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L’account è attivo dal 2014, ma ha gettato la maschera solo durante la campagna elettorale


Un profilo Twitter da quasi 70 mila follower, una pagina personale su Medium, un account su GoFundMe, popolare piattaforma di crowdfunding, un indirizzo di posta elettronica gmail, un blog e tante interazioni con i media mainstream – tra cui veri e propri big dell’editoria come Washington Post, CNN, BBC e New York Times – che ne rilanciavano le opinioni. Quello di Jenna Abrams, insomma, è il perfetto esempio di come andrebbe gestita la propria personalità online. C’è solo un problema: Jenna Abrams non esiste.
Per la commissione d’inchiesta congressuale, che ha da poco ottenuto la collaborazione delle più popolari piattaforme di social network, Jenna Abrams è una creatura dell’Internet Research Agency, la “fabbrica dei troll” sponsorizzata dal governo russo. Non è la prima volta che l’intervento diretto dell’agenzia viene dimostrato, tanto a livello giornalistico quanto a livello investigativo; il 17 ottobre, ad esempio, l’emittente indipendente russa TV Rain raccontava la storia dell’uomo che si nasconde dietro lo pseudonimo Maksim, assoldato dall’IRA per postare commenti negativi riguardo Hillary Clinton, su Facebook e nelle sezioni dedicate dei principali organi d’informazione americani. Secondo quanto riporta il sito economico russofono RBC, in oltre due anni di attività l’agenzia avrebbe speso 2,3 milioni di dollari in operazioni di propaganda finalizzate alla destabilizzazione della politica americana, con un picco in corrispondenza della campagna elettorale 2016, in cui avrebbe impiegato 90 dipendenti russi e un centinaio di attivisti americani, investendo 120 mila dollari in pubblicità su Facebook .
Il filone investigativo ribattezzato “Russiagate” è coordinato dal procuratore speciale Robert Mueller, ex capo del FBI chiamato a dirigere le delicatissime indagini dopo la valanga di critiche piovute sulla Casa Bianca, accusata di voler insabbiare un caso in cui potrebbe risultare personalmente coinvolto il presidente. Le indagini sono partite in seguito agli attacchi informatici di cui sono stati vittima i server del Partito Democratico e in particolare quelli ai danni di John Podesta, capo dello staff della campagna elettorale di Hillary Clinton, da cui è partita una fuga di notizie poi pubblicata da Wikileaks. Gli attacchi informatici, congiuntamente alla sistematica produzione di fake news durante la fase calda della campagna elettorale, rappresentano il nucleo originario dell’inchiesta che attualmente si concentra su differenti ambiti della presunta opera di propaganda che il governo russo avrebbe messo in moto per favorire Donald Trump a discapito della sua rivale democratica.
La novità che emerge dalla storia di Jenna Abrams è però la sua longevità e la credibilità che il suo avatar era riuscito a riscuotere nel corso degli anni. Le prime tracce di un account a suo nome risalgono al 2014, ben due anni prima della nomination repubblicana di Donald Trump. In questa fase la Abrams si presenta come la più classica delle twittatrici da trending topic, sempre attenta alle notizie di attualità spicciola, che utilizza spesso un linguaggio politicamente scorretto. I suoi commenti spaziano dal vestiario di Kim Kardashian al manspreading sulla metropolitana, dal corretto utilizzo della punteggiatura alla decisione di alcune donne di non radersi le ascelle. Molti dei suoi tweet diventano virali e vengono riportati dai siti di news, spesso a corredo di articoli di attualità.
Ma tutto cambia nel 2016, quando le persone dietro l’account di Jenna Abrams decidono di cambiare rotta e di pubblicare su Medium un articolo dal titolo “Perché abbiamo bisogno di tornare alla segregazione”:

L’umanità ha chiuso il suo cerchio. Non importa quanti attivisti di qualsiasi colore sono morti per sbarazzarsi della segregazione, e hanno combattuto per l’inclusione, i neri la rivogliono. Persone libere al 100% hanno fatto la loro scelta, e la loro scelta è la segregazione

Da quel momento in poi la ragazza politicamente scorretta col pallino dell’attualità diventa una fiera sostenitrice di Trump, che ingaggia dibattiti online con personalità del calibro dell’ex ambasciatore americano in Russia Michael McFaul, lo storico Kevin Kruse e l’attrice Roseanne Barr. I suoi argomenti preferiti diventano il revisionismo della schiavitù, il sarcasmo nei confronti del movimento Black Lives Matter e la difesa della bandiera confederata:

A tutti coloro che odiano la bandiera confederata. Sappiate che la bandiera e l’intera guerra non c’entravano con la schiavitù, c’entravano con il denaro

Arriva anche a pubblicare un riassunto della testimonianza pubblica dell’ex direttore del FBI James Comey accompagnato dal commento “Comey ha ammesso che Hillary è una bugiarda”. I suoi tweet e i post del suo blog diventano un crescendo di attacchi alla candidata democratica e secondo quanto riporta il Daily Beast, Michael Flynn Jr. avrebbe ritwittato Jenna Abrams almeno una volta.

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