Il libro di Sandre, Press and Public Affairs Officer dell’ambasciata italiana a Washington diventa manuale indispensabile per la diplomazia ai tempi degli smartphone
Se ancora ci fosse qualche dubbio, l’abilità con cui i terroristi dell’Isis stanno usando la rete e i social media per fare conquiste dovrebbe convincerci che la comunicazione digitale è un terreno dove la diplomazia non può più essere assente. Quello del terrorismo è il caso estremo, ma chiunque voglia avere una voce nel mondo su qualsiasi tema non può rinunciare a questo strumento. Perciò converrebbe a tutti gli addetti ai lavori di leggere “Digital Diplomacy”, il nuovo libro di Andreas Sandre che offre un manuale per la diplomazia ai tempi della comunicazione che ormai ci insegue ovunque sui nostri smartphone.
Introducendo l’incontro Giovanni Davoli, portavoce della Missione italiana, ha detto che “un tempo la regola aurea per i diplomatici era non parlare mai con i giornalisti. Oggi la diplomazia raggiunge il pubblico dove il pubblico si trova: sugli smartphone e sui tablet”. Dunque non solo è necessario parlare con i giornalisti, ma anche rivolgersi direttamente alla gente, altrimenti si lascia la comunicazione nelle mani degli avversari, che non hanno alcuna remora ad usare questo vantaggio. Qui dunque serve la “Digital Diplomacy” di Sandre, che ascoltando protagonisti del settore come l’ex guru digitale del dipartimento di Stato Alec Ross, Teddy Goff e tanti altri, spiega come usare questi nuovi strumenti.
Già nella prefazione, l’ambasciatore italiano a Washington, Claudio Bisogniero, avverte: “La tecnologia è ovunque: i cellulari presto supereranno la popolazione globale. Esistono miliardi di oggetti collegati a Internet. La comunità di politica estera si sta adeguando, ma lentamente e senza sistematicità”. Quindi è indispensabile fare di più, anche perché secondo la Seward i quattro milioni di esseri umani che seguono l’Onu su Twitter “non solo ricevono informazioni, ma parlano con noi”. La comunicazione sui social media è uno scambio, dove gli utenti non sono più passivi. Anche per questo, secondo Dujarric, finora il segretario generale Ban Ki moon non ha aperto un account: “Non sarebbe autentico. Lui viaggia in continuazione, è troppo impegnato per gestirlo di persona. E siccome noi riteniamo che l’autenticità sia fondamentale in questo settore, preferiamo esserci con altre persone che hanno la possibilità di comunicare direttamente”.
I social media sono diventati una opportunità per raggiungere milioni di persone, e per essere più trasparenti, comprensibili. Qualche tempo fa all’ambasciata americana all’Onu ci fu una discussione, sull’opportunità di passare notizie e comunicati alle agenzie di notizie tradizionali, oppure metterli direttamente in circolazione attraverso Twitter e simili. Inutile dire che la seconda ipotesi fu quella che prevalse. Ormai però l’obiettivo non è più solo quello di passare qualche documento o qualche dichiarazione, ma di influenzare il dibattito. L’abilità con cui l’Isis riesce a trasmettere i propri messaggi e reclutare per via digitale impone agli altri di rispondere, perché la battaglia contro il terrorismo si vince anche presentando una visione diversa che screditi quella degli estremisti e convinca il pubblico.
Sandre sottolinea che “c’è una differenza fondamentale. Loro hanno completa libertà di azione, mentre noi dobbiamo operare in una cornice di legalità che limita quali dati possiamo raccogliere e come li utilizziamo”. Proprio per questo, però, è necessario fare un lavoro ancora più sofisticato, “andando a cercare le voci positive che esistono là fuori, e aiutandole a diffondersi”. La diplomazia digitale dunque non è più solo parlare sulla rete, distribuire documenti o presentare i propri punti di vista, ma frequentare i social media, partecipare ai dibattiti e influenzarli. In fondo è quello che la diplomazia ha sempre fatto, con altri mezzi, e ora deve adeguarsi alla nuova realtà.