I cambiamenti geopolitici, che hanno interessato l’Europa e gli Stati Uniti nell’ultimo decennio, evidenziano la profonda crisi attraversata dalle democrazie liberali e l’emergere dell’autoritarismo. Come ha sottolineato lo storico e politologo statunitense Robert Kagan, sarebbe in realtà più corretto parlare del riemergere dell’autoritarismo, dal momento che i regimi autoritari hanno sempre rappresentato la più grande minaccia al liberalismo, sin dalla nascita dell’idea liberale.
Oggi l’autoritarismo, che si credeva debellato per sempre, ritorna come forza geopolitica a livello mondiale, grazie ad attori quali Russia e Cina, alfieri di un modello illiberale che trova estimatori anche all’estero. La recessione democratica sperimentata recentemente da Ungheria, Turchia e Filippine, Paesi dove le prospettive democratiche sembravano decisamente allettanti fino a qualche anno fa, testimonia da un lato come il modello della leadership autocratica stia prendendo decisamente piede, dall’altro come le democrazie vengono attaccate a livello di idee e principi.
Il ritorno dell’autoritarismo è stato accompagnato da una netta presa di posizione ideologica che riprende temi cari alla millenaria critica al liberalismo, proprio in un momento in cui il mondo liberale sta soffrendo la sua più grande crisi di fiducia dagli anni Trenta. Il neo-autoritarismo di Mosca e Pechino è armato di nuovi mezzi di controllo e di disgregazione sociale, inimmaginabili fino a qualche anno fa, che, avvalendosi di tutti gli strumenti del nuovo universo dei media digitali, rafforzano il dominio autoritario in patria e raggiungono il cuore delle società liberali all’estero per indebolirle dall’interno.
L’applicazione calcolata di metodi non lineari, come l’uso della disinformazione, per attaccare un avversario creando divisioni interne a un Paese, ossia la strategia di Prometeo, resa popolare dal famoso statista polacco Józef Piłsudski nei primi del Novecento, viene aggiornata alla luce della teoria Gerasimov. Valery Gerasimov, Capo di Stato Maggiore delle forze armate russe e teorico dell’omonima dottrina, applicata nella guerra della Russia in Ucraina e in Siria, sottolinea come “il ruolo degli strumenti non-militari nel conseguimento di obiettivi strategici politici e militari sia cresciuto e, in molti casi, questi strumenti abbiano superato il potere delle armi in quanto ad efficacia”.
In altre parole una campagna di dezinformatsiya, volta a screditare il governo di un determinato Paese, e/o un attacco cyber a un’istituzione finanziaria, possono creare effetti destabilizzanti superiori a quelli conseguibili con metodi di guerra convenzionale. La capacità, per certi versi inaspettata, dei regimi autoritari di attuare la censura a livello digitale e di esercitare influenza all’estero ha reso necessaria la creazione di nuovi termini capaci di descrivere adeguatamente questa nuova situazione.
Centrale nella strategia d’attacco dei regimi autoritari al mondo liberale è il concetto di sharp power, parola relativamente recente nata in antitesi al soft power, che aveva caratterizzato la politica mondiale nell’arco temporale compreso tra la fine della Guerra Fredda e l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001.
Con l’espressione sharp power, intendiamo un approccio agli affari internazionali che comporta tipicamente tentativi di censura o l’uso di manipolazione per indebolire l’integrità di istituzioni indipendenti. Come affermato nel report stilato nel dicembre 2017 dal Forum internazionale per gli studi democratici del National Endowment for Democracy che ha coniato questo termine, la parola sharp (in italiano “tagliente”) è stata scelta espressamente per sottolineare come questo potere (power) cerchi di “perforare, penetrare gli ambienti politici e informativi dei paesi presi di mira“.
Un esempio recente di sharp power è l’ingerenza del Cremlino nelle elezioni straniere, con l’obiettivo di indebolire la credibilità dei regimi democratici. Negli ultimi dieci anni, gli Stati Uniti e le democrazie europee sono stati soggetti a interferenze sempre più sofisticate da parte russa. Mosca sfrutta i conflitti esistenti all’interno di queste società per aumentare la polarizzazione ed erodere il consenso democratico. Concentrandosi sulle elezioni, il Cremlino cerca di minare le norme democratiche di base.
L’interferenza del Cremlino nei processi elettorali all’estero è un fenomeno sul quale è opportuno spendere qualche ulteriore parola prima di occuparci di altri settori in cui lo sharp power esercita la sua influenza. L’ingerenza elettorale del Cremlino consiste di dieci metodi chiave (disinformation, political advertising, sentiment amplification, identity falsification, hack-and-leak operations, reconnaissance hacking, infrastructure attacks, elite co-optation, party or campaign financing, extreme intervention) che rientrano in quattro macro categorie di interferenze: 1) manipolazione delle informazioni, 2) interruzione informatica, 3) political grooming, 4) intervento estremo.
Non esiste un modello universale per le operazioni di ingerenza russe, ogni caso è diverso e comporta una combinazione unica di metodi basati sugli obiettivi del Cremlino e sul contesto e le vulnerabilità specifiche del Paese di destinazione e/o del processo elettorale. Molti di questi metodi si sovrappongono e si completano a vicenda. Ad esempio, le campagne di influenza dei social media coinvolgono generalmente sia la disinformazione sia l’amplificazione di certe affermazioni (sentiment amplification) su temi divisivi (immigrazione, etc), a volte combinata con la pubblicità politica (political advertising).
L’interferenza elettorale russa è un gioco di lungo corso: molti di questi metodi sono usati, in varia misura, ben prima delle elezioni e si intensificano durante le campagne elettorali. Gli sforzi di influenza sono diventati nell’ultimo decennio una caratteristica costante del nostro panorama politico. La guerra di disinformazione del Cremlino contro l’Europa non mostra segni di rallentamento e le notizie sugli attacchi informatici sono sempre più frequenti.
Tale strategia manipolativa deriva dal concetto sovietico di Aktivnie Meropriyatiya (Misure Attive): un lento processo di sovversione ideologica e guerra psicologica il cui obiettivo di medio-lungo periodo è modificare la percezione della realtà da parte di un soggetto per indurlo ad agire in modo tale che a trarne beneficio sia il suo avversario. Gli sforzi di influenza attuati dal Cremlino in questi anni sono solo un sofisticato aggiornamento all’era digitale di questa vecchia strategia.
Chi volesse approfondire questi temi con dei casi relativi a Brexit, Presidenziali americane del 2016 ed elezioni politiche italiane del 2018 può consultare questo link.
L’ambito di applicazione dello sharp power va al di là della politica e investe anche il settore cosiddetto CAMP (Culture, Academics, Media, Publishing) dispiegando i suoi effetti anche sulle sfere della cultura, dell’università, dei media e del mondo editoriale.
Christopher Walker, vicepresidente per gli studi e le analisi del National Endowment for Democracy, ha sottolineato come “gli effetti corrosivi dello sharp power sono sempre più evidenti nelle sfere della cultura, del mondo accademico, dei media e dell’editoria, settori cruciali per determinare in che modo i cittadini delle democrazie comprendono il mondo che li circonda. L’assalto dello sharp power sia alla politica sia al regno delle idee rappresenta una minaccia critica per i sistemi democratici. Lo sharp power può essere usato per degradare l’integrità delle istituzioni indipendenti attraverso la manipolazione, come quando le entità cinesi che agiscono per conto dello stato-partito comunista mascherano le loro iniziative come iniziative commerciali o iniziative di base della società civile”.
Un caso da manuale di sharp power nel settore dei media è quello verificatosi in Australia 5 anni fa. Nell’aprile 2014, la sezione internazionale della Australian Broadcasting Corporation (ABC) annunciò un accordo di grande successo con lo Shanghai Media Group, una conglomerata sostenuta dalla Repubblica popolare cinese (RPC). Alcuni osservatori accolsero con favore l’accordo sottolineando come questa intesa avrebbe potuto fornire all’ABC un maggiore accesso al pubblico cinese, cosa mai successa prima a un emittente occidentale. L’amministratore delegato della ABC, Mark Scott, salutò l’accordo con grande entusiasmo affermando che era nato un nuovo mondo della televisione e della cooperazione online tra Australia e Cina.
In realtà l’intesa si rivelò l’esatto contrario di quanto auspicato da molti. Chi in altri termini sperava che l’ingresso dell’ABC nel mercato dei media in mandarino costituisse un primo step del regime di Pechino verso un modello di informazione pluralista dovette constatare quanto ingannevole fosse il patto sottoscritto dagli australiani con la controparte cinese. L’accordo conteneva infatti una grave limitazione all’integrità giornalistica dell’emittente australiana finanziata dai contribuenti: la direzione della ABC aveva accettato di eliminare le notizie e gli argomenti di attualità sgraditi a Pechino dal rispettato servizio in lingua mandarina ABC, sia in Australia sia all’estero. Le autorità cinesi erano riuscite a imbavagliare un’importante voce indipendente dei media australiani.
Un episodio simile, in ambito accademico, ha invece visto protagonisti l’Università di Cambridge e la Russia di Putin. Nel 2014, la Cambridge University Press (CUP) si rifiutò di pubblicare il libro di Karen Dawisha Putin’s Kleptocracy: Who Owns Russia?, un saggio in cui la studiosa americana ricostruiva meticolosamente le origini post-sovietiche dell’attuale regime russo, temendo cause per diffamazione, specie nelle corti britanniche. Il libro venne poi dato alle stampe dall’editore Simon & Schuster, ma non prima che la Dawisha scrivesse una lettera aperta alla Cambridge University Press denunciando quelli che lei definiva “roghi preventivi di libri per la paura di un’azione legale”.
Un preoccupante tentativo di intimidazione, questa volta da parte cinese, si è verificato in Italia qualche settimana fa e ha visto coinvolti Giulia Pompili, giornalista del quotidiano Il Foglio, e Yang Han, funzionario dell’ambasciata cinese in Italia. Venerdì 22 marzo, al Quirinale, durante l’incontro tra il presidente cinese Xi Jinping e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la Pompili è stata avvicinata dal capo dell’ufficio stampa della sede diplomatica cinese a Roma che le ha intimato di “smettere di parlare male della Cina”. Tutto questo avveniva mentre il presidente Mattarella chiedeva al suo omologo Xi Jinping garanzie sul rispetto dei diritti umani. Il gravissimo episodio non fa che confermare l’approccio cinese al mondo dell’informazione e della cultura.
Christopher Walker nel suo paper What is “Sharp Power”? ha inoltre messo in evidenza come la mission della fitta rete mondiale degli Istituti Confucio, con cui collaborano molte università europee, statunitensi, africane ed asiatiche, vada ben al di là dell’insegnamento del Confucianesimo e della lingua cinese. “Le autorità cinesi descrivono gli Istituti di Confucio come simili all’Alliance Française francese o al Goethe-Institut tedesco, che ricevono finanziamenti governativi per fornire lezioni di lingua e cultura. Tuttavia, a differenza di quelle organizzazioni indipendenti, gli Istituti Confucio sono integrati nelle istituzioni educative. Inoltre, impiegano personale che a volte ha cercato di impedire alle università ospitanti di tenere discussioni su argomenti delicati come Taiwan o il Tibet ”.
La sfida allo sharp power di Mosca e Pechino è una sfida globale di grande momento. Una sfida a cui il mondo occidentale deve fornire una risposta forte e proattiva, pena l’agonia stessa del mondo libero.