La famiglia trevigiana aveva già avuto guai d’immagine. Il crollo della fabbrica tessile in Bangladesh nel 2013 e i baby lavoratori turchi nel 1998. I precedenti
IL CROLLO DI RANA PLAZA IN BANGLADESH E LA MEZZA AMMISSIONE
Nell’aprile del 2013 una palazzina di otto piani si ripiegò su se stessa a Dacca, in Bangladesh, causando la morte di quasi 400 operai. L’edificio, noto come Rana Plaza, ospitava circa 3 mila persone e quasi tutte lavoravano in cinque aziende di abbigliamento per l’esportazione. Quelle aziende, che operavano senza rispettare le più semplici regole di sicurezza, lavoravano soprattutto per multinazionali straniere: tra queste Benetton. Il gruppo smentì, ma poi, dopo la pubblicazione di alcune foto delle magliette tra le macerie del palazzo, fu costretto a correre ai ripari. In un tweet Benetton ribadì che nessuna delle aziende coinvolte era un loro fornitore, ma aggiunse anche che «un ordine era stato completato e spedito da uno dei produttori coinvolti, ma prima dell’incidente. Da allora il fornitore è stato rimosso».
Regarding the tragic accident in Dhaka, Bangladesh, we wish to confirm that none of the companies involved (cont) http://t.co/AlL08R9WuE
— Benetton (@benetton) 29 aprile 2013
I BABY-OPERAI TURCHI E LA CAUSA AL CORRIERE NEL 1998
C’è però un altro caso che ha scosso la comunicazione del gruppo, anche se allora non esistevano i social network e in teoria era più semplice contenere una crisi. Nel 1998 sulle pagine del Corriere della sera venne pubblicata un’inchiesta su alcune fabbriche terziste turche che impiegavano manodopera infantile, aziende che sarebbero state tra i fornitori di Benetton. La rivelazione scatenò violente polemiche e un’eco nazionale e internazionale che causò un danno d’immagine notevole. Subito l’azienda rigettò le accuse e fece causa al quotidiano di via Solferino. Cinque anni dopo il tribunale di Milano condannò il giornalista Riccardo Orizio e il direttore del Corriere della sera Ferruccio De Bortoli per diffamazione aggravata e omesso controllo, colpevoli secondo i giudici di aver affiancato la produzione turca al marchio “made in Italy”.