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La ricerca di senso, ingrediente essenziale della felicità, non è solo una ricerca interiore, ma ha una dimensione sociale. Il lavoro può essere un’esperienza chiave

Poter attribuire un significato, un senso, alla propria vita è una delle precondizioni fondamentali per potersi sentire “felici”. Nel senso aristotelico di “eudaimonia”, essere felici, infatti, significa, innanzitutto, avere uno scopo nella vita, coltivare le virtù e fiorire come persone. Ed essere virtuoso non vuol dire solamente praticare le virtù ed orientarsi al bene, perché, etimologicamente, “areté” stava ad indicare, prima di tutto, il “fare bene qualcosa”, l’eccellenza. Non a caso parliamo di un “pianista virtuoso” o di un “virtuoso della racchetta” per indicare, non tanto il loro orientamento al bene, ma la loro capacità di fare bene, di essere eccellenti. Allora, sarà virtuoso colui che sarà riuscito a coltivare e far fiorire, mettendole in atto, le proprie capacità, i talenti, le conoscenze, chi avrà compreso e seguito, in definitiva, la voce del suo “dáimōn”.

La ricerca di senso

Ma la ricerca di senso, ingrediente essenziale di questa felicità virtuosa, non è solo una ricerca interiore. Essa ha, infatti, una dimensione sociale, contestuale, culturale. Perché il senso è qualcosa che lega le esperienze, che assegna un posto agli avvenimenti, che illumina le scelte e che ci mette in relazione con un quadro più ampio fatto di storie e di persone. E non si tratta solo, come nella definizione di Roy Baumeister, di “un insieme di rappresentazioni mentali di possibili relazioni tra cose, eventi e rapporti” (“Meanings of Life”, Guilford, 1991), perché la possibilità di attribuire un significato a ciò che facciamo deriva, innanzitutto, dalla possibilità di inserirlo in un contesto sovraordinato.PUBBLICITÀ

Se il significato immediato di un’azione deriva, infatti, dalla sua finalità, questa, a sua volta, trova senso nella motivazione dell’azione stessa, e questa, poi, si inserisce in una visione più ampia della vita individuale che, infine, può maturare solamente, con riferimento a qualcosa che la trascende e la avvolge. Per questo il significato del singolo gesto può essere compreso appieno solo nell’ambito di un contesto più ampio, che supera l’individualità del singolo, connettendolo, al tempo stesso, ad altri e ad altro. È il “regno dei significati” di cui parlava Alfred Adler nel quale si sviluppa la finalità ed emerge la guida alla nostra stessa vita, come suggerisce Victor Frankl.

Oltre l’individuo

Riflettere sull’importanza del contesto nel processo di costruzione del senso ci aiuta anche a dar conto di quel fenomeno che, in altre occasioni, ho definito “espropriazione esistenziale”: una forma di deprivazione così profonda da cancellare senso, finalità e appartenenze e che genera quel disorientamento collettivo avvertito da fasce non marginali della popolazione e che può sfociare in fenomeni anche quantitativamente rilevanti come quello dei “bullshit jobs”, dei populismi identitari, o delle tragiche “morti per disperazione” di cui sempre più frequentemente sentiamo parlare.

In che modo è cambiato il contesto di riferimento per determinare una tale incapacità di trovare o generare un significato profondo per le nostre esistenze? È interessante, a questo riguardo, la lettura che propone lo storico Yuval Noah Harari, secondo il quale tale mutamento non è altro che il principale frutto del progetto della modernità. Progetto che si fonda su un patto faustiano in virtù del quale “gli esseri umani accettano di rinunciare al significato in cambio del potere” (“Homo Deus”, Bompiani, 2015). Nel quadro premoderno gli uomini riuscivano a trovare un senso alle loro, spesso non facili, vite perché erano collocate in un progetto cosmico, fatto di finalità, voluto e governato da grandi dèi moralizzanti e onniscienti. Trovare il senso significava, in questo contesto, scoprire e giocare il proprio ruolo in un piano sovraordinato e orientato al bene individuale e collettivo.

Il senso nell’età premoderna

Ogni esperienza della vita, così, sia gioiosa che tragica, poteva acquistare un senso, perché parte integrante di questa storia già scritta. “Non siamo al corrente del copione – continua Harari – ma possiamo essere certi che tutto accade per una ragione. Persino quest’orribile conflitto – o pestilenza, o siccità – ha un significato nel più ampio schema delle cose. Inoltre, possiamo fidarci del drammaturgo: di sicuro la nostra vicenda avrà una conclusione positiva e ricca di significato. Per cui anche la guerra – o la pestilenza, o la siccità – porterà qualcosa di buono: se non qui e ora, per lo meno nell’aldilà”. Ma questo copione, mentre, da una parte, forniva valore ad ogni gesto, scelta e accadimento, al tempo stesso, ingabbiava tutti in ruoli e vicende predeterminate e li condannava a finali già scritti. Ecco perché il prezzo da pagare per poter trovare un senso alla propria vita era nientemeno che la rinuncia al proprio arbitrio.

La modernità rifiuta questa visione, straccia il copione e rivendica potere e autonomia. Così facendo, però, finisce per far sparire anche quel contesto comune di riferimento, che era bussola necessaria per dare senso all’esistenza. “La nostra vita non ha copioni, drammaturghi, registi o impresari – e non ha un senso”, conclude Harari.

La modernità e la ricerca del potere

Ma la mancanza del copione, però, mette in moto anche una reazione salutare, scatena la creatività e libera le energie del cambiamento. Se le pestilenze e le calamità naturali non hanno un significato trascendente, non dovremmo più accettarle passivamente, ma piuttosto iniziare a difenderci, a combatterle e, possibilmente, a sconfiggerle. Da una parte, quindi, la “hybris” e la “téchne” e, dall’altra, l’assoluta insignificanza davanti al progetto del cosmo. “Un’incessante ricerca del potere dentro un universo svuotato di senso”. Non è difficile rinvenire in questo snodo cruciale la causa remota di fenomeni epocali come la spaventosa pressione antropica che stiamo esercitando sulla terra coi i cambiamenti climatici, le ondate migratorie e le intollerabili diseguaglianze.

Per cambiare le cose, perché occorre farlo e piuttosto in fretta, non è necessario, però, invertire la rotta. Per ricostruire un contesto capace di favorire la generazione di senso e limitare l’uso in-sensato del potere della tecnica, occorre, semmai, una accelerazione in avanti. Occorre sfruttare una “clausola di recesso” inserita nel patto della modernità: la possibilità di dar vita ad una narrazione alternativa, non esclusivamente vincolata alla dimensione trascendente, ma che sia, comunque, in grado di giustificare il nostro “esser-ci”, il nostro “Dasein”, lo stare al mondo e viverlo significativamente. Sfruttare questa clausola vuol dire distogliere lo sguardo fissamente rivolto al mediatore sacrale – Dio, Stato, Mercato – e rivolgerlo verso chi ci sta a fianco. Nel frontespizio della prima edizione del “Leviatano” di Hobbes sono raffigurati centinaia di piccoli omini che formano il corpo del gigante, coi suoi simboli dell’autorità e del potere. Centinaia di piccoli omini che, pur essendo stretti tra di loro, non incrociano lo sguardo di nessuno. Vicini ma immunizzati dal contatto con l’altro. In rapporto con l’altro solo attraverso l’intermediazione del potere del “Deus mortalis”. La svolta del nuovo umanesimo, che può aiutarci a superare i vincoli del patto e a riconquistare la nostra capacità di generare senso, passa, innanzitutto, per la scelta originaria di incrociare lo sguardo di chi ci sta a fianco e di farci interpellare dal suo volto.

La dignità del lavoro umano

In questo quadro ampio si comprende meglio, credo, anche il ruolo altissimo e la dignità intrinseca del lavoro umano, proprio perché lavorare significa umanizzare il mondo e questo trova senso solo se il lavoro è fatto con gli altri e per gli altri. Queste due dimensioni di socialità e gratuità non possono non essere poste al centro di un ripensamento profondo dell’organizzazione del lavoro nel quale la nostra cultura, oggi, ha bisogno, necessariamente, di impegnarsi a fondo. Né merce di scambio, né solo strumento per la sussistenza, il lavoro può e deve essere principalmente espressione della spinta umana verso l’eccedenza. Ripensato e rivalutato nella complessità dei suoi molteplici significati.

Sappiamo da tempo quali sono le dimensioni che più influenzano il processo di generazione di senso, anche attraverso il lavoro: hanno a che fare con il valore intrinseco dell’attività in sé, con la possibilità di uno sviluppo e di una crescita personale, con il valore strumentale della sua utilità per sé e per gli altri e, infine, con la socialità che favorisce e include. Se il senso che attribuiamo a ciò che facciamo può essere pensato come una serie di rimandi tra la percezione individuale delle nostre azioni e il contesto sovraordinato all’interno del quale operiamo, allora attivare processi di cambiamento nel nostro contesto culturale, figlio diretto del patto della modernità, potrà aiutare a creare le condizioni che facilitano la generazione di senso individuale e condiviso. Se da una parte, fortunatamente, le grandi organizzazioni pubbliche e private sentono sempre più la pressione verso cambiamenti dettati dalle nuove responsabilità ambientali, sarebbe anche ora di iniziare ad esercitare una la spinta analoga per promuovere modalità innovative di progettazione e di gestione del lavoro, affinché possa sempre più e sempre meglio rispondere a quella “volontà di senso”, per usare l’espressione di Frankl, che sempre più diffusamente viene oggi considerata una esigenza umana fondamentale.

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