Ho già scritto a più riprese circa le aziende con disturbi d’identità. In un mio precedente articolo citavo Giano bifronte, un’antica divinità romana, rappresentata con una testa bicefala: era il protettore di tutto ciò che concerne “una fine e un nuovo inizio”, ma – sicuramente a causa delle sue “due facce” – nella cultura popolare iniziò presto a essere simbolo di doppiezza, “di una cosa del suo opposto”; citai anche Pinocchio: il personaggio di legno inventato da Collodi, protagonista del poetico film di Matteo Garrone con Roberto Benigni, uscito a Natale scorso, sa essere buono, ma cade spesso nella tentazione di farsi trascinare da brutte compagnie, e nell’immaginario popolare è anche simbolo di bugia, con il suo naso che si allunga a dismisura quando mente, fino puntualmente a cacciarsi nei guai.
È una fedele descrizione anche delle più note compagnie telefoniche presenti nel nostro Paese, ovvero Vodafone, TIM – sponsor unico del Festival di Sanremo – Wind-Tre e Fastweb (e chissà se le newentry come Iliad sono fuori da questa bufera solo perché essendo entrate dopo sul mercato italiano non hanno ancora avuto il tempo di turlupinare gli utenti): colossi sempre pronti a magnificare il proprio impegno sociale, l’attenzione al Cliente e la riduzione dell’impatto ambientale, salvo poi manipolare il mercato ai danni dei cittadini, senza alcuna remora etico-morale.
Ecco i fatti in sintesi: l’Antitrust aveva sanzionato per complessivi 228 milioni di euro i quattro colossi della telefonia “accertando un’intesa anticoncorrenziale dolosa relativa al cosiddetto “repricing”, ovvero il passaggio dalla fatturazione a corpo, ogni mese, a quella per settimane. Fatturando ogni 4 settimane, invece che una volta al mese, i gestori emettevano fatture ogni 28 giorni, e non solo l’ultimo giorno del mese, guadagnando un bel po’ di giorni di fatturazione all’anno (per essere precisi, 13 fatture emesse in un anno in luogo di 12), che si traducevano in un aumento medio degli oneri a carico degli utenti tra l’8 e il 9%, giudicato fraudolento dalle autorità di controllo. Ma non era bastata la decisione dell’AgiCom, perché le 4 aziende avevano resistito e fatto ricorso, stabilendo possibilità di rimborso parziali, solo per quei cittadini che ne facessero richiesta, e comunque mediante farraginose procedure burocratiche: alla faccia dei principi di trasparenza e vicinanza agli utenti declamati nei rispettivi Bilanci sociali.
La più ferma nel “resistere” tramite i propri avvocati, e quindi nel penalizzare gli utenti, si è rivelata essere Vodafone: l’azienda è sempre in grande spolvero quando si parla di CSR, al punto che il Presidente di Vodafone Italia, Pietro Guindani, sottolinea nel bilancio di rendicontazione “L’attenzione che Vodafone porta ai temi della responsabilità imprenditoriale, sociale e ambientale”, salvo poi assumere comportamenti ai limiti della truffa – come nel caso della fatturazione sanzionata dal Consiglio di Stato – o comunque non certo in linea con un’azienda attenta alle reali esigenze degli utenti.
Ora è arrivata – impietosa – la sentenza del Consiglio di Stato: illegittimo il comportamento, giudicato “sleale” ed “eversivo”, e quindi rimborsi automatici per tutti i cittadini, senza inoltre bisogno di farne esplicita richiesta al proprio gestore.
Come scrivevo in un mio precedente articolo la teoria della Responsabilità Sociale d’Impresa prevede un approccio “caldo” al mercato e agli stakeholder: la capacità di applicare un modello di business “dal volto umano”, irrobustendo le relazioni con i pubblici dell’azienda così da creare nel tempo valore duraturo per gli azionisti.
C’è un settore però dove la sostenibilità pare trovare più alte barriere all’ingresso, ed è proprio la telefonia: il contesto competitivo tipico di quel mercato – per certi versi più simile a quello delle commodities che a quello industriale in senso stretto – comporta altissimi investimenti infrastrutturali a fronte di una bassa marginalità di profitto, unita al fatto che una volta superato il break-even in un’area o mercato ogni utente in più è utile a costo zero, o quasi. Il settore della telefonia è quindi il tipico caso di “commoditizzazione” di un’azienda: agli occhi dell’utente finale, un operatore telefonico vale l’altro, essi vengono scelti quasi esclusivamente sulla base del prezzo e delle offerte speciali di volta in volta disponibili, cartina di tornasole della bassa fidelizzazione al brand, causata però in buona parte proprio dal – consapevole – mancato inserimento di preoccupazioni etiche nel business da parte degli operatori telefonici stessi, ben lontani dal concetto di Lovemark come inteso nel reputation management.
I clienti in certe fasi della catena del valore sono percepiti sempre più come un “problema”: ad esempio, più clienti chiamano i call-center, più operatori è necessario assumere, più aumenta il costo per contatto, più si riducono le marginalità, esponendo le società alla mannaia dei “mercati”, con i titoli in borsa sempre sotto l’occhio critico e cinico degli analisti, pronti a ridurre i rating pregiudicando gli investimenti a breve termine e anche i bonus del management, non appena un gestore telefonico perde uno “zero virgola” di quota di mercato.
La “quota di mercato” sembra appunto essere il giudice unico e ultimo di ogni azienda quotata, e questa impostazione basata solo sulla shareholder value è evidentissima, in particolare, nel mondo dei gestori telefonici: comunicazione marketing-oriented, inconsistenza del servizio post-vendita e di assistenza tecnica, campagne pubblicitarie martellanti, ossessive, invadenti e aggressive, con aziende che si azzuffano per metterci in tasca una SIM in più, magari legandola all’omaggio un nuovo telefonino, a una tariffa più conveniente o a una testimonial più svestita di quella della concorrenza. Questo modello di business – che ha come risultato una bassissima fidelizzazione del cliente – è, nella pratica, la vera e propria negazione del principio “I care” tipico della CSR, ed è nel contempo anche la negazione dei presupposti stessi per la creazione di una comunità di marca stabile e duratura.
Concludo ricordando che il guadagno netto a favore dei gestori telefonici, derivante dall’astuta e ingannevole operazione fraudolenta della fatturazione ogni 4 settimane solari, si è rivelato essere in media tra i 20 e i 30 euro all’anno ad utente: eccolo, in tutta la sua disarmante pochezza, il prezzo della dignità.