Come Funziona l’Algoritmo dei Principali Social
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Si discute continuamente degli algoritmi e di come di fatto questi condizionino sempre più la nostra vita digitale, e dunque in ultima analisi, una parte sempre più consistente della nostra vita, del nostro tempo, e naturalmente di quale sia l’impatto per marketers e comunicatori, per brand, imprese, enti ed organizzazioni.
Una buona raccolta delle discussioni al riguardo è quella realizzata dagli amici di Dig.IT, ma in realtà essendo gli algoritmi fondamentalmente un procedimento sistematico di calcolo proprietario nessuno conosce esattamente il loro funzionamento, i criteri di calcolo, che sono noti soltanto a chi lo ha creato, a chi ne è, appunto, proprietario.
Dall’inizio dell’anno ad oggi le discussioni, le analisi, si sono concentrate prevalentemente su quello di Facebook, che dal 2009 ad oggi ha avuto numerosissimi aggiornamenti e relativo impatto sul news feed, ma degli oltre 100mila parametri che lo costituiscono se ne conoscono fondamentalmente solo i tre principali: affinità, peso e tempo di decadimento, anche perché essendo personalizzato non ne esiste comunque una versione unica ed universale [ndr: diffidare di chi invece vi dice di essere in grado di calcolarlo ed altre panzane].
In base a quanto ha comunicato nel tempo Facebook, spesso tutto da decodificare ed interpretare, ed in funzione dell’esperienza, è però possibile identificare con buona approssimazione, al di là dei tre principali parametri succitati, quali siano complessivamente alcuni degli altri fattori che determinano una maggior o minor visibilità di un post. Tra questi, ad esempio, come ho avuto modo di confutare sin dalla mia esperienza in qualità di social media editor de “La Stampa”, le condivisioni di post dalle fanpage di brand e newsbrand, soprattutto se generano ulteriori discussioni, sono uno dei criteri fondamentali in base al quale aumenterà, o meno, la reach, la portata, e dunque la visibilità, di un post.
Un ottimo contributo al riguardo arriva in questi giorni da parte di Ste Davies che ha pubblicato “Decoding the Social Media Algorithms. A Guide for Communicators”, in cui sviluppa e finalizza delle ipotesi estremamente ragionevoli e realistiche, tanto da indurre qualcuno a presentarle come un “leak” partito dall’interno del social più popoloso del pianeta, sul funzionamento dell’algoritmo oltre che di Facebook anche di Twitter, YouTube ed Instagram. Vediamole, iniziando proprio da Facebook che, che che se ne dica, tra i social resta comunque il referral più importante.
Si parla sempre dell’algoritmo di Facebook, e del suo impatto, come visto, mentre restano marginali gli altri social che invece hanno assolutamente un loro significato, valore e ruolo nell’ambito della comunicazione d’impresa.
Twitter, in newswire per eccellenza la cui notorietà è da sempre alle stelle mentre così non è per quanto riguarda l’utilizzo, ha complessivamente, nella mia esperienza, una reach ancora minore rispetto a Facebook con i tweet che mediamente raggiungono, che vengono visualizzati. al massimo tra il 2 ed il 5% dei follower.
L’algoritmo di Twitter, o “Algorithmic Timeline”, come lo chiama Twitter, è stato introdotto nel 2016 . Prima di allora, quando si effettuava l’accesso a Twitter il feed era in ordine cronologico inverso con gli ultimi tweet delle persone che si seguono nella parte superiore della pagina, mentre oggi non è più così. Inoltre, una nuova modifica all’algoritmo di Twitter è stata annunciata di recente, a Febbraio di quest’anno.
L’intenzione dell’algoritmo di Twitter è di rendere la timeline più pertinente, in modo che gli utenti possano cogliere i tweet importanti dalle persone con cui normalmente hanno maggior engagement che altrimenti perderebbero. Vediamo cosa ragionevolmente sappiamo dell’algoritmo della piattaforma di microblogging.
Anche Instagram da metà 2016 ha introdotto un proprio algoritmo. Se prima la vita media di un post sulla piattaforma social di foto [e video] era di 72 ore, adesso può essere mostrato per molto più a lungo, o naturalmente per un tempo molto più breve.
In tal senso il principale fattore discriminante è l’engagement. Più like, commenti, mi piace, post salvati, risposte DM e inviati tramite DM ricevuti da un post, maggiore sarà la ponderazione dell’algoritmo. Oltre a questo i principali fattori di ranking di un post sembrano essere i seguenti.
Mentre l’algoritmo di LinkedIn non è stato al centro di tante polemiche come quello di Facebook o Twitter, ha certamente avuto qualche “incidente di percorso” lungo la strada. Ad esempio, a Settembre 2016, LinkedIn è stato accusato di mostrare una preferenza per gli uomini rispetto alle donne quando vengono cercati potenziali candidati utilizzando la funzione di ricerca.
LinkedIn è forse stato uno dei social più aperti sul funzionamento del suo algoritmo. Nel marzo dello scorso anno, il team dedicato ai dati ha pubblicato un post sul blog intitolato “Strategie per mantenere pertinente il feed di LinkedIn” che includeva un diagramma dell’algoritmo su come combatte lo spam. Quello che emerge dal post è che LinkedIn utilizza sia l’intervento umano che il suo algoritmo per determinare la qualità del contenuto. Se un post inizia ad avere molto coinvolgimento, “le persone reali su LinkedIn” lo analizzeranno e decideranno se è abbastanza buono da essere visto da un pubblico più ampio sulla piattaforma.
Oltre a questi criteri generali, i fattori primari di ranking sembrano essere i seguenti:
Ultimo ma non ultimo, quello che sia per intensità di utilizzo che per numerosità di utenti è il secondo social nel mondo occidentale: YouTube.
L’algoritmo di YouTube è stato sviluppato per servire quelli che contribuiscono maggiormente al sito. Ciò si riflette in alcuni dei fattori di ranking che si basano sulla coerenza di pubblicazione e sul numero di “abbonati” di un account. Sistema che anche recentemente ha generato numerosi problemi, e critiche.
Oltre a richiedere una pubblicazione di circa 2/3 volte a settimana per ottenere la trazione algoritmica, i principali fattori alla base dell’algoritmo della piattaforma social di video sono:
Se volessimo trovare un conclusione critica potremmo tranquillamente dire che in realtà i social sono quanto di meno social possa esistere, almeno in termini di equivalenza tra socializzazione ed apertura. Walled gardens costruiti su regole e criteri unilaterali per mantenere al loro interno il più a lungo possibile gli utenti, le persone, con il fine ultimo di estrarre il maggior numero di dati da rivendere in diverse forme e formati.
D’altro canto, piaccia o non piaccia, sono assolutamente ciò che maggiormente impegna e coinvolge le persone in Rete, confermando, se necessario, che l’essere umano è un “animale sociale”, e dunque restano un punto di contatto, di relazione e di comunicazione per brand e newsbrand.
In quanto tali sono sempre più rented, endorsed e boosted media al tempo stesso. Soprattutto sono canali di monitoraggio della reputazione, attraverso appunto il social media monitoring, medium di ascolto ed indagine delle tendenze, grazie al social media listening, e fonte inesauribile di dati, grazie al social media mining. Utilizzi che sin qui sono stati assolutamente marginali e che costituiscono invece la base minima, la vera chiave di volta del social media marketing e dunque dell’utilizzo delle diverse piattaforme social in chiave di corporate communication. Altro che piattaforme di distribuzione e fonte di traffico.
Temi che naturalmente, se interessasse approfondire, ci vedono a disposizione come gruppo di lavoro, e che saranno al centro del programma del nostro master in giornalismi e comunicazione corporate.