che peggiorare lo scenario, azzerando qualunque margine per migliorare le condizioni di sicurezza sul posto di lavoro e la qualità della vita di operaie e operai.

Un’ulteriore utile angolazione per osservare questo fenomeno, la fornisce Cesare Saccani, esperto in certificazioni e promotore di Get It Fair, uno schema di rating ESG che intende far tesoro di alcuni problemi verificati nell’ambito della certificazione dei sistemi di gestione.

“Al giorno d’oggi vi è grande attenzione alla valutazione dei rischi ESG, o non finanziari, ma non possiamo permetterci di commettere gli stessi errori già accaduti in passato nel mondo della certificazione di sistema di gestione. È necessario focalizzare l’attenzione sui rischi reali, piuttosto che sulle procedure puramente formali. Una cosa è verificare se l’azienda ha un sistema di manutenzione dell’impianto elettrico, tutt’altra cosa è verificare se i quadri elettrici sono in ordine, il circuito di terra funziona, etc.. Passare dalla mera verifica di conformità dell’azienda rispetto ai requisiti di un sistema di gestione, a una vera e propria stima del grado di esposizione a un rischio, è complicato. Lo è ancora di più se si deve soddisfare una domanda che chiede valutazioni dei rischi con carattere predittivo, orientata ai rischi di eventi che potrebbero accadere in futuro. Osservando quanto accaduto in passato, occorre innanzitutto fissare bene la soglia di aspettativa. Un esempio banale? Per un’azienda che produce torte, un sistema di gestione della qualità ben implementato dovrebbe assicurare che tutte le torte prodotte dall’azienda siano esattamente uguali alla ricetta pensata originariamente per la torta in questione, ma se la ricetta della torta è orribile, un sistema di gestione ISO 9001 ridurrà i rischi di deviazione del processo rispetto allo standard programmato e così facendo assicurerà soltanto che migliaia di torte saranno orribili allo stesso modo. Eppure, nel mondo si è diffusa la vulgata che la torta realizzata da un’azienda con sistema di gestione certificato ISO 9001 sia di per sé buona, e lo stesso accade per l’ambiente, la sicurezza o la responsabilità sociale”.

Per tentare di diffondere una cultura più attenta a comprendere scopi e finalità delle norme, e quindi le aspettative sulle certificazioni, Saccani ha recentemente promosso la costituzione dell’Associazione per la Responsabilità d’Impresa e Sviluppo Sostenibile “Diligentia ETS”. “Nell’ambito dei rischi non-finanziari, i metodi basati sull’ auto-valutazione o sulla compilazione di checklist hanno già ampiamente dimostrato tutti i propri limiti”, dichiara Saccani. “La valutazione dei ESG con carattere predittivo è impossibile senza effettuare un assessment presso l’azienda, grazie a auditor di comprovata esperienza, competenza e integrità, e ove possibile, superando i limiti della ‘frequenza e preavviso di un audit’ prestabiliti a priori. Passare da un preavviso di settimane se non più, a un preavviso di pochissimi giorni, sarebbe già un importante miglioramento. Purtroppo, nell’ambito della valutazione dei rischi ESG, non è possibile fidarsi di dichiarazioni o questionari di auto-valutazione compilati dall’azienda o, peggio ancora, di informazioni pubblicamente accessibili su internet, e ancor meno su di una visita soltanto, senza monitoraggi periodici, per capire se l’azienda sta peggiorando, mantenendo costante o migliorando il grado di esposizione ai rischi non finanziari. In definitiva, se tutto il processo fosse ri-orientato sulla concreta predizione dei rischi futuri, faremmo davvero grandi passi avanti”, conclude Saccani.

“Occorre sviluppare un’offerta di schemi e fornitori di servizi in grado di assicurare competenza, assenza di conflitti di interesse, ma soprattutto minore dipendenza da obiettivi di volumi commerciali e margini reddituali delle società di certificazione”, ha aggiunto la Dott. sa Giorgia Grandoni, ricercatrice del centro studi della start-up innovativa Reputation Management. “Tutto questo deve essere supportato da un mercato dei fornitori di servizi di consulenza più maturo, professionalizzato e meglio formato. Se tutto questo accadesse, probabilmente – sostiene Grandoni – non si verificherebbero molte delle distorsioni già verificate nel passato, che possono a posteriori impattare molto negativamente sulla reputazione delle imprese, la quale, come sappiamo, è l’asset immateriale più importante e di maggior valore per qualunque azienda”.

Non solo moda

Peraltro la situazione non pare migliore in altri comparti, come hanno denunciato due giornalisti in un servizio sul The Guardian: Philip Morris, British American Tobacco e Imperial Brands, ad esempio, comprano tabacco raccolto da immigrati africani in Italia sfruttati senza un contratto, con paghe nettamente inferiori a quanto stabilito dalla legge, costretti a lavorare 12 ore al giorno sotto il sole senza accesso all’acqua potabile e costantemente minacciati dai loro capi. Eppure nessuna di queste criticità è oggetto di analisi o di rendicontazione da parte delle multinazionali del tabacco, e tanto meno noi fumatori ci poniamo alcuna questione quanto acquistiamo un pacchetto di sigarette: “qualcuno forse se ne occuperà, non riguarda me”, è il pensiero che probabilmente ci passa per la testa. D’altro canto, i responsabili per la comunicazione esterna di queste multinazionali sottolineano come procedure e codici di condotta vengano applicati proprio per minimizzare questo genere di rischi e garantire standard contrattuali adeguati da parte dei loro fornitori: evidentemente, anche in questo caso tra quanto scritto su carta – e validato dalle società di certificazione – e la realtà, esiste ancora una significativa discrasia.

Nuove generazioni: qualcosa sta cambiando?

Conforta sapere che mentre le multinazionali si dedicano al “maquillage” nel tentativo di convincere i cittadini delle loro (presunte) intenzioni etiche, questi ultimi paiono invece privilegiare un approccio responsabile e sostenibile. Secondo il 6° Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile di LifeGate, se nel 2016 solo il 7% di persone dichiarava di acquistare capi di abbigliamento naturali o sostenibili, nel 2018 questa percentuale è aumentata all’11%, e nel 2020 al 16%.

A guidare questo cambiamento sono in particolare le giovani generazioni, come dimostra il rapporto The state of fashion, elaborato dalla società di consulenza McKinsey e dalla rivista The business of fashion, che afferma che già il 31% per cento dei consumatori appartenenti alla generazione Z, la generazione che detterà i trend di mercato nei prossimi anni, dichiara di essere disposta a pagare qualcosa di più per prodotti con il minor impatto ambientale. La speranza quindi è che le aziende possano essere incentivate a cambiare nel concreto, anche se il processo virtuoso non sarà certo breve.

Tornando in conclusione al disastro dei 250 operai morti in Bangladesh, il RINA, che aveva confermato la fabbrica come pienamente rispondente ai requisiti di certificazione, si è inizialmente rifiutato di collaborare con chi poneva domande per comprendere quanto accaduto quel giorno, ha “secretato” i rapporti e i documenti di audit rendendoli indisponibili alla pubblica opinione, ha sostenuto che la fabbrica era conforme agli standard “il giorno dell’ispezione” (sic!) e si è dichiarata indisponibile a risarcire in modo congruo le famiglie dei morti.

Davvero uno scenario preoccupante per un organismo di certificazione che dovrebbe a sua volta vigilare sugli standard etici delle aziende, ma – come al solito – business is business.


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