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La copertina del numero del 10 febbraio, piovuto in casa come allegato al Corrierone nazionale – rara copia cartacea comprata per fare rassegna stampa di un’uscita a tutta pagina di un mio assistito – parrebbe invitante: la Margherita Buy che confessa, da stressata, che girare il primo film da regista l’ha resa felice (speriamo duri, l’ho avuta a casa mia per una cena nell’ambito di una manifestazione cinematografica a Torino, e – a proposito di stress, proprio e indotto anche agli altri – non è stato un bellissimo spettacolo); poi sempre più donne nel mondo STEM, bella notizia; un focus sul turismo sulle Dolomiti bellunesi; e, infine, la promessa di “Riscoprire l’incanto: poeti, filosofi ed artisti che insegnano a ritrovare la magia del mondo”. Ambizioso, quest’ultimo servizio, ma intrigante: che il giornalismo italiano seppure a tentoni sia ritrovando la strada della qualità?

Allora sfoglio, da maschio incuriosito, il settimanale femminile diretto da Danda Santini, fino all’articolo sulla “magia del mondo”: sottotitolo, “Leggere poesie, abbracciare gli alberi, ammirare un quadro. In un momento in cui pare vincere il cinismo, un libro di filosofia ci invita a cambiare il modo di vedere il mondo, lasciando spazio alla magia”. Wow! vien da dire.

L’articolo di fatto recensisce “un libro di Marco Mattei, che è un piccolo prodigio di filosofia applicato alla vita di tutti i giorni”. Già dal debutto mi vien da dire che se anche non l’hai studiata, filosofia, non importa: basta disporre di qualche frase fatta da citare alle cene cool nell’appartamento chic dell’amica in San Babila e il prezzo del giornale e più che giustificato.

In ordine sparso, ma citando verbatim: prima di tutto Wax Weber, che ha coniato il termine “disincantesimo”; poi, perché no, Heidegger, che fa sempre fine (“un altro filosofo tedesco”, dice la giornalista, sic!); dopo, andiamo indietro più o meno di 2.400 anni, e vai con Platone, che l’aveva previsto che “l’invenzione della scrittura, soppiantando l’oralità” (qualunque cosa questa parola voglia dire) “ci avrebbe reso più stupidi”. Capito? La Jacaranda, la figlia vegana della Titti – tanto bella che è, peccato per quei maglioni così oversize di cashmere – non è scema, è solo che usa troppo il cellulare: l’aveva detto anche Platone che andava a finire così!

Poi citazioni a pioggia dal libro recensito: “Per sfuggire all’esperienza psichedelica collettiva a cui ci stanno sottoponendo i giganti dello streaming, bisogna spegnere tutto”. Meno male che ce lo dice l’autore, che sennò 30 anni di lavori di filosofi, psicologi e semiotici, nel cestino finivano. Ma, soprattutto, subito dopo: “È solo così che è possibile riascoltare il canto delle sirene e ritrovare il mistero, il senso del fantastico e la spiritualità”. Ma certo, la spiritualità, che vogliamo dimenticarcela? Eccotela.

Poi, per cenni, che sennò vi annoiate: il cinismo dell’eterno presente; gli algoritmi che governano tutto e ci tengono incatenati agli smartphone; poi, una citazione di Emanuele Coccia, che non è coautore di quel libro, ma ci sta perché è un filosofo-star (vi prego, no!) e ha scritto un altro libro a quattro mani con Alessandro Michele, ex direttore creativo di Gucci (ma è un film o cosa?); quindi breve recensione di un libro di Coccia (ma l’articolo non era una recensione del libro di Mattei?), che è un “libro di filosofia applicato al vestirsi”; dopo, una breve divagazione sul fatto che Michele ha fatto triplicare le vendite di Gucci (quindi? Che c’entra con la filosofia?); “pensieri in purezza, insomma”, declama la giornalista. Sarà, diamo per buoni i pensieri in purezza.

Poi leggiamo ancora: “letture in grado di cambiare la relazione che intrecciamo con il mondo, ridefinendo idee come identità, design, ambiguità, per ragionare anche sulla mutevolezza e la stabilità (nota: ti pare che non mutino restando però anche stabili…) della nostra identità e sulla fragilità (siamo tutti così fragili, ndr) degli stereotipi di genere”, che comunque ci stanno sempre, fanno tanto “sensibilità sociale”; segue una raccomandazione a “guardare alla propria quotidianità riscoprendone l’incanto”, rallentare per riscoprire la bellezza, camminare, “provare a sentire la terra sotto i piedi, lasciarsi avvolgere e toccare la luce di un bosco, di un mare, del vento”, che queste cose alla Jacaranda piacciono un sacco. Piccoli rituali – ci ricorda la giornalista – che “piacciono alla generazione Z” (citarla fa sempre molto moderno!) la quale (avviso ai miei studenti: non ridete) “accende incensi durante una passeggiata e beve tazze di the al tramonto”.

L’importante – neanche a dirlo, conclude così l’ultima mezza cartella dell’articolo – “è metterci un po’ di poesia”. Vero, che senza poesia dove vai. Quindi perché negarci un accenno di recensione di un ennesimo libro, in questo caso di Franco Arminio, il poeta “più seguito in rete” (ri-wow) che si professa “reincantatore” (hai capito tutto, poeta, chissà quanti soldi farai nei salotti buoni di Milano, con la Titti e le sue amiche): scrive poesie semplici, “facili”, ma vende un sacco, e soprattutto – redarguisce la giornalista – non fatelo passare per buonista!

Raccomandazione conclusiva del giornale: “Il segreto sta nel trovare punti di ingresso per rompere i filtri che organizzano la nostra esperienza e accedere a un mondo di significati tutti nuovi, come quelli che Weber (come non citarlo, ndr) e i suoi giovani colleghi (giovani colleghi? Lavorano assieme in ufficio?) hanno riscoperto: abbracciare l’ignoto e i suoi misteri vivendo momenti di stupore, riconoscendo che non tutto ha bisogno di essere spiegato, perché questo è l’invito al reincanto: è pura magia, senza la tecnica però”. Che se poi ci metti la tecnica, con la filosofia viene fuori un aborto, neh!

E io che mi eccitavo per Seneca, Sant’Agostino, Sartre, e mi emozionavo magari per Noam Chomsky, Emanuele Severino o Alberto Pirni: che imbecille.

Dimenticavo: qualche pagina dopo le dotte recensioni sopra richiamate, parte la pubblicità. Decide e decine di pagine con innumerevoli oggetti di ogni tipo (ne ho contati più di duecento, tra vestiti, cosmetici, accessori, elettronica, etc.), tutti – ovviamente – scrupolosamente prezzati, in una clamorosa cacofonia consumistica, ben sostenuta dall’esca dell’articolo “colto” (non me ne vogliano i filosofi quelli veri). Ecco, e vado a concludere, l’essenza di Milano: qualche frase utile per far bella figura in occasione degli incontri mondani, e poi tanto, tantissimo, marketing. 

Un giornale per milanesi che si prendono sul serio, frequentatori abituali di musei quando ci sono i “DJ Set con ape” (per i non milanesi: trattasi di eventi musicali molto cool, spesso dentro musei o altri luoghi sempre molto cool, accompagnati da catering di dubbia qualità, ma molto cool anch’essi; spesso rappresentano l’unico strattagemma per poter trascinare un milanese in un museo…). Una città che ha nel proprio Sindaco la risposta alle buche nelle strade con le piste di atterraggio per gli elicotteri (memorabile l’imperdibile imitazione che Crozza fa di Sala, cercatela online).

Certo, ce la meneranno ancora con il tema dell’invidia: noi provinciali che non capiamo quanto sia internazionale Milano (a par loro, l’unica vera metropoli d’Italia: in realtà una New York che non ce l’ha fatta). Milano è l’unica che. Che cosa? Ma tutto, ovvio, cosa chiedi! Ma la verità è un’altra: sappiamo bene, e ne abbiamo scritto molto su questa rivista online, quanto sia prezioso, imprescindibile, per costruire valore, l’elemento dell’autenticità, e quanto per contro distrugga potenzialmente valore, come dimostra la debacle dell’impero Ferragni, tanto osannata negli anni da questo genere di milanesi, l’inautenticità, il maquillage, l’effimero, la superficialità. Ma – evidentemente – ancora non l’hanno capito.

Non me ne vogliano gli amici milanesi quelli veri (ne restano pochi, purtroppo), sicuramente avranno compreso lo sfogo, che non è contro la loro bella e intrigante città, ma contro quel “tipo umano” (invero, purtroppo, frequente) di milanese intrinsecamente fatuo ma molto convinto di sé, totalmente impermeabile alla critica, e nella migliore delle ipotesi molto “fraintendimento” (sono sempre gli altri che non ci arrivano, che non comprendono!).

Ecco, questo giornale, il genere di articolo che vi ho illustrato, è davvero confezionato con cura per loro.

E niente, alla fine, il lettore perfetto è lui/lei: io. Io, io, io.

Il milanese incompreso. L’unico, credetemi, che ha capito davvero tutto.

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