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Nel 2017 Jonathan Bright, un ricercatore dell’Istituto di Internet di Oxford esperto nel combinare le scienze sociali con un approccio computazionale, pubblicò una ricerca destinata a divenire una pietra miliare negli studi fra social network e politica. Si intitola: “Fare campagna elettorale sui social media può fare la differenza?”. Prendeva in esame due campagne elettorali piuttosto ravvicinate nel Regno Unito, nel 2015 e nel 2017, confrontandole; e i risultati erano netti: un politico poteva aspettarsi un 1 per cento in più di voti aumentando il numero di tweet di un certo fattore. Era automatico, vinceva chi twittava di più.

Nel 2016 c’erano stati l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca e il referendum della Brexit a indicare una forte correlazione fra tweet e risultati elettorali, ma quella ricerca diceva di più. Diceva: non è un caso, con i social si vincono le campagne elettorali. In realtà era vero anche il contrario: attraverso i social si capiva chi avrebbe vinto una campagna elettorale. Dal 2013, anno dell’exploit del M5s, in Italia i vincitori non li abbiamo previsti sui giornali o tramite i sondaggi ma seguendo le timeline di Twitter. A volerla dire tutta non era chiarissimo quale fosse la causa e quale l’effetto e fino a che punto: ovvero se twittare molto portasse voti, o se le conversazioni su Twitter fossero indicative delle opinioni degli elettori. Ma questa cosa esisteva, ha funzionato per sette anni e moltissime tornate elettorali. Fino a lunedì scorso. 


Il 21 settembre per la prima volta Twitter ha perso. Intanto ha perso il referendum. Nettamente. Se uno avesse dovuto fare una previsione a partire dai tweet dell’ultimo mese il No avrebbe vinto 78 a 22. In realtà, qualcuno lo ha fatto: i ricercatori di KPI6, una società specializzata in queste ricerche (ma anche Matteo Flora). E’ finita esattamente al contrario. Strano, no? Per la prima volta Twitter non ha funzionato come fotografia degli elettori, ma come una bolla. Quelli del No twittavano, gli altri, zitti, votavano. Molto strano. Di solito si diceva che sui social ci stavano i populisti, ma il No era raccontato da partiti e leader interpreti di una linea opposta. 

La rottura non deve essere stata casuale perché, secondo i dati di KPI6, si è replicata alle regionali. Fra i candidati, solo in Liguria ha vinto il candidato che ha twittato di più (Toti, 430 tweet in un mese). Per esempio Giani, che con la sua rimonta in Toscana ha sorpreso tutti, nello stesso periodo ha fatto appena 20 tweet contro i 101 della rivale leghista. La cosa si fa ancora più interessante se guardiamo ai cinque leader politici che si sono molto spesi in campagna elettorale. Per loro KPI6 ha costruito un Twitter Impact, un indice che tiene conto del numero di tweet, dei retweet, dei like e dei voti ottenuti dal rispettivo partito. E’ qui insomma che si misura davvero come sono andate le cose e che si vede che Twitter non ha funzionato né come portatore e né come indicatore di voti. Prendiamo Salvini: 1230 tweet, più di 40 al giorno, una media alla Trump: Twitter Impact, 722. Ultimo posto. Risalendo la classifica troviamo Renzi: 80 tweet, con un “impact” di 2832. Poi la Meloni, 114 tweet, “impact” 6430; Di Maio, 31 tweet, uno al giorno, “impact” 17659; al primo posto Zingaretti, 58 tweet, meno di due al giorno, “impact” oltre 20 mila. 

Sono solo i dati delle elezioni del 20 e 21 settembre 2020, potrebbero essere una eccezione, dalla prossima tornata elettorale tutto potrebbe tornare come prima. Oppure no. Oppure Twitter è diventata una bolla, come i centri storici delle grandi città che votano sempre in modo differente dalle periferie, il famoso fattore ZTL. O magari stiamo crescendo e dopo qualche anno ci siamo iniziati a immunizzare dalle campagne a tappeto sui social. Non ci facciamo più sedurre da chi twitta di più, ma da chi ha qualcosa da dire. Se così fosse si spiegherebbe perché il primo partito in questo momento sia guidato da un segretario che sui social ha la stessa disinvoltura che ho io quando ballo lo Schiaccianoci sulle punte. E che negli Stati Uniti il 3 novembre potrebbe diventare presidente un signore che si fa aiutare dalla nipotina ad usare lo smartphone. Non è un ritorno al passato, forse è un passo avanti.

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