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PERCHÉ IL BUSINESS DEGLI INFLUENCER HA BISOGNO DI LIMITI

E come professionalizzare una pratica ancora in fase di maturazione

Emily Hund*

Negli ultimi vent’anni il business degli influencer, prima inesistente, si è evoluto in una forza pervasiva globale che ha ridisegnato completamente il modo in cui le informazioni e la cultura vengono concepite, prodotte, commercializzate e condivise. Settori economici come la moda, la cosmetica e i viaggi hanno aperto la strada, ma enti no-profit, servizi pubblici e campagne politiche si stanno mettendo rapidamente al passo, sperando di riuscire a sfruttare il canale di comunicazione, apparentemente più autentico, dell’influencer marketing.

In linea di massima, l’influencer marketing ha funzionato. Alla fine del 2023, stando all’Influencer Marketing Hub, il settore valeva globalmente circa 21 miliardi di dollari. Indagini condotte dal Keller Advisory Group e da Adobe hanno accertato che 27 milioni di americani e 300 milioni di persone in tutto il mondo si considerano creatori di contenuti. E stando a HubSpot, l’88% dei marketer che hanno già tentato la strada dell’influencer marketing avevano in programma di aumentare o di mantenere i propri livelli di spesa. Oggi è difficile immaginare un’organizzazione o un consumatore che non si debba confrontare con le realtà di un mondo plasmato in larga misura dagli influencer. Le indagini di Nielsen, Reuters e di altri istituti mettono in luce questi dati di fatto impressionanti: le persone si fidano degli influencer; gli utilizzatori dei social media danno più retta agli influencer che ai giornalisti; la gente è convinta che i brand siano più in condizione dei Governi di risolvere dei problemi sociali; e diventare un influencer è la massima aspirazione di carriera per molti giovani.

Ma il settore ha dei grossi problemi. È una forza globale consolidata che a volte si comporta come una start-up sgangherata, che ha una scarsa coesione professionale e non paga grandi conseguenze in caso di gioco scorretto. Le ricerche che ho condotto nel decennio scorso hanno rivelato tutta una serie di contraddizioni interne. Il business degli influencer dà spazio sia all’imprenditorialità che allo sfruttamento, sia alla connessione che alle molestie, sia alla verità che alle menzogne, sia all’autoespressione che all’aggressione, sia alla proposta di nuove idee che alla scelta di rifugiarsi nei pregiudizi tradizionali. Oggi il settore è di fronte a un bivio: chi ci lavora – brand, operatori di marketing, influencer e social media company – ha la responsabilità di progettare un futuro che metta in ordine di priorità, incentivi e protegga acquirenti, venditori e influenzatori. Dobbiamo tutti fare in modo che il comportamento non etico venga punito; che le aspettative, la remunerazione e i risultati desiderati vengano standardizzati; e che ai creatori di contenuti vengano riconosciuti gli stessi diritti e le stesse tutele che vengono riconosciuti agli altri professionisti del marketing.

In questo articolo, spiego come il business degli influencer sia diventato un mercato deregolamentato e come possiamo cominciare a mettere dei limiti per prevenire l’utilizzo improprio degli influencer e dei brand.

Come siamo arrivati a questo punto?

Il business degli influencer è nato in un momento particolare, nel pieno della tempesta perfetta che si è determinata nei primi anni Duemila, ed è nato per un concorso di fattori. Software come WordPress e Blogger hanno reso possibile l’autopubblicazione per chiunque possieda un computer. Facebook, Tumblr, Twitter (oggi X) e altri programmi hanno normalizzato il fenomeno di persone “comuni” che creano contenuti per Internet. I social media di prima generazione si sono presentati come più autentici e democratici dell’establishment – una mossa astuta in un’era di sfiducia crescente nei mass media e nei Governi – e hanno promesso maggiore connessione ed empowerment, una strategia che continua a guidarli ancora oggi.

La crisi finanziaria del 2008 e la Grande Recessione che l’ha seguita hanno stimolato la crescita del settore. Nel giro di un anno, decine di milioni di lavoratori hanno perso il posto. Disoccupati e sottoccupati si sono buttati sul blogging e sui social media nel tentativo di pubblicizzare la loro expertise, di creare una rete di contatti e di far sapere alla gente di essere ancora presenti. Ecco cosa ha reso così potente l’apparente autenticità dei creatori iniziali. Erano, in massima parte, “tipi come noi”, alle prese con situazioni di precarietà economica e professionale, decisi a sperimentare le nuove tecnologie e desiderosi di entrare in connessione con altri – in una fase storica in cui le persone cercavano alternative alle istituzioni distanti e impersonali che le avevano abbandonate al loro destino: un’intera generazione che è diventata maggiorenne in quegli anni ha analizzato, compreso e ri-orientato la propria relazione con il lavoro.

I professionisti del marketing e della pubblicità, a loro volta soggetti alla pressione dell’instabilità economica, hanno iniziato a monetizzare le relazioni tra i primi influencer e i loro follower – pubblici molto più mirati rispetto a quelli delle ben più grandi media company. E soprattutto, gli influencer non erano sottoposti alle normali regole giornalistiche. Quasi da un giorno all’altro, i brand hanno potuto pagare per una copertura giornalistica in denaro o in prodotti: sono così nati i “contenuti sponsorizzati”.

Gli operatori di marketing hanno lanciato innumerevoli iniziative in questo nuovo ambito, con l’obiettivo di rendere più efficiente il processo di identificazione, selezione e remunerazione degli influencer. Io ho seguito per tutti i primi anni Dieci del Duemila quest’industria artigianale in rapida espansione. RewardStyle, dedicato inizialmente a rendere commercialmente appetibili i blog e Instagram, è diventato leader nell’affiliate marketing e genera attualmente oltre 4 miliardi di dollari di fatturato annuo per i brand associati. Digital Brand Architects ha inaugurato il modello influencer-management e ha creato soluzioni rivoluzionarie per creatori come la blogger e fashion designer Aimee Song e per gli esperti di organizzazione che stanno dietro la Home Edit. Nel frattempo, Fohr, Dash Hudson, IZEA Worldwide e altre agenzie hanno creato una vasta gamma di strumenti e processi per accrescere la portata e la precisione delle campagne messe in atto dagli influencer.

Risolvere i problemi del settore

Anche se il settore si è evoluto in un ambiente sofisticato ma caotico, l’ha fatto essenzialmente al di fuori di una supervisione normativa o professionale. La mancanza di confini apre la porta a uno sfruttamento in ogni direzione. Marketer, brand, influencer e piattaforme hanno tutti la possibilità di sfruttarsi a vicenda, con vari livelli di danno. Le piattaforme stanno al timone, essendo in grado di controllare i tipi di contenuto che dovrebbero avere la priorità, senza alcun obbligo di trasparenza. I brand possono pagare in modi imprevedibili e scorretti. Gli operatori di marketing possono oscurare i parametri, discriminare i creatori o lasciare entrare negli spazi contrattuali attori sgraditi, come avviene nei periodi elettorali quando i PAC [comitati di azione politica, NdT] e gli attivisti ingaggiano degli influencer tramite i mercati virtuali. I creatori possono rappresentare falsamente se stessi, la loro expertise e le loro esperienze pregresse.

Ci sono pochi sistemi finalizzati a impedire che degli attori in malafede traggano beneficio dai meccanismi del settore. Salvaguardare il settore è fondamentale per via di ciò che vende: l’idea stessa di “autenticità”. Lasciare che quest’idea venga distorta e abusata, e che delle narrazioni personali diventino vettori di bugie e indicazioni fuorvianti, avrà conseguenze molto serie.

Tutte e tre le sfide principali che si pongono al business degli influencer hanno a che fare con l’assenza di barriere limitanti e di regolamentazione, in quello che è ancora un mercato nascente. Cosa succede quando gli influencer mentono? Chi ne risente quando le aziende usano degli influencer che sponsorizzano i loro prodotti? E come possiamo rendere il settore sostenibile e produttivo per tutti i soggetti coinvolti?

Ora esaminerò ciascuna delle sfide che minacciano il settore e fornirò una panoramica di ciò che dobbiamo fare per modernizzare il business degli influencer nel suo complesso, con delle protezioni sia per i consumatori sia per i lavoratori che stanno al centro.

COSA NON FARE: Lasciare impunito un comportamento scorretto

COSA FARE: Costruire un team di professionisti fidati

In base alle linee guida della Federal Trade Commission, gli influencer che sono promotori pagati dovrebbero dichiarare “in modo chiaro e trasparente” tutte le relazioni che comportano uno scambio di beni, che siano denaro o prodotti. Il Disclosures 101 della FTC spiega in dettaglio come si dovrebbe declinare nella pratica questo principio. Eppure, le conseguenze del mancato rispetto di queste regole sono altamente ineguali sia all’interno degli Stati Uniti sia nel resto del mondo.

Nel 2022 la Securities and Exchange Commission ha appioppato una multa da 1,26 milioni di dollari a Kim Kardashian per non aver dichiarato la sua relazione commerciale con EthereumMax, una piattaforma di criptovalute cui aveva fatto promozione in un post su Instagram. La SEC le ha vietato inoltre di promuovere criptovalute per tre anni. Essendo una delle celebrità di più alto profilo del mondo, Kardashian rappresentava un bersaglio comodo per i regolatori, ma ci sono in giro decisamente troppi contenuti sponsorizzati e troppi influencer per consentire alle agenzie governative di supervisionarli efficacemente tutti quanti.

Casi analoghi si sono ripetuti frequentemente nel decennio scorso. Le agenzie federali hanno perseguito Lindsay Lohan, DJ Khaled e Naomi Campbell – anche più di una volta – per non aver dichiarato apertamente i rapporti di business che si nascondevano dietro i post che pubblicavano sui social media. Più recentemente la FTC ha mostrato la volontà di rafforzare questo approccio inviando lettere di avvertimento a due associazioni imprenditoriali, American Beverage e Canadian Sugar Institute, nonché a una decina di influencer particolarmente ascoltati sui temi della nutrizione. Nel frattempo, milioni di altri post “sospetti” sfuggono all’attenzione dei regolatori.

Sta dunque ai brand e alle agenzie di marketing che lavorano con gli influencer assicurarne l’autenticità, il che può richiedere risorse significative a livello tecnologico, legale e manageriale. Non capirlo può provocare seri danni. Al di là dei problemi regolatori, lavorare con degli influencer che non dichiarano i propri rapporti di business vuol dire mettere a rischio il valore del brand. Tantissimi brand si sono guadagnati la fama poco lusinghiera di essere tutto marketing e niente sostanza quando si è capito che privilegiavano una vendita immediata all’integrità del prodotto o del messaggio. (Mi vengono in mente a questo proposito vari prodotti per il benessere, come i tè dietetici e gli integratori).

Ci sono a disposizione molti strumenti e molte agenzie per aiutare i brand a identificare, selezionare, prezzare e ingaggiare degli influencer. La maggior parte di essi promettono a gran voce di semplificare e razionalizzare il processo. Ma le ricerche hanno dimostrato che nella ricerca di efficienza, le agenzie di marketing potrebbero trascurare parecchie sfumature, non far emergere creatori rilevanti o penalizzare ingiustamente altri soggetti. L’operatore di marketing dovrebbe porsi delle domande critiche durante il processo di vendita. Come fanno queste agenzie a classificare aree qualitative critiche come l’autenticità e la credibilità? Perché un influencer potrebbe essere segnalato o messo al bando dal mercato o dall’agenzia? La supervisione interna sulle partnership viene facilitata sulla piattaforma o tramite l’agenzia, e se sì, come viene attuata?

I marketer devono prendere in considerazione anche l’impatto generato dal social team, interno o di un’agenzia, sull’intero processo messo in atto dall’influencer. Questo business è abbastanza maturo da mettere a disposizione un buon numero di professionisti con almeno un decennio di esperienza. E un punto di vista articolato – una lettura critica del settore e un’idea strutturata di come aiutarlo a evolversi – può compensare la mancanza di un addestramento formale tra i lavoratori più giovani. Quando costruite un team, cercate una prospettiva meditata oltre all’esperienza.

Nycole Hampton, la senior director of content marketing di GoodRx, ha identificato un problema nell’influencer marketing: la tendenza ad assumere persone che amano gli influencer ma non capiscono granché del settore. «Pensano che sia un lavoro cool, e un lavoro facile, perché sono già sui social media», dice. «Ma è una funzione davvero importante che non dovrebbe rimanere isolata».

In effetti, a volte i team di influencer marketing vengono trattati con condiscendenza dai colleghi, che giudicano il loro lavoro superficiale o transazionale. Ma i team interni potrebbero essere lo strumento migliore di un brand, perché conoscono alla perfezione il brand stesso e gli stakeholder di riferimento. La strategia di gestione degli influencer può e deve integrarsi con la strategia generale dell’azienda ed essere dotata della lungimiranza e della strutturazione di cui ha bisogno qualunque sforzo organizzativo per avere successo. Man mano che il settore degli influencer diventa più ampio, costoso, visibile e rilevante sul piano sociale, dovete pianificare per il lungo termine ed educare i vostri team di conseguenza.

COSA NON FARE: Essere vaghi sulle vostre intenzioni o sulla credibilità dell’influencer

COSA FARE: Creare un set di aspettative chiare e reciproche

Nel 2021, quando è stata accusata di usare dei lavoratori coatti in ambienti pericolosi, l’azienda cinese di ultra-fast fashion Shein ha pagato degli influencer americani per visitare le sue fabbriche. I contenuti che hanno pubblicato di conseguenza sono stati aspramente criticati dalla stampa come propaganda aziendale. Una influencer, che non aveva nessun background giornalistico ma si autodefiniva “una giornalista investigativa”, ha elogiato le condizioni di lavoro e ha postato vari video che parlavano bene del brand. I pubblici avveduti sapevano che il suo comportamento non era in linea con le norme e con le aspettative del giornalismo professionale, ma relazioni brand-influencer come questa attestano la mancanza di chiarezza che circonda il ruolo dell’influencer.

Scrittore, leader di comunità, buffone di corte, macchina per la produzione di contenuti, cantastorie e redattore tecnico: sono solo alcune delle definizioni che hanno usato influencer e responsabili di brand per descrivermi il ruolo dell’influencer. A seconda del loro ruolo e della nicchia tematica, gli influencer potrebbero fare molti lavori che tendono a sovrapporsi, ma ciò non significa che il ruolo sfugga a una definizione.

La storia dimostra che anche i media preesistenti, come i quotidiani, la radio, la televisione e la pubblicità, si sono dovuti porre dei quesiti esistenziali nelle loro fasi di sviluppo – e il modo in cui i leader hanno risposto a quelle domande ha avuto un impatto di lungo termine sul futuro della democrazia, sulla produzione culturale e sull’autoespressione. Oggi, chi lavora nel settore degli influencer deve rispondere a una domanda fondamentale: qual è il nostro purpose, il nostro scopo ultimo? È l’intrattenimento, la pubblicità, il reporting, l’attivismo, la connessione interpersonale o qualcosa d’altro?

Le conseguenze di questa incertezza si manifestano nella mancanza di aspettative condivise su come selezionare, prezzare, scegliere e usare degli influencer – o chi considerare effettivamente un influencer. Negli Stati Uniti, circa 13 milioni di persone definiscono la creazione di contenuti il proprio lavoro a tempo pieno – più o meno lo stesso numero di quelle che operano nel settore manifatturiero. Eppure, la coesione professionale è a dir poco scarsa intorno a come si configura o a quanto vale questo lavoro.

Un esempio illuminante della disconnessione tra brand, influencer e consumatori è venuto a galla alla fine del 2023, quando i regolatori italiani hanno annunciato un’indagine per frode nei confronti dell’influencer Chiara Ferragni. Nel 2022 Ferragni, che ha quasi 30 milioni di follower su Instagram, ha sponsorizzato un pandoro prodotto dall’azienda italiana Balocco. Stando ai suoi post e a quelli della Balocco, i proventi del dolce, che costa tre volte il pandoro standard della stessa azienda, sarebbero andati a un ospedale infantile. Ma dopo la campagna promozionale, per la quale Ferragni ha intascato più un milione di euro, secondo l’autorità antitrust italiana non sarebbe stata effettuata nessuna donazione. Nel dicembre 2023 l’autorità ha multato lei di un milione e la Balocco di 420.000 euro per frode ai consumatori.

I Governi hanno cominciato a costruire un settore equilibrato, introducendo una nuova regolamentazione. Regno Unito e Francia, per esempio, hanno introdotto leggi a tutela della trasparenza intese a proteggere influencer, brand e consumatori. Nel 2023, il parlamento francese ha approvato la “normativa più completa del mondo sull’attività degli influencer”, che impone a questi ultimi di sottoscrivere un contratto formale per tutti i pagamenti o per tutti i prodotti-omaggio ricevuti che superano una determinata soglia di valore. In caso di sponsorizzazione, lo devono specificare chiaramente nel post. Alcuni settori, come il tabacco e il gioco d’azzardo, sono esclusi espressamente da qualunque forma di promozione. La Francia ha introdotto anche delle regole che richiedono trasparenza nel caso di drop shipping [ossia, quando il venditore accetta un ordine senza avere il prodotto disponibile], una fonte di ricavi assai comune per gli influencer. Nel 2021 la Francia ha adottato una normativa finalizzata a proteggere gli influencer minorenni, alla stessa stregua di attori e modelle minorenni. Essa fissa il numero massimo di ore lavorabili alla settimana per i minori di 16 anni, impone la custodia in banca dei loro guadagni fino al compimento dei 16 anni e ne sancisce il “diritto all’oblio” – nel senso che la piattaforma deve aderire alle loro richieste di cancellazione dei contenuti.

Il Regno Unito è stato uno dei primi Paesi ad applicare agli influencer le norme sulla pubblicità. A partire dal 2008, è vietato sia agli influencer sia ai brand postare contenuti a pagamento senza un’avvertenza esplicita. E nel 2022 la Competition and Markets Authority del Regno Unito ha pubblicato una serie di direttive sulle comunicazioni pubblicitarie e sulle promozioni a pagamento degli influencer. In base a una di queste direttive, i social media devono dare agli utilizzatori il modo di attribuire un’etichetta ai contenuti commerciali.

Ma le agenzie pubbliche e i gruppi di tutela dei consumatori non possono fare abbastanza. Il business degli influencer è una forza globale e la posta in palio per gli investitori varia in funzione delle leggi e delle culture locali, nazionali e regionali. Alla fine, la creazione di contenuti sui social media diventerà un lavoro “normale”, un ruolo in più nel panorama in continua espansione dei media globali. Stabilizzare sia le aspettative sia l’infrastruttura che supporta i pagamenti è necessario per la sostenibilità di lungo termine. I contratti dovrebbero includere sempre condizioni e termini di pagamento chiari, oltre all’impegno scritto a rispettare leggi e regolamenti in materia. Più in generale, il settore ha bisogno di sessioni formali e comunicazione interne per mettere in comune best practice, fissare standard per la conclusione di accordi e per la trasparenza, e ascoltare le rimostranze dei partecipanti. (Ne parlo in dettaglio più avanti).

COSA NON FARE: Andare in cerca di click

COSA FARE: Commissionare selettivamente un lavoro in linea con i vostri valori

Il business degli influencer non funziona se le piattaforme e i brand non incentivano dei contenuti di qualità. I creatori portano il peso maggiore dell’incertezza pervasiva che caratterizza il settore, devono dedicare un bel po’ di tempo a gestire norme sui contenuti in continuo cambiamento, nuove piattaforme e nuovi strumenti, contratti sbilanciati, aspettative elevate sul coinvolgimento del pubblico e ripercussioni negative derivanti dall’essere dei personaggi pubblici con poche tutele professionali. Molti leader, sia tra i brand che tra gli influencer, vogliono che le relazioni transazionali restino in disparte, e per una buona ragione. Relazioni professionali di più lungo termine che si concentrano su un genuino allineamento di valori e obiettivi, anziché sulla viralità e la quantità dei contenuti, tendono a risultare più gratificanti per tutti i soggetti coinvolti.

Nello stesso tempo, le piattaforme e alcuni brand chiedono a un maggior numero di persone di considerarsi dei creatori, con dei ritorni decrescenti. In un mercato così affollato, milioni di sedicenti creatori di contenuti guadagnano meno di 2.000 dollari l’anno, stando all’indagine di Keller Advisory. La stessa indagine ha rivelato che un terzo di tutti i creatori, e quasi metà dei full-timer, riferiscono un logoramento psicofisico dovuto alle esigenze specifiche del loro lavoro. E vorrebbero quasi tutti che cambiasse la natura delle loro collaborazioni con i brand.

Brian Lindo, un creatore di contenuti in campo alimentare e salutistico, che al momento in cui scrivo ha 79.000 follower su Instagram, cita il lavoro che porta avanti con PepsiCo e la campagna che ha svolto per Dig In come un esempio di collaborazione reciprocamente benefica tra influencer e brand. Dig In accende un faro sui ristoranti di proprietà di persone di colore, che in passato non sono mai stati presi molto in considerazione dalla stampa. «Questa campagna mi dà la possibilità di raccontare una storia», dice Lindo. «PepsiCo mi ha messo a disposizione questa piattaforma e mi ha detto: “Fai delle ricerche, sfrutta il tuo seguito, fai del crowdsourcing e cerca di capire se ci sono dei ristoranti da mettere in luce”». Spiega Tiffaine Stephens, la senior marketing manager di PepsiCo che coordina l’iniziativa Dig In: «Devi andare là fuori e battere le strade per capire cosa sta succedendo. Lavora solo con persone che hanno costruito credibilità e conoscenze, conoscono i problemi e sanno come usare la propria voce».

Se la campagna Dig In diventerà virale, tanto meglio. Ma l’obiettivo dell’iniziativa è raccontare storie vere e convincenti che mettano PepsiCo in condizione di sviluppare una relazione positiva con la comunità. Fornire agli influencer brief e obiettivi per le campagne è ancora una parte necessaria del processo, ma i brand dovrebbero cercare degli influencer di cui possono fidarsi per una narrazione onesta, supportata dall’expertise e dalle relazioni positive che intrattengono con la comunità. Un grosso seguito o un video che diventa virale su TikTok non fa un influencer. Cercate di conoscere la persona che sta dietro l’account, proprio come fareste con qualunque collega di lavoro. Gli influencer sono una componente essenziale della vostra strategia social, utilizzata in tutta l’organizzazione.

Se la precarietà e l’assenza di confini stanno alla base di quasi tutti i problemi che affliggono il settore, la risposta è professionalizzarlo. Coloro che ci lavorano guardano con ottimismo al futuro. Traduciamo quell’ottimismo in una visione chiara e sociale del futuro, con ruoli e aspettative definiti per tutti coloro che sono coinvolti all’interno e una comprensione migliore del settore da parte dell’opinione pubblica. Il suo destino sta nella comunità e nella solidarietà tra coloro che ci lavorano.

Possiamo imparare da altre industrie culturali. Influencer, professionisti del marketing e agenzie dovrebbero abbozzare e implementare un codice etico professionale come quello messo a punto dalla Society of Professional Journalists. Dovrebbero formare un’associazione in piena regola come, per esempio, il Council of Fashion Designers of Americas, per educare l’opinione pubblica, premiare un lavoro di qualità e innovativo e fornire supporto ai neo-influencer. Abbiamo visto nell’estate del 2023 come i sindacati SAG-AFTRA e il Writers Guild abbiano negoziato e codificato standard generali di settore per la retribuzione e le condizioni di lavoro nell’industria cinematografica americana. Le differenze tra influencer e lavoratori di Hollywood si attenuano sempre di più man mano che passa il tempo, dalla struttura di base del loro lavoro – per progetti, a volte come contributori individuali e a volte come membri di un team, di solito in collaborazione con grandi aziende che controllano i metodi di distribuzione – al ruolo che occupano nei cuori e nelle menti dei loro fan. Gli influencer potrebbero prendere spunto dal successo dei sindacati di Hollywood, costituendone uno o unendosi a SAG-AFTRA.

Tramite la sindacalizzazione o qualche altra forma di professionalizzazione, l’equità retributiva, la trasparenza delle piattaforme e la responsabilizzazione, la tutela dei diritti degli influencer dovrebbe rimanere sempre in primo piano.

*EMILY HUND è autrice di The Influencer Industry. The Quest for Authenticity on Social Media, e svolge attività di  ricerca presso il Center on Digital Culture and Society della Annenberg School for Communication della University of Pennsylvania.


IN COSA CONSISTE UN CELEBRITY BRAND DI SUCCESSO?

Le star usano il proprio status di influencer per lanciare i loro prodotti e accaparrarsi una quota più elevata di profitti

Ayelet Israeli, Jill Avery, Leonard A. Schlesinger, Matt Higgins*

NEGLI ULTIMI ANNI, Ryan Reynolds e George Clooney hanno guadagnato più soldi con i loro brand di liquori, Aviation American Gin e la tequila Casamigos, che con i film. Serena Williams e Maria Sharapova, dopo aver abbandonato il tennis agonistico, oggi guadagnano bene con la vendita delle loro linee di abbigliamento e dermocosmesi, S by Serena e Supergoop. Rihanna e Dr. Dre guadagnano milioni vendendo, rispettivamente, i loro brand di cosmetica e lingerie, e di auricolari per l’ascolto della musica.

L’endorsement di brand preesistenti da parte delle celebrità rientra nella strategia di marketing da decenni. Ma in un mondo in cui le celebrità hanno costruito enormi seguiti sui social media e sono diventate influencer efficaci, molte star stanno cambiando strada: anziché sponsorizzare o promuovere con la loro immagine i prodotti di altre aziende, lanciano i propri brand per sfruttare economicamente la notorietà di cui godono.

Per ogni brand di successo lanciato da una celebrità, tuttavia, molti altri sono falliti miseramente, anche quelli di alcune grandissime star. Per avere successo, i fondatori di questi brand devono identificare dei vantaggi strategici potenziali, trasformarli in vantaggi competitivi e sviluppare un’expertise in aree lontanissime da quelle in cui si sono guadagnati la fama.

In quest’articolo presentiamo un framework per la costruzione di un celebrity brand di successo, derivato dalle ricerche sul campo che abbiamo effettuato mentre scrivevamo dei casi di studio sui capi di abbigliamento modellanti Skims di Kim Kardashian e sulla linea di prodotti alimentari confezionati Momofuku Goods di David Chang. Mettiamo in luce anche le trappole più comuni.

L’EVOLUZIONE DELLE CELEBRITÀ DA INFLUENCER A MARKETER

Gli accordi di sponsorizzazione obbligano spesso una celebrità a fare delle apparizioni promozionali, a usare o indossare i prodotti in pubblico e a comparire negli spot pubblicitari. Alle celebrità, gli endorsement forniscono un reddito aggiuntivo; ai brand, danno la possibilità di creare consapevolezza e di attrarre potenziali acquirenti. La logica convenzionale, supportata da un’infinità di ricerche accademiche, vuole che questi brand abbiano successo quando si associano a uno sponsor attrattivo che è credibilmente esperto in una determinata area e appare degno di fiducia.

Con l’ascesa dei social media, le celebrità sono diventate influencer e sponsor, nel senso che postano materiale promozionale sui loro canali. Per essere attrattivi nei confronti dei brand, gli influencer devono avere un’audience numerosa e leale; in passato, quelli con i pubblici più numerosi erano quasi sempre persone ad altissima visibilità, come attori, musicisti e campioni dello sport. Più recentemente, i social media hanno permesso a persone normalissime di diventare influencer postando contenuti coinvolgenti che diventano virali. Per esempio, Mr. Beast (che ha iniziato ad accumulare follower a 13 anni postando contenuti relativi ai videogame) ha oltre 241 milioni di iscritti al suo canale Youtube, e Khaby Lame (un italiano nato in Senegal, i cui video mostrano umoristicamente come risolvere i piccoli problemi pratici della vita quotidiana) ha più di 161 milioni di follower su TikTok.

L’influencer marketing presenta dei vantaggi per i brand: poiché sempre più persone cercano di evitare la pubblicità intrusiva, quelle che vanno sui social media sono sempre più disposte ad accettare messaggi di marketing da influencer che ammirano e di cui apprezzano i consigli. I consumatori che acquistano di conseguenza potrebbero essere più legati al brand perché simboleggia la passione che li accomuna e l’interazione parasociale percepita che intrattengono con la celebrità in questione.

Le celebrità che passano dai semplici accordi di sponsorizzazione ad accordi in quanto influencer devono essere in grado di attrarre milioni di follower, di creare contenuti coinvolgenti, di combinare post quotidiani (non pagati) con messaggi promozionali e di raccomandare il brand con modalità che appaiono spontanee e autentiche. E siccome questo lavoro richiede competenze di ordine superiore e un impegno quotidiano incessante, i brand ricompensano riccamente le celebrità che assumono per contratto il ruolo di influencer.

Perché le celebrità hanno cominciato a immaginare, lanciare, gestire e promuovere i loro brand? Primo, l’ubiquità degli influencer che operano sui social media ha spinto i consumatori a cercare autenticità nella pubblicità – e la percepiscono maggiormente in un brand che appartiene a una celebrità. Secondo, i social media (specie se impiegano dei video) hanno aperto una linea di comunicazione diretta tra le celebrità e i loro fan. Terzo, i brand di e-commerce e direct-to-consumer (DTC) consentono uno sviluppo e una distribuzione molto più veloci di nuovi prodotti, e quindi assicurano margini più elevati. Quarto, mentre i brand preesistenti potrebbero usare gli endorsement o gli influencer nel quadro di una strategia di marketing più generale, le celebrità che possiedono dei brand possono fare affidamento sui loro social media, riducendo sensibilmente i costi di marketing per ottenere un vantaggio di costo sui brand preesistenti.

COSA DETERMINA IL SUCCESSO DI UN CELEBRITY BRAND?

Kim Kardashian è una star ubiquitaria dei reality show televisivi e una celebrità. Alla fine del 2023 aveva 363 milioni di follower su Instagram, 75 milioni su X (l’ex Twitter), 35 milioni su Facebook e 9 milioni su TikTok. Ha fatto endorsement tradizionali di brand come Balenciaga e lo smalto per unghie OPI, e ha operato come influencer a pagamento sui suoi social media facendo promozione, tra gli altri, a Dolce & Gabbana. Quando ha iniziato a riflettere sulla possibilità di creare un suo brand, ha identificato un bisogno da soddisfare: i capi modellanti indossati tradizionalmente dalle donne (la categoria di prodotti lanciata in origine da Spanx) non si addicevano alla sua figura. Nel 2019 la Kardashian ha lanciato Skims per soddisfare quel bisogno: lei funge da direttore creativo e da musa estetica del brand; un cofondatore, Jens Grede, opera come CEO. I due hanno posizionato Skims come un brand orientato alle soluzioni che punta sull’inclusività sia per le taglie sia per il colore della pelle. Dalla fondazione, Skims si è esteso ad altre categorie dell’abbigliamento, tra cui l’intimo, gli abiti da casa, i pigiami e le camicie da notte e l’activewear. Nel 2023 il brand Skims è stato valutato 4 miliardi di dollari e il grosso del suo fatturato (che alla fine del 2022 aveva raggiunto i 500 milioni di dollari) derivava dalle vendite effettuate sul sito Internet dell’azienda.

David Chang è un noto chef che possiede ristoranti a New York, Toronto, Las Vegas e Los Angeles. È anche un personaggio televisivo, produttore di podcast e autore di bestseller. Come Kardashian, anche Chang ha fatto degli endorsement tradizionali (per Audi) ed è stato influencer a pagamento (per i burger vegetali Impossible). Nell’autunno 2020, dopo mesi di chiusura dei ristoranti dovuti alla pandemia da Covid-19, la catena di locali di Chang, Momofuku, ha lanciato la sua prima linea di beni di consumo confezionati, Momofuku Goods, venduti esclusivamente DTC sul sito Internet dell’azienda. Da allora Momofuku Goods ha introdotto tutta una serie di prodotti, tra cui noodles, sali stagionati, chili e salse, che oggi sono disponibili anche nei supermercati di nicchia Target e Whole Foods.

L’analisi approfondita che abbiamo condotto su Skims e Momofuku Goods, insieme all’osservazione di una vasta gamma di altri celebrity brand, ci ha consentito di identificare quattro principi-base per assicurarne il successo.

Costruite un seguito numeroso sui social media. È una precondizione indispensabile per il successo. Come vedremo, non è solo il numero di follower, ma anche la profondità del coinvolgimento, che distingue i brand di successo. Alcune celebrità preferiscono mantenere la privacy. Per esempio, gli attori Jennifer Lawrence, Chris Pine ed Emma Stone non hanno account pubblici sui social media. E alcuni hanno obiezioni filosofiche nei confronti di questi media. Scarlett Johansson, che non ha account pubblici sui social media, è un esempio paradigmatico: ha dichiarato che i social non giovano alla sua salute mentale («Ho già abbastanza ansia»). Nel 2022, quando ha lanciato la linea dermocosmetica The Outset, anche in ricordo della sua lotta con l’acne, Johansson si è resa conto di quanto fosse importante creare un luogo virtuale di dialogo con i follower. Ha iniziato a postare dei contenuti (unicamente riguardo al brand) sugli account di The Outset. Quello che ha su Instagram conta ben 300.000 follower. (Nel frattempo, un account di Instagram dedicato a Johansson e gestito da un fan ha più di 4 milioni di follower). I celebrity founder che non hanno account personali sui social media potrebbero decidere di minimizzare il canale vendite dirette e affidare le vendite a terzi. The Outset si può trovare nelle principali catene specializzate, inclusa Sephora, mentre Skims è arrivata al successo puntando unicamente sulla distribuzione DTC.

Promuovete una buona integrazione tra celebrità e categoria di prodotto. Gli inserzionisti pubblicitari hanno sempre cercato di selezionare endorser e influencer che si sposino bene con il brand. Queste persone devono apparire naturali e credibili quando raccomandano il prodotto. Se la collaborazione non sembra autentica, i consumatori non si lasceranno convincere ad acquistare.

Lo stesso discorso vale per i celebrity brand. Le celebrità sono quasi sempre note per qualcosa: una expertise specifica, un punto di vista chiaro, un’estetica peculiare o un determinato stile di vita. Sfruttare quella particolarità e trasferirla al brand in un modo coerente con il profilo della celebrità è decisivo per il successo. Momofuku sfrutta il punto di vista culinario di Chang per creare dei prodotti che i consumatori associano prontamente e naturalmente al grande chef, come i noodles e “chill crunch”. I modelli di Skims riflettono l’estetica minimalista e l’amore per i toni pastello della Kardashian, oltre a celebrare le sue forme generose.

Quello di Hulk Hogan è un caso di studio contrastante. Hogan, che è stato un wrestler professionista a più riprese tra il 1977 e il 2003, ha sperimentato (senza fortuna) vari celebrity brand. Alcuni dei suoi tentativi iniziali erano in campo alimentare – dove, nella corretta percezione dei consumatori, non aveva né una expertise specifica né un punto di vista particolare. Pastamania era un ristorante fast-food che ha chiuso nel giro di un anno. Gli Hulkster Cheeseburgers, dei sandwich riscaldabili nel forno a microonde, sono stati abbandonati poco dopo il lancio. Hulk Hogan Thunder Mixer era un frullatore che non ha mai incontrato il favore dei consumatori. Più recentemente Hogan ha lanciato un brand terapeutico a base di cannabis, che aveva creato per alleviare il mal di schiena cronico che l’aveva afflitto in tutta la sua carriera agonistica. Questo brand, più in linea con la fonte della sua fama, sembra più adatto a trasferirne la celebrità dal wrestling a un prodotto appetibile per i consumatori.

Trovate o sviluppate un prodotto superiore. Anche la celebrità più amata farà fatica a supportare una linea di prodotti scadenti; pur se il suo nome e il suo endorsement potrebbero indurre il consumatore ad acquistarli una volta, sarà difficile ottenere degli acquisti ripetuti.

A volte le celebrità e i loro rappresentanti prendono in esame prodotti preesistenti per identificare un’offerta di alta qualità che si presta a una partnership e poi la riposizionano. Aviation American Gin, per esempio, è stato creato nel 2006 da un team di distillatori di Portland, Oregon, che lavoravano con un barista locale. È stato acclamato per il suo aroma unico – è meno dominato dal ginepro, come sono tipicamente i gin inglesi, e ha note di lavanda francese, buccia d’arancia, cardamomo, coriandolo, salsapariglia e semi di anice. Il brand aveva una decina di anni quando Ryan Reynolds ha rilevato una quota di minoranza e ha iniziato a promuoverlo aggressivamente negli spot pubblicitari e sui social media, trasformandolo in un celebrity brand. Due anni dopo i proprietari l’hanno venduto al colosso dei liquori Diageo per 610 milioni di dollari.

In altri casi la celebrità è coinvolta personalmente e intensamente nello sviluppo del prodotto, fin dalle primissime fasi. Quando hanno lanciato, rispettivamente, Momofuku Goods e Skims, Chang e Kardashian hanno investito tempo, energie e fondi in abbondanza per fornire dei prodotti eccezionali ai consumatori. Il laboratorio culinario segreto di Momofuku è stato messo in piedi per sperimentare ingredienti esclusivi per i ristoranti molto prima del lancio dei suoi prodotti per i consumatori, e Chang ha sfruttato quell’asset strategico per sviluppare offerte nuove ed eccitanti per la vendita al dettaglio. I primi lanci sono andati esauriti in fretta, e le recensioni dei lettori sono state straordinariamente positive. Analogamente, il team di Skims ha studiato e testato a fondo ogni categoria di prodotto prima del lancio. Per esempio, prima di immettere sul mercato la linea di reggiseni Skims, i progettisti hanno passato tre anni a svilupparli e un altro anno a farli indossare a consumatrici di varie conformazioni e taglie. La stessa Kardashian prova ogni anno centinaia di nuovi prodotti per assicurarsi che siano all’altezza dei suoi elevati standard personali. (Posta spesso immagini di queste sessioni di prova sui social media, stimolando ulteriormente la domanda). I prodotti iniziali di Skims erano estremamente popolari e si sono meritati finora più di 115.000 valutazioni a quattro e cinque stelle.

Quando un prodotto manca di specificità, tuttavia, i consumatori tendono a notarlo. Nel 2007, Donald Trump ha lanciato Trump Steaks – bistecche surgelate distribuite per posta. I consumatori si sono lamentati immediatamente della genericità di quella proposta di valore, e nel giro di due mesi le bistecche si vendevano a prezzi stracciati. Anche se Trump godeva di una grandissima popolarità e di un’altissima visibilità, e il suo brand si era dimostrato di successo negli immobili e nei casinò, il suo nome non bastava a compensare un prodotto inferiore e dal prezzo esagerato.

Quando pensano al livello di coinvolgimento che vogliono avere nella fase di sviluppo del prodotto, i celebrity founder dovrebbero tener presente che alcuni membri dell’opinione pubblica sono scettici riguardo all’impegno delle star nei confronti dei propri brand – un cinismo che deriva anche da una lunga storia di endorsement di celebrità che hanno poi snobbato i prodotti promozionati. Per esempio, Oprah Winfrey pubblicizzava un tablet Microsoft Surface ma si faceva vedere in giro con in mano un Apple iPad; David Beckham pubblicizzava i telefonini Motorola e andava in giro con un Apple iPhone; e Brad Pitt appariva nella pubblicità di Chanel N° 5 ma successivamente ha ammesso di non averlo mai indossato. Oltre ad assicurare la qualità di un prodotto e a investire nel suo sviluppo, le celebrità devono impegnarsi a usarlo effettivamente.

Interagite attivamente con i follower, e ascoltateli. Per rendere efficace l’influencer marketing, fan e follower devono interagire, e intrattenere una relazione personale percepita, con l’influencer. Come abbiamo osservato in precedenza, il profondo coinvolgimento dei follower non è meno importante del loro numero. I proprietari dei celebrity brand ispirano questo coinvolgimento costellando i loro feed di messaggi persuasivi che forniscono informazioni suggestive e pertinenti, valore emozionale e intrattenimento.

Chang, i cui social media includono dimostrazioni di cucina e tutorial, usa i prodotti Momofuku nei video, e di tanto in tanto promoziona nuovi prodotti di sua invenzione per rimanere credibile agli occhi dei suoi follower e guadagnarne la fiducia. Per Kardashian, i cui social media account hanno sempre incluso foto che la ritraggono con amici e familiari, la condivisione di foto di queste persone che indossano prodotti Skims sembra naturale. Lei indossa spesso capi Skims quando appare in altri forum sui social media. E ha usato i follower come focus group, cercando il loro feedback prima di lanciare la linea di reggiseni Skims, il che le ha permesso di capire meglio i gusti e le preferenze delle sue clienti e ha consentito a queste ultime di sentirsi parte del brand.

CREARE SLANCIO

La capacità di costruire uno storytelling coinvolgente sui vari canali a disposizione riduce significativamente i costi di acquisizione dei clienti per le celebrità. È un fattore particolarmente critico in un’era nella quale i DTC brand sono in difficoltà con il prezzo elevato, e il ROI declinante, della pubblicità digitale su piattaforme come Facebook, Instagram e TikTok.

Chang crea nuovi piatti nei suoi ristoranti, vanta la sua expertise in televisione, scrive libri di cucina e traduce quei contenuti in prodotti destinati ai consumatori. I ristoranti, le trasmissioni televisive e la stampa gli permettono di offrire un punto di vista chiaro ai follower di tutto il Paese (anche in posti lontanissimi dai suoi ristoranti), il che ha reso estremamente logica la creazione di un brand alimentare che può proporre a tutti i follower. Il suo coinvolgimento continuo in questi forum contribuisce ad aumentare lo slancio.

Anche Kardashian combina comportamenti online e offline per alimentare il suo successo. Lei e i suoi familiari sono protagonisti dei reality show da 16 anni e Kim presenta regolarmente i prodotti Skims in quei programmi. Anche se la maggior parte delle vendite si effettuano sul sito Internet, nel 2023 Skims ha aperto dei temporary shop in vari luoghi favorendo un coinvolgimento più personale con il brand (e con Kardashian) e accrescendo la consapevolezza. Kim comprende molto bene le fasi della cultura popolare e ha trovato la maniera di incorporarle nelle campagne promozionali di Skims: mostra regolarmente noti personaggi negli spot pubblicitari e ha firmato contratti di collaborazione con la squadra olimpica degli Stati Uniti e con la National Basketball Association. Posta queste interazioni reali sui suoi social media, creando un’esposizione ulteriore e una viralità che va oltre i suoi follower immediati.

Questi principi si applicano anche alla nuova versione delle celebrità – quelle nate sui social media, che devono il loro status al ruolo di influencer virtuali e alla capacità di costruirsi una credibilità e un seguito presso i rispettivi pubblici. Esse sviluppano prodotti “di marca” per monetizzare la propria influenza senza ricorrere alle sponsorizzazioni o agli endorsement. Un esempio è Emma Chamberlain, che ai tempi del liceo ha creato su Youtube un canale da oltre 12 milioni di iscritti. Nota per la sua predilezione per il caffè, Emma ha lanciato nel 2020 un brand DTC, Chamberlain Coffee, che continua a crescere e oggi è disponibile anche nei punti vendita di Target e altre catene di alto profilo.

Per avere un esempio di segno contrario, considerate il brand di abbigliamento per il tempo libero Ivy Park, creato da Beyoncé, che stenta ad affermarsi perché non rispetta alcuni di questi principi che stanno alla base del successo. L’estetica generale del brand è sportiva, il che potrebbe sembrare incoerente con l’immagine più patinata e più sofisticata, da alta moda, della cantante. Le recensioni dei consumatori indicano che il prodotto non si differenzia abbastanza dai brand concorrenti. E anche se l’account di Beyoncé su Instagram ha più di 318 milioni di follower, i suoi post che hanno per tema Ivy Park sono meno frequenti rispetto a quelli pubblicati da celebrity founder di maggior successo riguardo ai loro brand. Gli osservatori ritengono che, diversamente da Kardashian, Beyoncé sia una persona riservata, la cui attrattiva deriva anche dalla scelta di restare circondata da un alone di mistero. Invece di usare la sua influenza, lei invia prodotti-omaggio ad altre celebrità e ad altri influencer, nella speranza che indossino capi Ivy Park e ne parlino bene ai consumatori. È sempre meglio di niente, ma limitando il suo coinvolgimento diretto e la sua promozione, Beyoncé sta allontanando sé stessa e la propria celebrità dal brand.

COSA PUÒ ANDARE STORTO?

I celebrity brand ricevono attenzione – e l’attenzione può essere un’arma a doppio taglio. I consumatori potrebbero vedere con scetticismo i brand, specie se le star che ci sono dietro sono controverse o polarizzanti. Kardashian ha milioni di follower, ma anche milioni di detrattori. A volte si ha l’impressione che la gente non desideri altro che fare a pezzi una celebrità e se quella ha lanciato un brand, potrebbe ritrovarsi presa tra due fuochi.

Un esempio è quello del lifestyle brand Goop di Gwyneth Paltrow, che ha avuto un grandissimo successo finanziario sotto tutti gli aspetti: ha raccolto 70 milioni di dollari di venture capital e nel 2020 è stato valutato 250 milioni. Ma Paltrow è stata spesso criticata perché promuove quelle che molti considerano forme di “ciarlataneria” – pratiche salutistiche alternative, l’energy healing e altre terapie scientificamente opinabili. Nel 2023 ha dichiarato di voler vendere il proprio brand tra qualche anno e alcuni affermano che la valutazione dell’azienda sarebbe più alta se avesse fatto a meno di promuovere prodotti pseudosanitari che inducono allo scetticismo.

Analogamente, l’azienda cosmetica della modella Miranda Kerr, Kora Organics, è stata criticata per la qualità dei suoi prodotti, che avrebbero causato irritazioni della pelle e sfoghi. Brady, il brand di abbigliamento di Tom Brady, è stato lanciato piuttosto recentemente. È stato criticato per i prezzi eccessivi e pare che non abbia fatto molta presa sui consumatori. The Honest Company di Jessica Alba ha ricevuto tantissime lamentele e una citazione in giudizio per la qualità dei suoi prodotti, per gli ingredienti utilizzati e per le affermazioni non veritiere della pubblicità. (Nello stesso tempo, l’azienda si è aperta al capitale diffuso, con una capitalizzazione di mercato di oltre 270 milioni di dollari all’inizio del 2024, e a un certo punto la quota personale di Alba valeva più di 100 milioni di dollari – molto più di quello che potrebbe mai guadagnare con il suo lavoro di attrice).

Oltre a essere costantemente nel mirino, i celebrity brand sono sempre esposti al rischio che la celebrità venga coinvolta in uno scandalo o in una trasgressione legale o etica che si riflette inevitabilmente su di essi. Per esempio, l’ex marito di Kardashian, il controverso rapper Kanye West (oggi Ye), che ha sviluppato la linea di indumenti e sneaker Yeezy per Adidas ed era un influencer per molti altri brand, ha visto andare in fumo molti di quegli accordi quando ha fatto una serie di commenti razzisti e antisemiti.

Quando una celebrità si limita semplicemente a sponsorizzare un brand anziché esserne il proprietario o il creatore, questi scandali si potrebbero superare più facilmente, perché il legame tra la celebrità e il brand è più facile da scindere. (Per esempio, molti brand hanno voltato le spalle a Tiger Woods dopo l’incidente automobilistico e lo scandalo sessuale del 2009, ma hanno ripreso cautamente la collaborazione man mano che la riprovazione del pubblico si attenuava). Le ricerche effettuate sui consumatori dimostrano come i brand che reagiscono prontamente prendendo le distanze da un influencer dopo uno scandalo personale facciano registrare una performance azionaria migliore rispetto a quelle che reagiscono lentamente o non reagiscono affatto. Ma quando il brand appartiene alla celebrità, o vi si associa strettamente, è più difficile attenuare quel rischio. Se un brand è cresciuto ed è in grado di creare un significato che si colloca al di sopra e al di là della celebrità, i manager dovrebbero valutare seriamente la possibilità di prendere le distanze dalla star in questione per evitare qualunque impatto negativo futuro.

Da questi esempi si desume chiaramente che, per prosperare nell’era dell’influencer marketing e dei social media, i celebrity brand hanno bisogno come minimo di un seguito profondamente coinvolto, di una piena integrazione tra la celebrità e il prodotto, di un prodotto di qualità superiore, e di un dialogo effettivo con i fan e con i follower. Senza questi requisiti, tutta la fama del mondo non aiuterà un celebrity brand a prendere il volo.

**AYELET ISRAELI è professore associato di Business Administration alla Harvard Business School. JILL AVERY è senior lecturer in Business Administration e Distinguished Management Educator presso la marketing unit della Harvard Business School. LEONARD A. SCHLESINGER è professore alla Harvard Business School, dove dirige la practice-based unit. MATT HIGGINS è executive fellow della Harvard Business School, cofondatore di RSE Ventures e autore di Burn the Boots: Toss Plan B Overboard and Unleash Your Full Potential. È anche azionista di varie aziende citate in questo articolo, tra cui Momofuku, Skims e The Outset.


È ARRIVATO IL MOMENTO DI INGAGGIARE UN INFLUENCER VIRTUALE?

Fare affidamento su personaggi generati dall’IA potrebbe essere una strategia a basso rischio e ad alto coinvolgimento

Serim Hwang, Shunyan Zhang, Xiao Liu, Kannan Srinivasan***

QUANDO HA DECISO di promuovere la sua nuova linea di menù dietetici, l’azienda di pasti pronti a domicilio HelloFresh ha fatto una scelta sempre più popolare: ha ingaggiato una lifestyle influencer per dispensare consigli su Instagram. Jenna Kutcher è una persona del Minnesota, madre di due figli, che ha più di due milioni di follower, e, in una gara di 21 giorni, lei e altri 15 influencer ingaggiati dal brand hanno postato ricette e foto di pasti che preparavano con gli ingredienti forniti loro da Hello Fresh, tutte con il tag #RefreshWithHelloFresh. La campagna ha prodotto 451 post degli influencer e ha generato 5,5 milioni di impressioni, con il 20% dei follower che citavano espressamente HelloFresh su Instagram – un successo indiscutibile.

Risultati come questi hanno aiutato gli influencer a guadagnare qualcosa come 21 miliardi di dollari nel 2023. Ma queste partnership non sono prive di pericoli. La credibilità degli influencer si basa sulla fiducia, che può dimostrarsi fragile. A volte un post appare non autentico, oppure l’influencer esibisce, al di fuori della piattaforma, dei comportamenti che non sono in linea con l’immagine o con i valori che dovrebbero caratterizzare il brand. E man mano che l’influencer marketing cresce, si moltiplicano anche gli esempi di relazioni promozionali che hanno causato delusioni e rimpianti.

Nel 2017, per esempio, Adidas Originals ha creato uno spot pubblicitario diffuso su Instagram in cui presentava Kendall Jenner come ambasciatrice del brand. I detrattori affermavano che non c’era nulla di “originale” nella Jenner. “Le ha mai indossate? Come avrebbe potuto mai indossarle una borghese come lei?” Alla fine del 2023, il cinese “Lipstick King” Li Jiaqi, un pioniere tra gli influencer della moda e della cosmetica che può vantare 76 milioni di follower, ha perso pubblicamente la pazienza con una persona che si lamentava del prezzo di un eyeliner, accusandola di non lavorare abbastanza per guadagnare a sufficienza. L’episodio ha provocato una sollevazione e ha costretto Li a scusarsi pubblicamente in lacrime. Quando Chriselle Lim, un’influencer specializzata nella moda e nella bellezza, ha collaborato con Volvo su dei post che promuovevano la linea di vetture ecologiche della casa automobilistica, i critici hanno messo in luce la discrepanza tra l’oggetto della promozione e lo stile di vita iperconsumistico e dispendioso di Lim.

Questi incidenti di percorso sollevano un interrogativo: siete in grado di ingaggiare un influencer il cui comportamento inappuntabile e la cui immagine affidabile riducano il rischio di compromettere il messaggio promozionale?

Lil Miquela è una social media influencer che ha 3,5 milioni di follower su TikTok e altri 2,7 milioni su Instagram. Fin dal suo debutto, nel 2016, ha guadagnato mediamente due milioni di dollari all’anno postando contenuti a favore di brand prestigiosi, tra cui Dior, Calvin Klein e BMW. Lil Miquela ha molte probabilità in meno, rispetto agli influencer tradizionali, di dire o fare qualcosa di scandaloso, perché è un’immagine generata dal computer, programmata e controllata da un’agenzia di marketing.

Anche se gli influencer umani sono ancora molto più numerosi degli influencer virtuali, questi ultimi stanno diventando sempre più comuni. Stando a un’indagine, il 52% degli utilizzatori americani di social media seguono già un influencer virtuale e a livello globale quella percentuale è ancora più elevata. Brand come Prada, Cartier, Disney, Puma, Nike e Tiffany usano influencer virtuali per promuovere i loro prodotti. In questo articolo ci riferiamo alle nostre ricerche accademiche e agli studi di altri analisti per capire come i brand dovrebbero scegliere tra un influencer umano e uno virtuale. Offriamo anche delle indicazioni che i brand possono usare per sviluppare la propria strategia di influencer marketing.

Misurare i pro e i contro

Per comprendere i vantaggi rispettivi degli influencer umani e dei loro “colleghi” virtuali, ci concentriamo su cinque fattori: coinvolgimento, portata, diversity, rischio reputazionale e costo.

Coinvolgimento. Per scoprire come reagiscono i consumatori agli influencer virtuali che stanno subentrando progressivamente a quelli umani, abbiamo condotto una ricerca sul modo in cui i follower rispondono ai post di un tipo e dell’altro. Abbiamo raccolto contenuti di marketing postati da 551 influencer umani e da 13 influencer virtuali, tutti sponsorizzati da 112 brand. Quasi tutti i brand operano in segmenti della cosmetica e della moda, mentre il resto rappresenta la tecnologia, i viaggi e lo stile di vita, l’assistenza sanitaria o altri settori. I contenuti, che includevano oltre un milione di post, sono stati messi online tra giugno 2014 e dicembre 2020. Alcuni erano sponsorizzati e altri originali. Noi abbiamo misurato le valutazioni e i commenti dei follower su vari tipi di contenuti postati dagli influencer.

Studi precedenti hanno dimostrato che, quando un influencer virtuale (una figura animata o un umanoide) crea dei post organici su Instagram, questi tendono a ricevere più like e più emoji positivi rispetto a quelli degli influencer umani. Le ricerche di Chen Lou della Nanyang Technological University e dei suoi colleghi hanno messo in luce ciò che spinge i consumatori ad apprezzare maggiormente gli influencer virtuali, che sono la novità dell’interazione con immagini generate dal computer (CGI) e la diversa estetica che rappresentano. Inoltre, i consumatori che leggono i post degli influencer virtuali mostrano una maggiore disponibilità a condividere la propria esperienza con altri.

Nella nostra ricerca ci siamo focalizzati sui post sponsorizzati – quelli che vengono composti e pagati dagli operatori di marketing. Quando abbiamo confrontato i post a pagamento degli influencer virtuali con i loro contenuti organici, abbiamo scoperto che i follower mostravano un coinvolgimento superiore del 13,3% nei confronti dei primi, mentre i post sponsorizzati degli influencer umani ottenevano mediamente un coinvolgimento inferiore del 2,1% rispetto ai contenuti organici degli stessi influencer. Tra i settori che abbiamo studiato, quello della moda e della cosmetica era particolarmente ospitale nei confronti dei post sponsorizzati degli influencer virtuali – e mostrava una maggiore resistenza ai post sponsorizzati degli influencer umani: i post a pagamento pubblicati dagli influencer virtuali in quel settore generavano un coinvolgimento inferiore del 2,3% rispetto ai loro post non pagati.

I dati sul coinvolgimento evidenziano una chiara convenienza nell’utilizzo di influencer virtuali.

Portata. I brand decidono di usare grandi celebrità come influencer per una ragione ben precisa: le celebrità hanno tantissimi follower, il che accresce la visibilità dei prodotti. Nel dicembre 2020, il numero medio dei follower per gli influencer umani inclusi nel nostro studio era circa 2,8 milioni, mentre il numero medio dei follower per gli influencer virtuali si attestava intorno a 1,1 milioni.

Nelle ricerche accademiche sugli influencer, il numero dei follower e il coinvolgimento dei consumatori mostrano una relazione a forma di U capovolta – vale a dire che gli influencer con un seguito numericamente più alto o più basso creano meno coinvolgimento dei loro omologhi che hanno un seguito numericamente moderato. Ciò suggerisce che i brand non devono essere necessariamente dissuasi dai pubblici meno numerosi degli influencer virtuali. La nostra ricerca ha rivelato che, quando un brand non è universalmente noto, il numero di follower che ha un influencer non conta molto ai fini del coinvolgimento che suscita un contenuto sponsorizzato. Tra i brand della moda che facevano parte del nostro campione, per esempio, brand meno noti come Misbhy e Moschino ottenevano un coinvolgimento più elevato in risposta ai post sponsorizzati di influencer virtuali, rispetto a brand celeberrimi come Burberry, Chanel, Dior e Louis Vuitton.

Diversity. I brand di oggi vogliono essere inclusivi, e ciò comporta l’associazione con degli influencer che rappresentano un’ampia varietà di categorie demografiche. Gli influencer umani non formano un gruppo particolarmente eterogeneo. I marketer che operano in certi segmenti, come la moda e la bellezza, dicono che la maggior parte degli influencer specializzati in quei campi sono donne bianche. Quando abbiamo usato un programma di IA per tentare di identificare l’origine etnica dei 551 influencer umani che partecipavano al nostro studio, il programma ha stimato che il 65% di essi fossero bianchi, l’11% latino-ispanici, il 10% neri, l’8% asiatici, l’1% mediorientali e l’1% indiani. In teoria, i brand potrebbero tentare di attingere a quei bacini secondari, con il rischio di andare incontro ad altre complicazioni: gli influencer potrebbero già intrattenere relazioni commerciali con brand concorrenti, promuovere già così tanti altri brand da non accettare nuovi clienti, essere geograficamente così distanti da rendere logisticamente problematico lavorare con loro, avere un’estetica che non corrisponde ai desiderata del brand, avere accenti o parlare lingue difficili da capire per i mercati-obiettivo del brand. Perciò i brand hanno cominciato ad affidarsi agli influencer virtuali per ottenere la diversity.

Quando gli operatori di marketing creano un influencer con la computer graphics, non hanno vincoli di sorta in termini di etnia, genere o altre caratteristiche. Ecco un esempio di quanto possa diventare estrema la diversity: un influencer virtuale, di nome Blu, viene rappresentato come una creatura extraterrestre che orbita intorno alla Terra nella sua navicella spaziale, la Xanadu. Le aziende mostrano immaginazione nel costruire i propri influencer attraverso la ricerca della combinazione ottimale tra segmenti demografici, tratti comportamentali e caratteristiche di personalità.

Ralph & Russo, una casa di moda britannica, ha usato con successo un influencer virtuale per lanciare la sua collezione 2020-2021. L’azienda ha progettato Hauli, una modella di colore altissima. Il suo nome deriva dalle parole swahili che designano la forza e il potere. La campagna mostrava immagini di Hauli in posa davanti al Taj Mahal, alla Grande Muraglia e ad altre meraviglie del mondo – luoghi in cui fare un servizio fotografico con un influencer umano sarebbe difficile (e costoso). La combinazione tra un’influencer africana e un contesto globale si è rivelata vincente. La promozione ha avuto 19,4 milioni di visualizzazioni in tutto il mondo, e l’azienda ha stimato il valore dell’esposizione mediatica in 65,1 milioni di dollari.

Rischio reputazionale. Gli influencer umani restano invischiati di tanto in tanto in scandali o in episodi spiacevoli. I brand tentano di gestire questo rischio, che però c’è sempre. Gli influencer virtuali, privi di quell’autonomia che accompagna tipicamente il comportamento umano, lo mitigano già in fase di programmazione.

Nars, un’azienda francese di cosmetica e cura della pelle, è passata agli influencer virtuali dopo uno di questi scandali. Nel 2018 l’influencer Manny Mua e altri sono stati immortalati in una foto di gruppo in cui mostravano polemicamente il dito medio e denigravano un influencer rivale di nome Jeffree Star. Mua ha perso una grossa fetta dei suoi follower e Nars ha tagliato definitivamente i ponti con lui; l’anno dopo Nars ha lanciato un trio di influencer virtuali – Maxine, Chelsea e Sissi – che si comportavano con le modalità stabilite per loro dai programmatori. Come ci si poteva aspettare, i loro contenuti non hanno mai sollevato critiche o discussioni.

Costo. In poche parole, gli influencer umani sono più costosi di quelli virtuali. Per esempio, un influencer umano che ha più di un milione di follower potrebbe chiedere a un brand più di 250.000 dollari per post. L’azienda che ha creato Lil Miquela, attualmente l’influencer virtuale più popolare in assoluto, ne chiede solo 9.000. Poiché gli influencer virtuali costano meno – e non hanno spese di viaggio da farsi rimborsare – i brand ne possono ingaggiare molti di più.

Fare la scelta

Il concetto di influencer virtuali è ancora molto recente, perciò la ricerca accademica sta iniziando a capire solo adesso come e perché i consumatori reagiscono a questa forma di marketing. Ciò nonostante, la nostra ricerca e l’attenta osservazione dell’evoluzione in atto in questo campo suggeriscono quattro principi che potrebbero guidare i brand nella loro scelta.

Riconoscete il desiderio di novità dei consumatori. Per quanto concerne gli endorser e gli influencer, alcuni brand apprezzano il valore della longevità e della stabilità del rapporto. La relazione di Tiger Woods con Adidas, conclusasi recentemente, è durata 27 anni. Nell’era dei social media, tuttavia, molti consumatori cercano qualcosa di nuovo e di diverso: i brand che si affidano a celebrità tradizionali rischiano di apparire antiquati o poco interessanti. Le persone scorrono velocemente i social media e ci vuole qualcosa di insolito per convincerle a soffermarsi un attimo. In effetti, le ricerche hanno dimostrato che una ragione per cui i consumatori seguono gli influencer virtuali è che erano inattesi e sconosciuti fino a poco tempo fa. Anche se per scommettere su un influencer virtuale potrebbe servire un atto di fede, gli operatori di marketing dovrebbero rendersi conto che gli influencer umani potrebbero apparire sovraesposti o superati.

Guardate i dati. La nostra ricerca ha comportato lo studio di oltre un milione di contenuti nell’arco di sei anni e un’analisi statistica. Questo livello di ricerca potrebbe non essere praticabile per tutti i brand, ma un’analisi approfondita dei dati relativi ai social media è tanto fattibile quanto essenziale. I brand dei vostri concorrenti stanno usando degli influencer virtuali? Se sì, come sembrano rapportarsi i consumatori con quei contenuti, rispetto ai post degli influencer umani, e come sta cambiando questa dinamica? I brand del vostro settore stanno usando più influencer virtuali con il passare del tempo? I dati sul coinvolgimento sono pubblici e facilmente accessibili su Instagram e su altre piattaforme. I brand manager dovrebbero raccogliere e studiare i dati relativi al proprio segmento di mercato.

Adottate un approccio di portafoglio. I brand non si affidano quasi mai a influencer esclusivamente umani o esclusivamente virtuali, o a un particolare individuo internamente all’una o all’altra categoria. Scelgono invece un mix. In uno studio recente, abbiamo cercato di capire se gli influencer umani vengono sostituiti quando i brand raggiungono il successo con degli influencer virtuali. E abbiamo scoperto che i brand che adottano degli influencer virtuali continuano a usare anche influencer umani, ma di solito ne scelgono di diversi.

Sperimentate, misurate e imparate. Siccome gli influencer virtuali rappresentano un’opportunità di marketing meno costosa, i brand possono assimilare la scelta di ingaggiarli a un esperimento. Possono metterne al lavoro uno o due e poi misurare i livelli di coinvolgimento e i risultati. Dovrebbero calcolare il ritorno sull’investimento e confrontarlo con delle alternative, tra cui altri influencer virtuali, influencer umani e altri tipi di marketing. Il business degli influencer è abbastanza maturo da avere KPI e parametri standard per la misurazione della performance e i brand possono adottare questa metodologia quando devono prendere decisioni in tema di influencer marketing.

Dato che i consumatori trascorrono meno tempo sui media tradizionali e più tempo sui social media, probabilmente l’influencer marketing diventerà ancora più importante per i brand. Essendo ancora relativamente nuovo, esistono meno regole e meno pratiche consolidate, il che crea opportunità d’innovazione. La nostra ricerca indica che gli influencer virtuali offrono dei chiari vantaggi rispetto agli influencer tradizionali: il successo che stanno avendo i brand con essi dovrebbe spingere le imprese ad aprirsi a ulteriori innovazioni man mano che adottano il social media marketing.

***SERIM HWANG è marketing assistant alla SKK Graduate School of Business della Sungkyunkwan University di Seul. SHUNYANG ZHANG è assistant professor alla marketing unit della Harvard Business School. XIAO LI è associate professor of marketing alla Stern School of  Business della NYU. KANNAN SRINIVASAN è Professor of Management Marketing and Business Technologies della Carnegie Mellon’s Tipper School of Business.

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