Per diminuire il rischio degli asintomatici, bisogna tracciarli. E c’è un solo modo che permette di individuare il grosso di questi reparti d’assalto del virus: usare i dati dei social.
La sfilata dei camion militari di Bergamo equivale alle prime immagini dei sacchi neri con i corpi dei caduti americani in Vietnam che arrivarono nel Sessantotto nelle case statunitensi. Da quel momento la guerra fu di tutti, senza illusioni e esorcizzazioni. Ora si tratta di reggere all’offensiva, di trovare il Piave per non far dilagare il contagio.
Una ricerca degli scienziati della regione toscana svolta a Vo’, il comune veneto epicentro dell’epidemia italiana, ci dice che oltre il settanta per cento dell’infezione che ha coinvolto tutta la popolazione comunale è stata indotta dagli asintomatici giovani. Esattamente come spiegava nel suo saggio Tomas Pueyo che abbiamo riportato proprio su queste pagine. Sono proprio le figure sociali più dinamiche e resistenti che infettatesi nelle fasi iniziali del contagio, quando ancora non era scattato l’allarme, oggi producono gli effetti a cascata che contiamo ogni sera con le drammatiche conferenze stampa della protezione civile.
Gli asintomatici sfuggono a tutte le griglie selettive del sistema sanitario, come ospedali e medici di base, e presumono per altro di avere anche la possibilità di una maggiore circolazione.
Intervenire su questi micro focolai itineranti è indispensabile e urgente. C’è un solo modo che permette di individuare il grosso di questi reparti d’assalto del virus, tracciarli e recintarli o, comunque, sapendo dove si concentrano, pianificare in quelle aree gli sforzi maggiori sull’infrastruttura sanitaria: i social.
Come ci hanno spiegato tutti gli epigoni di Cambridge Analytica, sono i social il luogo dove si rileva ogni impercettibile increspatura umorale ed emotiva, permettendo di realizzare un microtargeting di precisione che mette nel mirino individui e singoli gruppi omogenei su cui intervenire. I listini di borsa ci raccontavano come questa tecnica produca centinaia di miliardi di fatturato per gli OTT. Google e Facebook già fanno queste azioni di scannerizzazione sociale, da anni, e usano e rivendono i dataset localizzati che ricavano dalle loro elaborazioni.
Per cui il problema ora non è come esporre i cittadini a un controllo sociale, ma come usare questa strategia di analisi e profilazione di massa per un interesse universale indifferibile, quale quello della sopravvivenza. Ogni fisima garantista, ogni pedante richiesta di certezze sulle forme della profilazione, che non sia stata già diretta nei confronti di coloro che da tempo fanno strame dei nostri diritti, in virtù di un fine speculativo che diventa anche, come proprio Cambridge Analytica dimostra, una palese interferenza nelle nostre libertà. Il punto allora non è come lo Stato e le comunità locali fanno quello che già fanno Google e facebook, ma quando.
Dovremmo essere proprio noi cittadini a chiedere agli organismi istituzionali di fare presto, proprio come titolavano i giornali all’indomani del terremoto in Irpinia: “fate presto”. Altro che giocare con dettagli procedurali. Dobbiamo fare subito una mappatura dei punti di disagio e di pre-incubazione che sono rilevabili semanticamente sui social.
A livello nazionale il governo dovrebbe indicare un centro di responsabilità riconoscibile, un comitato interministeriale, in cui i dicasteri di sanità, innovazione, ricerca e delle regioni possano definire obbiettivi e procedure a partire da un negoziato con le piattaforme della sorveglianza privata che devono concedere le API, le chiavi digitali, per accedere ai dataset che già loro raccolgono.
Questi dati devono confluire in un cloud computing pubblico che renda trasparente la mobilità dei dati individuali in nome di un fine comune: individuare le fonti reali del contagio. In questo spazio vanno sovrapposti i dati ricavati dai social, con i flussi della mobilità telefonica che sono già usati da alcune regioni, come la Lombardia. Ma senza i social le celle della telefonia mobile ci dicono solo che qualcuno si sposta da un punto all’altro.
Ora l’evasione di massa dalle zone più infestate si è esaurita, e dobbiamo capire chi spostandosi ha trasportato il virus in territori dove altri giovani asintomatici l’hanno raccolto. Dobbiamo tracciare questo passaggio: il momento in cui un residente in una data regione, anche inconsapevolmente, segnala un proprio, seppur minimo, disagio, un raffreddamento, qualche colpo di tosse, stanchezza o mucose arrossate. Da qui deve partire la caccia.
Per fare questo bisogna disporre di un cruscotto semantico per interrogare i database. È su questa funzione che si gioca tutta la partita: come individuare quelle parole chiave, le famose keyword, che permettono di intercettare i sentiment in rete. Una prima forma di base è già stata allestita alla Sapienza nel corso della professoressa Felicia Pelagalli, selezionando le parole del raffreddamento. Ora bisogna andare oltre, e declinare questi termini secondo pratiche, esperienze e culture regionali.
Un ragazzo di Bolzano segnala un’eventuale sua contrarietà in maniera diversa di un calabrese o di un sardo. Su queste sfumature bisogna lavorare per avere la massima focalizzazione e poter setacciare i maniera più focalizzata possibile le zone dove vivono i casi d’insorgenza dell’incubazione.
A Napoli, nel corso di Marketing e nuovi media della Federico II, stiamo sgrezzando un primo nocciolo semantico, e su questa base speriamo di poterci interfacciare quanto prima con le competenze delle aree informatiche e sanitarie per ancorare questo vocabolario alle modalità più pertinenti del fenomeno e con le dinamiche più aderenti alle logiche dei social. Siamo alla vigilia di un prossimo picco nelle regioni del centro-sud, dobbiamo fare presto subito, dando a ognuno la certezza della trasparenza, dell’uso pubblico e soprattutto delle responsabilità nominative e identificate di quest’operazione.
È una mobilitazione dei saperi, di abilità e di volontà, che mette in campo una logica che non a caso si chiama virale, che avrebbe la stessa potenza, mobilità, e adattabilità del coronavirus.
Se non ora, quando?