Si parla sempre più spesso di sostenibilità applicata al settore della moda, di controllo della filiera nel settore e dei danni causati dal fenomeno del “fast-fashion”. Blumine è una società di ricerca e consulenza nata 12 anni fa a Milano con l’obiettivo di stimolare il dibattito sulla transizione dell’industria tessile e della moda verso modelli di sostenibilità e supportare le aziende impegnate in questo progetto. L’azienda si è focalizzata sulla sicurezza chimica dei prodotti e dei processi, supportando le imprese impegnate nell’ eliminazione delle sostanze tossiche sulla base di parametri più restrittivi di quelli fissati dal regolamento UE Reach. Oggi Blumine opera su progetti di economia circolare ed ecodesign con imprese italiane e straniere, coordinando il progetto di UNIDO che punta a costruire filiere per il riciclo tessile in aree in cui vi è una presenza di brand italiani, come Egitto, Tunisia e Marocco, oltre ad aver in attivo la realizzazione di libri e studi sul settore tessile e moda sostenibili e a pubblicare mensilmente una newsletter su www.sustainability-lab.net.
Abbiamo intervistato su questi argomenti di estrema attualità Aurora Magni, cofondatrice e presidente di Blumine
Su questa testata ho scritto a più riprese – come molti altri colleghi – dell’impatto del “fast-fashion”: qual è, culturalmente, il vostro pensiero al riguardo?
Il fast fashion è l’elefante nella stanza, per dirla con una metafora. È un sistema industriale e distributivo che occupa centinaia di migliaia di persone nel mondo, generando valore ed occupazione, e che si basa sull’idea che acquistare molti beni a poco prezzo renda felici. Non mi interessa naturalmente dare un giudizio etico su questo, sarebbe inoltre un’arroganza ignorare il valore sociale della democratizzazione della moda, cioè dell’accesso di tutti al godimento di beni materiali e non auspico certo un ritorno alla moda d’elite. Quello che va tenuto presente è l’impatto ambientale di questo fenomeno che si regge su consumi esasperati di materie prime e di risorse e che genera volumi enormi di rifiuti a causa dalla sovraproduzione e dalla stessa scarsa qualità dei materiali, caratteristica che condanna i beni alla rapida obsolescenza e li rende difficilmente riusabili e riciclabili. Sono inoltre note le problematiche sociali di questo modello economico basato sullo sfruttamento di manodopera a basso prezzo e che accetta che i lavoratori lavorino in condizioni di scarsa sicurezza come tragedie come il Rana Plaza ci hanno ben mostrato. La Commissione UE ha avviato una vera e propria campagna contro il fast fashion nell’ambito di proposte lanciate nel marzo del 2022 e riformulate quest’anno che ridisegnano il modello generale del sistema moda dall’ecodesign alla circolarità, proposte che un pezzo alla volta dovrebbero trasformarsi in leggi e regolamenti. E’ un approccio corretto: inserire progressive azioni volte a trasformare un modello negativo in un fenomeno accettabile. Vanno in questa direzione il divieto ad esportare rifiuti tessili in Paese poveri, coprendo con la falsa bandiera della solidarietà l’abitudine di trasformare aree del mondo lontane dai nostri occhi in discariche a cielo aperto o la Corporate Sustainability Reporting Standard Directive sulla responsabilità sociale delle imprese. Sul fronte della circolarità qualcosa si sta muovendo con l’avvio dei consorzi e con la definizione della responsabilità estesa del produttore -per quanto la sua applicazione sia ancora in discussione nel nostro paese. Inoltre crescono i modelli di business alternativi basati sulla vendita di articoli di seconda mano e sulla valorizzazione creativa di scarti fino a poco fa giacenti nei magazzini delle aziende. Saremo pronti nel 2025 a gestire correttamente i rifiuti tessili come previsto dalla Direttiva UE? Speriamo, considerato che il DL 116 impegnava già tre anni fa a raggiungere questo obiettivo nel 2022.
Periodicamente, notiamo iniziative di comunicazione e CSR (genuina o meno questo è un altro discorso) centrate sul tema dell’impatto ambientale, da parte di giganti della moda a basso prezzo. Può esistere un’anima sostenibile dentro aziende “insostenibili” dal punto di vista ambientale, o e una contraddizione?
Che esistano green e social-washing è indubbio. La moda è un’industria che costruisce una quota importante del suo valore con la comunicazione e i messaggi emozionali. Finalmente si abbina l’idea del lusso alla sostenibilità a conferma di come questi temi caratterizzino il nostro tempo e le sensibilità dei consumatori. E i brand non possono certo perdere questa opportunità, pena l’esclusione da uno dei driver culturali dominanti. Detto questo, va riconosciuto lo sforzo che i marchi stanno mettendo in campo per darsi una nuova reputazione, mettersi al riparo da attacchi di movimenti ecologisti, umanitari e animalisti ma anche per inserire la moda in una narrazione di responsabilità sociale e ambientale. Nei bilanci di sostenibilità dei grandi attori della moda possiamo leggere (suggerisco di farlo per capire dove và la moda) obiettivi alti come la riduzione dei GHG cioè dei gas responsabili dell’effetto serra e che essere raggiunti richiedono modalità di misurazione dell’impatto ambientale proprio e della supply chain -dai produttori di fibre ai nobilitatori fino ai confezionisti. Un salto di qualità considerando che fino a poco tempo fa le strategie di sostenibilità si identificavano con qualche capsule a tema green. Tutti i brand dispongono ormai di uffici per la sostenibilità, adottano metodologie di lavoro ispirate all’ecodesign, non disdegnano di ricorrere ai sistemi di certificazione, collaborano con università e start up. Del resto la moda non è un universo isolato e questi cambiamenti riguardano tutto il sistema industriale seppur con punte avanzate e aree più restie.
La moda in generale tra 20 anni: cosa vedreste nel futuro se disponeste di una sfera di cristallo, e (soprattutto) cosa c’è da fare per ottenerlo concretamente?
Difficile dirlo. Aziende e centri di ricerca ma anche start up stanno lavorando molto sui materiali: dal riciclo ai biopolimeri, dalle fibre da agricoltura rigenerativa alla plastica ottenuta da fonte biologica anziché da petrolio. E c’è già chi ottiene polimeri dai gas di scarico, cioè dal sequestro della CO2. La stampa 3D sta entrando anche nella moda quindi forse avremo tessuti fatti senza tessitura e forse a minor impatto ambientale. Nuovi materiali oppure al contrario tradizionali e riscoperti in una logica di valorizzazione dei territori, robotica nei processi produttivi e riscoperta di artigianalità. Insomma, questo settore continuerà a divertirci con le sue molteplici anime. Una raccomandazione: va bene parlare di moda ma volumi di materiali e di prodotti ancora più significativi riguardano quelli gli addetti ai lavori chiamano tessili tecnici, cioè la componente fibrosa dell’automotive, delle tecnologie e dei processi industriali, i tessili usati nel comparto medicale e nell’assorbenza, ma anche nell’edilizia, in agricoltura e naturalmente nel packaging e nell’arredo. Ci si interroga poco sul carico ambientale di questo lato dell’industria tessile eppure, per fare un esempio, è più difficile riciclare un composito che un paio di jeans. Cosa fare quindi? Innanzitutto, non smettere di studiare e fare ricerca, sia a cura delle aziende che delle università e delle istituzioni pubbliche. Queste sono le vere sfide per il futuro.