Il distretto scolastico della città americana ha presentato denuncia contro Meta, Google, Snap e ByteDance perché «hanno sfruttato per profitto i cervelli vulnerabili dei giovani»
Il caso al momento pare essere unico nel suo genere, pur essendo accompagnato dalle centinaia di cause intentate dalle singole famiglie. Ma quanto portato avanti dal distretto scolastico di Seattle, metropoli del nord-ovest americano sede di Amazon e Microsoft, potrebbe essere l’inizio di un nuovo movimento. In sostanza tutte le scuole pubbliche della città hanno intentato causa contro i giganti dei social media: Meta (Facebook, Instagram, WhatsApp), Google (YouTube), TikTok (l’azienda cinese dietro la piattaforma si chiama ByteDance), Snap, la società che controlla SnapChat. Perché? Nella denuncia si va direttamente al sodo: «Gli imputati hanno sfruttato con successo i cervelli vulnerabili dei giovani, agganciando decine di milioni di studenti in tutto il Paese attraverso un circuito vizioso di risposte positive sui social media che porta all’uso eccessivo e all’abuso delle piattaforme. Peggio ancora», prosegue il documento legale, «il contenuto che gli imputati propongono e indirizzano ai giovani è troppo spesso dannoso e teso allo sfruttamento per interessi economici». In sostanza, riassumendo quanto segue nelle 91 pagine che compongono la denuncia, le aziende sopra citate sono portate davanti al giudice per aver «avvelenato i giovani» con una vera e propria dipendenza da social media, con il risultato che le scuole non possono adempiere correttamente alla propria missione educativa perché un numero sempre maggiore di studenti soffre d’ansia, depressione e altri problemi psicologici legati o acuiti dall’utilizzo delle piattaforme per la socialità digitale.
Come detto, l’iniziativa del distretto di Seattle – un centinaio di scuole per un totale di circa 50 mila ragazzi e ragazze – appare unica nel suo genere. Ma fa seguito a un biennio, 2021 e 2022, che ha visto centinaia di cause intentate dalle famiglie americane contro le firme dei social media, secondo Bloomberg almeno una dozzina delle quali legate a casi di suicidio tra i più giovani. Da un lato dunque c’è senz’altro l’uscita dal periodo del lockdown – momento di isolamento, vissuto da molti tutto in digitale, che si è rivelato spesso devastante per la generazione più giovane -, e dall’altro c’è stata la serie di inchieste portate avanti dal Wall Street Journal, i cosiddetti «Facebook Files» nati a seguito delle rivelazioni fatte dall’ex dipendente di Mark Zuckerberg, Frances Haugen.
Tra le accuse di Haugen c’era l’affermazione secondo cui la società (Meta, dunque) stava consapevolmente depredando i giovani vulnerabili per aumentare i profitti. Nello specifico, gli articoli del WSJ avevano puntato il dito contro l’algoritmo di Facebook – che sarebbe intenzionalmente premiante dei contenuti divisivi – e su una ricerca interna all’azienda, tenuta poi segreta, che mostrava come l’utilizzo di Instagram può portare a pericolosi effetti negativi. Una slide della ricerca – non a caso risalente al marzo 2020, momento di inizio delle misure di isolamento per limitare la pandemia – raccontava di come un terzo delle ragazze adolescenti non a proprio agio con il proprio fisico ritenessero che Instagram le facesse sentire ancora peggio. Il Congresso ha tenuto diverse udienze, a seguito delle quali per esempio Instagram ha introdotto i controlli parentali sull’app. E sono state avviate indagini. Ma la linea di difesa delle aziende – basata sul Communications Decency Act – si è sempre trincerata dietro l’immunità dai reclami su contenuti pubblicati dagli utenti. E su cui le piattaforme avrebbero una responsabilità relativa. Una legge del 1996 che ha visto diversi repubblicani e democratici d’accordo per l’urgenza di una riforma. Il presidente Biden, in occasione del discorso sullo Stato dell’Unione, aveva implorato il Congresso di «ritenere le piattaforme di social media responsabili dell’esperimento nazionale che stanno conducendo sui nostri figli a scopo di lucro».