image_pdfVersione PDFimage_printStampa

Recentemente uscito Public relations. Teoria, metodologia e strumenti di una professione della comunicazione, l’ultimo volume di Fabrizio Vignati* per Guerini Edizioni, lo abbiamo intervistato sul tema di questa appassionante professione.

Nel 1928 con il suo “Propaganda” Edward Bernays aveva già scritto (quasi) tutto, circa il governo dell’opinione pubblica. Quasi un secolo dopo, cosa è cambiato?

Cento anni fa Bernays ha avuto l’indubbio merito di introdurre il termine “public relations” per designare la professione, di razionalizzare una delle modalità ancora oggi più diffuse di praticare le relazioni pubbliche (la sua teoria della “persuasione scientifica”, da lui successivamente ribattezzata “costruzione ingegneristica del consenso”) e di introdurre il concetto di “influencer”, con buona pace di chi crede che sia un’invenzione dell’età dei social network. Un paradigma che, negli ultimi quattro decenni – proprio quest’anno ricorre il 40° anniversario della pubblicazione di Managing Public Relations di James Grunig – si è arricchito di tre elementi fondamentali: le relazioni pubbliche intese soprattutto come funzione manageriale strategica, la comunicazione simmetrica a due vie, che implica l’ascolto attivo degli stakeholder, e, soprattutto, la “excellence theory”, che stabilisce che il valore della comunicazione d’impresa risiede nel condurre l’organizzazione a soddisfare – contemporaneamente – gli obiettivi dei pubblici/stakeholder e gli obiettivi dell’organizzazione.

Sulla base di questa evoluzione storico-teorica, cosa si intende oggi per relazioni pubbliche?

Oggi le relazioni pubbliche non sono più una semplice attività tecnico-operativa della comunicazione, basata prevalentemente su modelli di persuasione unidirezionale: sono, invece, sempre più una disciplina manageriale strategica e socialmente responsabile, costituita dall’insieme delle attività – continuative e pianificate – di comunicazione realizzate da un’organizzazione (sia essa un’impresa privata, un ente pubblico o un’associazione) per creare o consolidare relazioni (tendenzialmente simmetriche) con quei pubblici e quegli influenti che possono agevolare o ostacolare il raggiungimento dei suoi obiettivi e – in generale – per migliorare e/o difendere, in caso di crisi, la propria reputazione.

Nel suo bel volume lei cerca di “mettere ordine” in una materia assai articolata e complessa: cosa potrà trovare il lettore, in più, rispetto alla già copiosa bibliografia in materia?

Il volume cerca di illustrare – a studenti e professionisti della disciplina – che cosa sono le relazioni pubbliche, attraverso un percorso articolato in tre sezioni. La prima è dedicata ai fondamenti teorici, dove – grazie anche ad una disamina storico-concettuale – la professione è inquadrata all’interno del più generale fenomeno “comunicazione” e alla disciplina della corporate communication. La seconda, metodologica, è incentrata sulla pianificazione strategica, proponendo un nuovo modello che – grazie ad alcune recenti acquisizioni americane – cerca di andare oltre il classico Gorel di Toni Muzi Falconi. La terza, infine, è caratterizzata da un’analisi puntuale delle attività tecnico-operative: media relations, event management, sponsorship, digital PR, public affairs, crisis communication, marketing PR, internal PR, financial PR, global PR, sustainability PR, etc.

Le relazioni pubbliche si insegnano ma si praticano anche: il suo più intrigante successo sul campo, e il suo più formativo fallimento…

Per chi si occupa di reputation management, soprattutto in campo finanziario, i successi più grandi sono rappresentati dalle notizie negative riguardanti i nostri clienti che siamo riusciti a non fare uscire, ma che – proprio per questo motivo – purtroppo non si possono raccontare. Un caso di crisis communication di cui vado fiero, invece, è stata la gestione della comunicazione del termovalorizzatore di Torino che – nel 2013 – era stato acceso senza informare la cittadinanza e i media: grazie a una comunicazione trasparente e a un’intensa attività di media relations, nel giro di sei mesi la pressione mediatica si è fortemente ridotta e, in meno di un anno, il grosso dell’opinione pubblica ha iniziato a disinteressarsi alla issue, consentendoci di isolare il fenomeno “nimby”. Oggi – per merito dei colleghi che negli anni hanno continuato a gestire proattivamente la comunicazione con tutti gli stakeholder – nell’auditorium dell’impianto si fanno addirittura spettacoli teatrali, come in quello di Vienna. Il mio fallimento più grande? Tutte le volte che cedo alle insistenze dei clienti e – per evitare dinamiche conflittuali – rinuncio ad attuare fino in fondo i piani strategici così come li ho concepiti. È un grave errore, perché deprime la qualità della prestazione consulenziale e – indirettamente – danneggia anche il cliente.

Il tema della reputazione è quanto mai attuale, ma nel nostro Paese forse solo “a chiacchere”, come dimostrano le recenti crisi di Ferragni, Armani, Dior, etc.: a suo avviso, perché così poche organizzazioni, anche di grandi dimensioni, effettuano un assessment sul rischio reputazionale ed elaborano strategie per mitigarlo?

Quello della scarsa cultura dell’analisi e della mitigazione dei rischi è un tema endemico del nostro Paese (caratterizzato da reti familiari diffuse e da una tradizione di welfare pubblico dai tratti, spesso, assistenziali) e trasversale a vari settori, con esclusione, forse, dell’energy e della chimica – dove alcuni disastri ambientali hanno fatto nascere la cultura del crisis management – e dell’insurance e del banking – dove il risk management ha un radicamento strutturale. Ciò detto, vanno studiate ed estese le best practice di risk analysis dei grandi gruppi e fatta tanta formazione sulla prevenzione delle crisi, a tutti i livelli.

I fenomeni di fake reputation sono sempre più diffusi: “basta che paghino”, pare essere il mantra, per citare un romanzo di Alessandro Golinelli, e le agenzie aprono le proprie porte anche a chi vuole non solo migliorare la propria reputazione ma anche a chi vuole distruggere a tavolino quella degli altri. Che lettura da di questo fenomeno, e quali poterebbero essere gli anticorpi?

Purtroppo esiste un rapporto tra reputazione e comunicazione che rischia di diventare perverso. La reputazione è l’insieme delle percezioni che i pubblici hanno di un’organizzazione nel tempo: cosa faccio, cosa dico e cosa gli altri pensano di me. La comunicazione, quindi, non “crea” la reputazione: al limite la governa, la migliora e – in caso di crisi – la difende. Quella che la comunicazione può creare, invece, è la visibilità (si pensi, ad esempio, al lancio di un nuovo prodotto o alla campagna elettorale di un candidato), che però è una variabile di breve periodo e di superficie. Se si confondono i due piani, per ignoranza o malafede, e si millanta di “creare” – senza sforzi concreti da parte dell’organizzazione – la reputazione, si illudono solo i clienti. Diverso è il caso delle black PR, dove addirittura si arriva a diffondere informazioni negative sui competitor per nuocere alla loro reputazione. In entrambi i casi, tuttavia, le associazioni professionali – come ad esempio FERPI – possono avere un ruolo di primo piano: in termini di formazione al reputation management e, soprattutto, all’etica e alla deontologia, scoraggiando – e sanzionando – le pratiche scorrette.

Un suo consiglio chiave a un giovane professionista, che a 25 anni si affacci adesso, per la prima volta, in questo mondo.

Davanti alle pressanti sfide che abbiamo di fronte – globalizzazione, trasformazione digitale e sostenibilità – le relazioni pubbliche del futuro devono aprirsi sempre di più a tre dimensioni strategiche: la convergenza di comunicazione e relazione nel rapporto tra organizzazioni e stakeholder/pubblici, la dimensione phygital che deve caratterizzare, nello specifico, tutte le azioni di comunicazione/relazione e, infine, l’orientamento alla reputazione, sempre più declinata in ottica ESG. In questo contesto teorico, passione e umiltà sono gli atteggiamenti che, soprattutto per i giovani, possono fare la differenza e spalancare loro le porte del successo.


* Fabrizio Vignati (www.fabriziovignati.it) si occupa da oltre 25 anni di relazioni pubbliche e istituzionali. Fondatore di RepCom, è socio del CIPR di Londra, consigliere nazionale FERPI e membro del comitato scientifico del FERPILab. Professore di Public relations e Financial communication presso diverse università e business school italiane e straniere, è autore dei volumi scientifici “Financial P.R. La comunicazione finanziaria delle società quotate” (Giuffrè, 2014) e “Public relations. Teoria, metodologia e strumenti di una professione della comunicazione” (Guerini, 2024). Giornalista, coltiva da sempre la passione per la scrittura e ha pubblicato un romanzo (“LiebeRatione”, 2009) e un saggio (“Desiderio e dono”, 2011).

image_pdfVersione PDFimage_printStampa