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Suggerimenti per i leader (e non solo) dal MIT Sloan Management Review.


Immaginare il futuro senza il Covid-19 (o in compagnia del virus) appare, ancora oggi, una faccenda da futurologi più che da esperti. Le pubblicazioni scientifiche, nonché alcune politiche pubbliche, parlano apertamente della necessità di abbracciare un modello ‘trial-and-error’, e cioè di accettare l’idea che i decisori saranno esposti a scelte sbagliate, dovute alla necessità di esplorare l’ignoto. Di conseguenza l’obiettivo di questo post non è provare a spiegarvi come andranno le cose, perché non lo so. Piuttosto mi piacerebbe condividere ciò che mi ha colpito in questo approfondimento sulla rivista scientifica pubblicata dal Massachusetts Institute of Technology, perché potrebbe dare spunti interessanti per affrontare il presente in modo efficace, il che sarebbe già una gran cosa.


1. Come prendere decisioni migliori

L’aumento del tasso di incertezza del contesto di riferimento e dello stress, e il conseguente sovraccarico emotivo, induce a una distorsione cognitiva assolutamente frequente, che gli esseri umani conoscono molto bene in situazioni di paura: fermarsi di scatto, congelarsi. Ma queste distorsioni, una volta isolate, possono essere combattute, ridotte se non addirittura eliminate. Cosa fare, dunque, per evitare che le emozioni primarie “negative” compromettano la qualità del processo decisionale?

a. Sfidare lo status quo. Non è detto che la soluzione ‘si è sempre fatto così’ sia la migliore durante una crisi di sistema. Anzi.

b. Sfuggire dai frame, dalle cornici di senso pre-codificate e spesso onnicomprensive che permettono agli esseri umani di semplificare il processo decisionale nella vita quotidiana (per esempio gli stereotipi o i pregiudizi) ma che potrebbero essere controproducenti ora. Serve un approccio da “esploratori” più che da “esperti”, e questo vale soprattutto per i decisori pubblici o per chi ha responsabilità di leadership, di qualsiasi natura.

c. Evitare di pensare che a un certo punto tutto tornerà sicuramente come prima.Questo atteggiamento potrebbe portare a non prendere decisioni rilevanti, a puntare tutto sul fattore tempo, a sperare che la pandemia finisca presto e che causi il minor numero possibile di trasformazioni. Così, però, si cede volontariamente il controllo delle operazioni a fattori esterni e non controllabili. Il “tutto tornerà come prima” è una scommessa molto rischiosa, e in certi comparti economici appare, ora come ora, un vero e proprio azzardo.

2. Come gestire i cambiamenti che ci saranno

Il virus è davvero una ‘livella’, che riguarda tutti e in modo indistinto? Probabilmente no. Una famiglia numerosa che vive in 50 metri quadri incontrerà difficoltà assai maggiori rispetto a una coppia che vive in 200 metri quadri. Ma questo esempio spiega il contesto attuale solo in parte: si parte infatti da una diseguaglianza pre-esistente, che la pandemia ha reso più evidente e che comporta scompensi proporzionali. C’è però un elemento che, almeno per il momento, appare sufficientemente “democratico”: la crisi economica colpirà (con intensità diverse) più o meno tutti, in modo diretto o indiretto, e non è detto che i ricchi si salveranno mentre i poveri no. Questo elemento non rappresenta però un alibi per i leader e per i manager, ma è esattamente vero il contrario: senza comprensione emotiva della situazione, senza consapevolezza che oggi non si può pensare di chiedere alle persone ciò che le persone al momento non possono dare, non ci sarà possibilità di ricevere in cambio la stessa comprensione da parte delle proprie comunità di riferimento quando la capacità (e la volontà) di spesa o di impegno tornerà a risalire. Cosa fare, dunque, per accompagnare i cambiamenti — che almeno per qualche tempo ci saranno — in modo corretto?

a. Porre le persone al centro del processo decisionale. Questo principio vale per i collaboratori (che mai come adesso andrebbero ascoltati, prima di tutto per aiutarli a ridurre ansia, stress e paura del contagio), come per i clienti, e allo stesso modo con la comunità nell’accezione più ampia del termine, dalle community sui social media ai contributi (economici, intellettuali, di empatia) che si possono dare al proprio territorio di riferimento per alleviare gli effetti della crisi pandemica.

b. Decentralizzare senza timori. Lo smart working forzato — nei comparti in cui è possibile farlo — ha improvvisamente fatto venire al pettine un nodo nel rapporto tra chi “comanda” e chi “riceve gli ordini”: quanto i primi si fidano dei secondi? Quanto la presenza fisica nello stesso ufficio rappresenta una reale esigenza gestionale e quanto è solo il tentativo di controllare le persone?Quanto spesso si pensa che un lavoratore in remoto, in fondo, sfrutti questa situazione per lavorare di meno? La questione è cruciale e andrebbe affrontata in qualsiasi organizzazione, per due motivi: 1. se si ritiene che i propri collaboratori lavorano meno se non controllati, bisognerebbe o poterlo dimostrare o al contrario sfruttare la situazione per provare a chiarire una volta per tutte la ragione del pregiudizio, anche perché 2. è possibile che i momenti di smart working, nei prossimi mesi, saranno molti. E governare un’organizzazione guidati dalla paranoia non è una strategia che può essere considerata efficace.

c. Accettare l’idea che si può lavorare bene anche viaggiando di meno. A questo punto del percorso si può iniziare a calcolare, con grande serenità, il numero di viaggi che nel recente passato si sarebbero potuti evitare per partecipare a riunioni e appuntamenti che in queste settimane sono stati tranquillamente surrogati in remoto. Di conseguenza ci si può anche chiedere se in futuro si tornerà a viaggiare come prima, come se niente fosse accaduto, o se questa pandemia può aver obbligato a comprendere che se da un lato la dimensione fisica di certi passaggi della vita sociale e lavorativa non sono sostituibili con le chat e le videocall, ce ne sono altri su cui invece si potrebbe in futuro risparmiare tempo e denaro, contribuendo anche a ridurre l’impronta inquinante (l’emergenza climatica resterà tra i temi in agenda per i prossimi decenni).

d. Superare la timidezza nelle relazioni istituzionali. La retorica “ne usciremo tutti insieme” è condivisibile? Allora bisogna essere conseguenti. Tutti possono aiutare tutti in questo momento, mettendo l’etica e le persone davanti a tutto (più che mai) ma non per questo rinunciando a un po’ di coraggio. Essere coraggiosi può voler dire tante cose, dal dire ai clienti ciò che non si aveva la forza di ammettere, al parlare coi politici in modo più radicale di quanto si è fatto in passato per timore di ritorsioni. Il futuro fa paura; un futuro anticipato da un presente in cui non sia stato fatto il possibile per renderlo meno spaventoso ne farebbe ancora di più.

3. Come gestire lo stress

La separazione degli spazi di vita da quelli di lavoro (e viceversa) rappresenta per molti una piccola salvezza psicologica. La presenza di una routine, la divisione della giornata in fasi, la possibilità di introdurre elementi di rilassamento tra una fase e l’altra (dalla palestra al volontariato ai mille modi di gestire il proprio tempo libero) è cruciale per il proprio benessere. Tutto questo oggi è stato ridotto a quasi-zero — e non si ha ancora un orizzonte temporale chiaro sulla durata di questa compressione — e quindi è abbastanza inevitabile fare fatica. Come provare a farne un po’ di meno?

a. Chiedendo — e tenendo conto — delle specifiche esigenze di ciascuno. Affrontare questa pandemia da soli comporta elementi di complessità diversi rispetto a chi è invece in casa con i figli che magari devono seguire la didattica online proprio nel momento in cui c’è un’importante riunione a cui presenziare. Fare un piccolo sforzo in più per armonizzare le esigenze di tutti può essere prezioso a ridurre il senso di stress o di sovraccarico dei tempi e degli spazi.

b. Ritagliarsi tempo per conversazioni informali con le persone con cui si lavora. La separazione forzata porta inevitabilmente a sentirsi molto meno per questioni che non hanno a che fare col lavoro. Manca il caffè, la pausa pranzo, la chiacchierata sul balcone, il cazzeggio. Ricostruire in parte quella dimensione può far bene al morale, alla coesione e può ridurre l’effetto “catena di montaggio”.

c. Fare qualcosa di piacevole dopo il lavoro. Esattamente come la birra al pub o la palestra post-ufficio, può essere utile trovare modalità di auto-gratificazione alla fine della giornata.

d. Fare estrema attenzione a come si usa la forma scritta nei messaggi. Lo smart working è anche, in buona sostanza, il primato della forma scritta su quella verbale e paraverbale. Questa inversione rispetto all’ordinario comporta però una sfida ulteriore: è necessario essere molto precisi, attenti e competenti emotivamente per far arrivare il proprio pensiero ai destinatari senza che questi ultimi possano fraintenderlo, non comprenderne il livello di importanza o anche rimanerci male per qualche espressione un po’ tranchant. Non bisogna dimenticarsi che la dimensione scritta dello scambio lavorativo fa perdere in alcuni casi il tono di voce, la possibilità di un botta e risposta immediato (e dunque di chiarirsi in meno tempo). I passaggi più delicati potrebbero dunque richiedere una telefonata o una videochiamata: ci si fa del bene a vicenda.

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