Parla l’autore, insieme a Ulises Mejias, de «Il prezzo della connessione». Giovedì 10, il sociologo sarà ospite della John Cabot a Roma. E venerdì interverrà al Politecnico di Torino. Il sistema è a caccia di nuovi territori o frontiere dai quali estrarre valore. La regolazione non basta, bisogna fornire soluzioni tecniche, sociali, politiche, scientifiche ed educative
La discussione critica sul potere dei dati e sulla loro capacità di fornire una rappresentazione adeguata, anche rispetto a preferenze, abitudini e comportamenti delle persone è ormai decollata. Uno dei testi più interessanti di questo ampio dibattito è il volume di Nick Couldry e Ulises Mejias: Il prezzo della connessione (Il Mulino, pp. 384, euro 39, traduzione di Paola Palminiello; edizione originale The costs of connection, Stanford University Press, 2019). Il volume sostiene che la colonizzazione della vita attraverso i dati è «il piano B» del colonialismo per continuare il processo di appropriazione di «territori» a disposizione.
Il processo di enclosures nel Seicento rese possibile la privatizzazione dei pascoli inglesi e l’acquisizione delle terre e del surplus economico, dando inizio all’accumulazione per spossessamento all’origine del capitale della prima rivoluzione industriale. Il land grabbing non si fermò al Regno Unito, ma cercò nelle colonie nuovi spazi di espansione.
L’espropriazione delle terre comuni – considerate prive di titoli validi di proprietà – da allora non si è mai interrotta. Al presente siamo in una fase critica del capitale. È alla ricerca disperata di nuovi spazi di estrazione e astrazione.
Abbiamo posto alcune domande a Nick Couldry, in questi giorni a Roma, che ci risponde anche a nome del suo coautore Ulises Mejias.
Ci può spiegare la differenza tra colonialismo storico e colonialismo dei dati?
Il colonialismo dei dati è un ordine sociale emergente basato su un nuovo tentativo di impadronirsi delle risorse del mondo a beneficio delle élite. Come il colonialismo storico, è basato sull’estrazione e l’appropriazione di risorse di valore. Il vecchio colonialismo si appropriava della terra, delle risorse e del lavoro umano. Il nuovo si appropria di noi, dello scorrere quotidiano della nostra vita, nella forma astratta dei dati digitali. Questo nuovo colonialismo non sostituisce il vecchio, ma aggiunge una nuova cassetta degli attrezzi, che implica raccogliere, processare e applicare i dati. Non c’è corrispondenza diretta tra vecchio e nuovo colonialismo.
La brutalità non è la stessa, ma c’è ancora molta violenza in queste nuove forme di sfruttamento e l’intero nuovo ordine emergente dal colonialismo dei dati è basato sulla forza piuttosto che sulla scelta, e usa le stesse disuguaglianze storicamente costituite. Non siamo contro i dati di per sé. Stiamo specificamente criticando la forma dell’estrattività dei dati che ha un solo obiettivo: la generazione di valore in modo iniquo e asimmetrico, che impatta in negativo sulle tradizionali vittime del colonialismo, non importa se le definiamo in termini di razza, classe o genere, o nell’intersezione di tutte queste categorie.
Crede che questo progetto neocoloniale che interviene sulla vita umana produrrà una forma di mercificazione in cui non ci sarà più nulla che possa essere protetto dalla produzione capitalistica di valore?
Se pensiamo in termini marxisti, sfruttamento ed espropriazione avvengono rispetto ai lavoratori nei luoghi di lavoro. Nel capitalismo dei dati, lo sfruttamento avviene ovunque e sempre. Possiamo anche rilassarci e interagire con amici e con la famiglia, e l’estrazione e il tracciamento avvengono comunque. La ragione per cui sempre meno aree della vita sono protette dallo sfruttamento è che la mentalità coloniale presuppone che i dati, come la natura e il lavoro prima di loro, siano una risorsa economica. I dati sono abbondanti, disponibili e privi di padrone.
Il nostro ruolo è solo produrli e arrenderci alle corporazioni commerciali, le uniche capaci di trasformarli in qualcosa di produttivo e utile. Questa premessa è fallace perché si basa su un modello estrattivista e produce un ordine diseguale in cui solo pochi guadagnano e molti sono esclusi.
L’estrazione dei dati è un modo per accedere alle informazioni intime delle persone? Oppure pensa che l’informazione creata dai processi di datificazione possa piuttosto orientare il comportamento delle persone senza comprenderle? Non crede che questo processo di estrazione alla fine non produca abbastanza valore, soprattutto se i consumatori sono espropriati della loro volontà e magari anche delle loro risorse?
Il colonialismo dei dati è un sistema per rendere le persone più facili da usare per le macchine. I dati catturati dalle piattaforme non possono restituire la complessità di un singolo essere umano. La pubblicità ipertargettizzata potrebbe non funzionare bene. Ma le corporazioni monetizzano i dati usandoli per influenzare decisioni commerciali e politiche, rivendendo a noi la nostra vita (organizzano la vita e perfino predicono problemi di salute ed emotivi). Anche quando i dati non possono essere direttamente monetizzati, accumulati o anticipati generano valore in termini di investimenti speculativi che costruiscono valore per il mercato azionario.
Questo sistema non fissa limiti. Né il colonialismo, né il capitalismo ne hanno. Il sistema è sempre a caccia di nuovi «territori» o «frontiere» dai quali estrarre valore. È il motivo per cui Lenin diceva che l’esito dell’imperialismo è la forma più avanzata di capitalismo: dopo aver esaurito le persone da sfruttare a casa, devi colonizzare nuove zone di estrazione che diventano anche nuovi mercati per quello che vendi. Questa è la strategia dietro il colonialismo dei dati, visto come l’ultima appropriazione di terre in una lunga serie di appropriazione di risorse.
Ci può dire di più sulla strategia per decolonizzare i dati? Come possiamo coltivare il principio di discontinuità rispetto alla connessione dei dati?
La regolazione è una strategia, ma è improbabile che sia sufficiente, perché non pensa in termini di forme di vita, come invece fa il pensiero decoloniale. Secondo le idee più avanzate di alcuni studiosi di diritto, i dati non dovrebbero essere connessi, l’estrazione dei dati deve essere disgregata, impedendo che piattaforme educative o sociali possano ridistribuirli a reclutatori o assicuratori. Ma questa idea di discontinuità nella connessione non è stata accolta dai regolatori. La nuova legislazione sui dati in EU va in direzione opposta: assicurare un flusso di dati, il più possibile libero tra le corporazioni.
La regolazione non basta e la visione decoloniale dei dati deve fornire molte soluzioni, non solo tecniche, ma sociali, politiche, culturali, scientifiche e educative. Deve collegarsi a lotte che non hanno a che fare coi dati, ma sono lotte per la giustizia e la dignità. Per questo molte risposte creative al colonialismo dei dati arrivano dai gruppi femministi, antirazzisti, e indigeni. Dobbiamo imparare da loro. Con la femminista messicana Paula Ricaurte abbiamo creato un network, Tierra Comun che si propone questo scopo.
Nel libro che ha scritto insieme a Ulises Mejias si dimostra una continuità tra colonialismo e razionalità «occidentale». Come possiamo preservare la ragione, e insieme proteggere il pluralismo, le differenze e l’autonomia umana?
Il primo passo è riconoscere che ragione, pluralismo, autonomia non sono concetti solo dell’Occidente. La razionalità occidentale ha preso in prestito (per essere gentili) molte di queste idee dalle tradizioni non occidentali. Non si tratta di fare a meno della razionalità, ma dell’affermazione occidentale dell’esclusività su di essa. Decolonizzare i dati è in primo luogo un esercizio di creatività e immaginazione. Possiamo imparare molto dai modelli non occidentali di come resistere alla razionalità coloniale. Qualche volta la resistenza deve cominciare con la mente, se resistere con il corpo non è possibile. Ma quando comincia, è inarrestabile. Vediamo comunità prendere il controllo sui loro dati, chiedersi: è possibile decolonizzare l’intelligenza artificiale, o c’è qualcosa di intrinsecamente coloniale in lei? Stiamo cercando di capire come fare, ma i dibattiti sono ormai in corso.
Non crede che epistemologia e politica siano strettamente connesse, tanto che per il successo delle pratiche decoloniali ci sia bisogno di un nuovo modo di pensare e conoscere?
La politica, per quanto rude, si basa sempre su una certa forma del mondo. Qualsiasi lotta politica o trasformazione positiva si basa sulla possibilità di sfidare quelle forme, attraverso epistemologie alternative. Se la politica da cambiare vuole proseguire a beneficiare delle profonde disuguaglianze dell’ordine coloniale, contestarla significa non solo mandare in crisi una particolare narrazione, per esempio sull’origine di una nazione, o della povertà.
Bisogna invece mettere in discussione l’approccio generale alla conoscenza (su cui si basa molta della scienza che ereditiamo) che si appoggia su una visione estrattivista del mondo. Per farlo abbiamo bisogno di pensare la ricerca diversamente e progettare nuovi modi di conoscere e vivere insieme.
SCHEDA. Biennale Tecnologia, «apre» Nicholas Taleb
Nick Couldry è anche ospite alla Biennale Tecnologia che torna a Torino dal 10 al 13 novembre, organizzata dal Politecnico di Torino (si esplora il rapporto tra tecnologia e società). Con Biennale Off e Politecnico Aperto, la manifestazione si estenderà poi in altre sedi diffuse su tutto il territorio regionale. Dopo la «lectio magistralis» del saggista, matematico e filosofo libanese naturalizzato statunitense Nassim Nicholas Taleb, nel corso di quattro giornate ci saranno circa 280 relatori da tutto il mondo. Fra i tanti ospiti internazionali, Naomi Oreskes, Miguel Benasayag, Evgenij Morozov, Suzanne Heywood, Helga Nowotny, Éric Sadin, Heinz Stoewer, Peter Wadhams, Aaron Benanav, Joselle Dagnes, Derrick de Kerckhove; David Goodhart, Jürgen Renn, Jeffrey Schnapp, Bruce Sterling.