Della reputazione
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Nell’epoca di Snapchat, e della piena realizzazione della profezia di Warren Buffet “sui 5 minuti che servono per distruggerla”, c’è ancora qualcuno convinto che la reputazione – il più importante e prezioso asset intangibile del XXI secolo – sia qualcosa che si costruisce grazie – solamente – a uscite sui giornali… o organizzando eventi dove si discute – con 15 anni di ritardo rispetto a libri “cult” come “Governare le relazioni” – dell’importanza del dialogo con gli stakeholder.
Allora forse, sorprendentemente, c’è spazio per un decalogo di buone prassi, o qualcosa che gli somigli.
Alzo Manuzio, mentre i suoi tascabili diventavano di moda in tutta Europa e Isabella d’Este lamentava che “si potevano leggere ovunque, ma non erano certo economici”, ospitava a casa propria per un anno intero Erasmo da Rotterdam, il quale ebbe a sentenziare su Andrea Torresano – socio e suocero di Manunzio – che si trattava di “uno spilorcio povero di spirito e interessato solo al guadagno”; frase giunta fino a noi, cinque secoli dopo, a dimostrazione che la cattiva reputazione è davvero dura a morire.
Orbene: per cosa e come vogliamo essere conosciuti e ricordati? Ce lo chiediamo ogni qual volta – amministratori delegati, personaggi pubblici, aziende, direttori di ONG, tutti curiosi e insieme nervosi – ci Googliamo per verificare chi dice che cosa di noi. Ma non è solo sfizio: sono soldi, se è vero – ed è vero – che una parte significativa del valore di borsa di una blue-chip deriva sul suo indice reputazionale.
Per chiarirci, quattro parole chiave: l’identità, che riguarda il proprio DNA, la propria essenza, per come il personaggio o l’organizzazione vogliono che sia manifestata visivamente al pubblico, attraverso il proprio nome, logo, pay-off, prodotti, servizi, stabilimenti, sedi; l’immagine che è il riflesso dell’identità dell’organizzazione così come è percepita – anche in modo differente – dai diversi pubblici; infine, la reputazione, ovvero il grado di allineamento tra l’identità dell’azienda e la sua immagine, costruita nel tempo dall’organizzazione insieme ai suoi pubblici. Da non dimenticare che la reputazione può migliorare sempre e solo se la relazione tra i soggetti è basata su criteri di autenticità.
Il dibattito spesso si scatena su breve termine versus medio-lungo termine: “il problema ce l’ho ora” – lato imprenditore – contro “serve un po’ più di tempo per non costruire un gigante su piedi d’argilla, cadere e farsi ancora più male”, lato consulente. Premesso che il tempo è solo una parte dell’equazione – un’altra ad esempio, bisogna essere schietti, è il denaro, che agisce da “acceleratore di processo” – ecco un decalogo – anzi, due – di regole pratiche da ricordare.
Come ho ricordato in un mio precedente short-form, Calvino venne definito da un articolo della Harvard University Press «…Uno dei migliori storyteller del mondo» – e morì alla vigilia della partenza per le sue “Lezioni americane”.
E’ evidente la possibile correlazione tra i “Six Memo” e le tecniche di gestione della reputazione, se richiamiamo la necessità di togliere fronzoli, tornare all’essenziale e a un approccio quasi impalpabile, ma al contempo netto, nel disegnare l’opera, come mirabilmente faceva lo scalpello del veneziano Canova, in grado di trasferire all’occhio di chi guarda plasticità, grazia, leggerezza e luce pura, ma senza fronzoli; lo scopo finale è senz’altro quello di tentare di far interiorizzare ad altri parte del DNA del nostro Cliente, costruendo non “discussioni”, dove qualcuno deve per forza alla fine aver ragione, bensì “dialoghi”, dove il punto di vista nostro può “impollinare” l’altro, arricchendolo e regalandogli valore, in modo naturale e senza forzature, maturando quindi un “credito” di reputazione, appunto, a nostro favore.
Inoltre, sempre per citare lo straordinario scrittore italiano nato a Cuba, per gestire bene la reputazione di altri, costruirla, o evitare che crolli inaspettatamente, è essenziale avere Quickness, ovvero intuizione, capacità di sintonizzarsi velocemente con i frequenti cambiamenti di stato dell’ambiente che ci circonda, e abilità di collegare punti dell’equazione apparentemente lontani tra loro, ricordando che la leggerezza nella forma e la rapidità nella trasmissione – tipici del secolo del virtuale e degli scenari “liquidi” – non devono mai far abdicare alla consistenza del messaggio.
Sempre Calvino scrive: «Chi è ognuno di noi, se non una combinatoria di esperienze e informazioni, che può essere rimescolata e riordinata in tutti i modi possibili…?». Questo è probabilmente il lavoro di un reputation manager: essere un buon sarto, maniacalmente accurato, appassionato nel cucire un abito haute-couture che ben si adatti alla configurazione fisica del proprio assistito, quindi ogni volta differente e personalizzato.
Allora – come tante piccole parti di una grande mappa, nella quale ogni elemento è fortemente interconnesso con tutti gli altri che lo circondano – quando immaginiamo, scriviamo e attuiamo le nostre strategie di comunicazione dovremmo riflettere più incisivamente sugli effetti concreti che le nostre azioni hanno a 360°, non solo sull’organizzazione al servizio della quale lavoriamo, ma su tutto l’ambiente che la e ci circonda, dal momento che siamo agenti attivi in una rete neurale sociale molto più ampia di quanto apparentemente potremmo sospettare.