Uno studio accademico riscrive anni di convinzioni sui cookies
L’efficacia della pubblicità online che insegue l’utente da un sito web all’altro potrebbe essere “fortemente esagerata”. Uno nuovo studio accademico riscrive anni di convinzioni sui vantaggi della tecnica che permette di proporre all’attenzione del consumatore un banner personalizzato dopo una visita web, grazie ai cookies, i file che permettono ai siti web di identificare un utente e ricordare le sue preferenze.
La ricerca pubblicata da tre accademici dell’università della Minnesota, della California Irvine e della Carnegie Mellon (tra di loro ci sono due italiani: Veronica Marotta e Alessandro Acquisti), ha studiato milioni di banner, inserzioni pubblicitarie e i relativi incassi di una grande azienda media (che non viene specificata) per comprendere il comportamento degli utenti. L’analisi dei dati ha permesso di stimare che quando i cookies sono utilizzati, l’aumento dei ricavi per l’editore è solo del 4%, ovvero di 0,00008 dollari per banner.
Ogni numero va considerato nel contesto: quel 4% è tanto o poco? Se lo confrontiamo con il fatto che molto spesso la pubblicità per gli utenti profilati viene venduta con un sovrapprezzo molto significativo rispetto alla pubblicità per gli utenti anonimi, quel 4% sembra un numero incredibilmente basso. Nel paper i ricercatori ricordano per esempio che la pubblicità anonima può costare il 2% dello stesso spazio con i cookies.
Non è difficile immaginare che dunque la gran parte dei ricavi aggiuntivi che gli inserzionisti sono disposti a pagare vada ai grandi intermediari come Google, Facebook e Amazon (in crescita nel settore) ma anche a decine di player meno noti. Lo studio non pretende di giungere a conclusioni definitive, ma contribuisce ad accendere il dibattito sulla trasparenza del mercato pubblicitario digitale e sul ruolo delle piattaforme, al centro anche di indagini sulla concorrenza in Europa e negli Stati Uniti.
Una conseguenza indiretta di questa nuova scoperta riguarda la corsa all’oligopolio del mercato: gli utenti premiano le inserzioni personalizzate quando fanno una ricerca su Google e quelle personalizzate che si intervallano ai contenuti degli amici su Facebook e Instagram, ovvero in luoghi della rete che si possono percepire come privati. I numeri suggerirebbero che siamo meno disposti a veder comparire consigli personalizzati su un sito web pubblico.
Gli attivisti della privacy chiedono da tempo di ridurre le capacità di tracciamento automatico degli utenti, e da anni gli utenti devono accettare consapevolmente le policy sui cookies quando iniziano la visita di un sito web. Finora le piattaforme pubblicitarie avevano risposto spiegando i vantaggi, in termini di ricavi, di poter offrire pubblicità personalizzata all’utente. La ricerca sembra smentire la tesi.
È singolare che proprio poche settimane fa, prima della pubblicazione del paper, alla propria conferenza degli sviluppatori, Google avesse annunciato una svolta sui cookies. Per rispondere alla crescente consapevolezza sull’uso dei dati personali, il gruppo ha infatti deciso che il browser Chrome (che ha il 70% di mercato globale) permetterà di cancellare i cookies pubblicitari senza scatenare un noioso logout da siti di servizi. Gli utenti potranno dunque scegliere se consentire il tracciamento: Google conta su molti altri segnali per garantire servizi, pubblicità personalizzata, e dunque ricavi. Forse è più vicino il giorno in cui i banner diventeranno più intelligenti e non ci seguiranno più inutilmente.