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Dior e caporalato. Parla l’esperto: “È un problema di comparto. Cade un mito come è successso con la Ferragni”

E siamo a tre. Dopo Alviero Martini srl e Giorgio Armani Operations srl, il lusso in appalto finisce ancora una volta nel mirino del Tribunale di Milano. Questa volta tocca alla Manufactures Dior srl, il braccio produttivo italiano del gigante francese Dior, accusata di caporalato per non aver “prevenuto e arginato fenomeni di sfruttamento lavorativo”. Sotto accusa quattro opifici nelle province di Milano, Monza e Brianza, con 32 lavoratori irregolari e due società attive nella produzione di prodotti di pelletteria: la Pelletterie Elisabetta Yang e la New Leather srl.

Lo schema è lo stesso di Armani e Alviero Martini, e il problema è altrettanto identico: “Non è stata fatta una previsione del rischio: assessment (valutazione) dei rischi reputazionali che vanno previsti e mitigati”. A dirlo è Luca Poma, professore di Reputation Management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, nonché specialista in digital strategy e crisis communication. Interpellato da Affaritaliani.it, Poma parla del grave danno reputazionale che si abbatte ora sul colosso del lusso francese Dior: “Un danno che non intacca solo il ramo produttivo made in Italy, ma l’intera filiera”. Secondo Poma, un’accusa del genere ha ripercussioni su tutto il comparto, influenzando inevitabilmente anche le vendite.

La storia si ripete: per abbattere i costi e massimizzare i profitti di una borsa venduta in negozio a migliaia di euro, l’azienda ha esternalizzato la produzione a ditte appaltatrici, che, incapaci di garantire qualità e tempismo, si rivolgono a opifici clandestini cinesi. Le indagini, come negli altri due casi, sono coordinate dai pm Paolo Storari e Luisa Baima Bollone e condotte dai carabinieri di Milano.

“Ne risentiranno sicuramente anche le vendite, poiché aumenta la sfiducia della clientela e il comportamento d’acquisto”, continua Poma. Ciò che lascia più sgomento  è che un modello di borsa (codice PO312YKY) viene venduto nei negozi a 2.600 euro, mentre Dior spende solo 53 euro per acquistarlo dall’opificio di operai cinesi in nero a cui è commissionata la produzione dalla Manufactures Dior. Una vera beffa per il cliente e per i valori di sostenibilità a cui i grandi marchi di alta moda si aggrappano per promuovere un’economia più green. L’esperto infatti sottolinea: “Si parla tanto di sostenibilità, ma si continua a fare profitto risparmiando sui costi del lavoro a discapito della sicurezza dei dipendenti. Non si comprende davvero la serietà del problema”.

Ma che cosa succede ora? Dopo l’inchiesta, il presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia, ha suggerito l’avvio di un tavolo di confronto sul settore della moda, con l’obiettivo di fermare lo sfruttamento lavorativo. Tuttavia, nel frattempo, la casa di moda francese non ha rilasciato alcuna dichiarazione, nonostante il grande impatto reputazionale che l’accusa ha smosso sul colosso. “È il crollo di un mito,” dichiara Poma, “un mito come lo era la stessa Chiara Ferragni“. L’esperto, infatti, vede una certa analogia tra il caso Dior e quello dell’influencer accusata di truffa aggravata nel controverso Pandorogate.

Insomma, mentre Dior continua a tacere, il danno d’immagine si estende, sollevando non pochi interrogativi sul futuro della moda di lusso e sulla reale sostenibilità di un settore che sembra ancora lontano dal risolvere le sue contraddizioni interne.

È un problema di comparto. Se prendiamo in esempio gli influencer, vediamo quanto non sono capaci di affrontare o essere all’altezza di temi sensibili, né tanto meno c’è una regolamentazione chiara che filtri ciò che va in rete”. La stessa cosa è successa per Dior, che non solo non ha istituito un contratto regolare d’appalto tra le due società, ma, come evidenzia l’esperto: “Ha anche affrontato il problema senza curarsi dei rischi e della reputazione”.

Anche se settori e modalità sono diversi, la storia è sempre la stessa. Secondo il ragionamento di Poma, come non pochi influencer non si dimostrano all’altezza delle aspettative dei loro follower, così Dior spaccia le sue borse per prodotti artigianali venduti a migliaia di euro, ma pagati dal colosso francese solo 53 euro. E chi produceva quelle borse? Operai cinesi sfruttati negli opifici milanesi e brianzoli. Una beffa per i suoi follower nel caso Ferragni e da Dior un colpo basso al cliente finale e anche ai lavoratori sottopagati.

“Il caso Dior mette in luce un sistema ben radicato che continua a prosperare a scapito dei lavoratori e della fiducia dei consumatori”, conclude Poma. I casi di Alviero Martini, Armani e Dior, infatti, non sono episodi isolati. Riflettono un problema sistemico nell’industria dell’alta moda, che sembra ormai allo sbando. Pur di ottenere profitti, il settore non esita a ricorrere a sotterfugi ben camuffati nascondendosi bene dietro vetrine scintillanti e sfarzose pubblicità.

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