Daniele Chieffi è Head of digital Communication Agi Factory: “Le aziende hanno sempre più bisogno di professionisti in grado di capire quali sono le informazioni rilevanti e tradurre il linguaggio in modo semplice a una nicchia sempre più preparata ed esigente”
È la professione del futuro nel mondo della comunicazione, ma pochi saprebbero dare una precisa definizione. Un settore redditizio, in espansione dove c’è tanta richiesta di talenti in grado di spiegare in modo semplice, le materie più ostiche. Il brand journalism è una parolaccia inglese che nel mondo del giornalismo italiano non si può pronunciare ad alta voce perché è considerato un mestiere di serie B. Ma sono sempre più le aziende che cercano persone in grado di comunicare con gli strumenti del giornalismo tutto ciò che ruota intorno a un marchio. Ovvero scegliere le informazioni rilevanti e trasformarle in storie di valore per un pubblico sempre più di nicchia ed esigente. Alfiere di questo nuova professione è Daniele Chieffi, Head of digital Communication di Agi Factory, il primo Brand journalism lab italiano. Lo intervistiamo mentre è a Rimini, ospite del Web Marketing Festival. «Da anni lotto per contrastare un’idea pigra che sintetizza il giornalismo legato al brand con un’unica parola: marchetta. Ma non è così, anzi è il contrario»
Chieffi, spieghiamo questa “parolaccia”. Cos’è il brand journalism?
Il brand journalism vuol dire comunicare la storia, l’attività i progetti delle aziende usando le tecniche giornalistiche. Parte dalla caratteristica distintiva e specifica del lavoro giornalistico: capire quando un fatto diventa notizia in base al pubblico che ha di fronte e fa sì che questa rilevanza sa messa al servizio della comunicazione di un marchio.
Facciamo un esempio concreto.
Per esempio con Agi Factory stiamo raccontando il lavoro tutta la filiera produttiva del gas in Italia. Al netto delle grandi aziende come Eni, Edison, Italgas che si occupano di produrre, estrarre, e distribuire il gas in Italia ci sono un paio di migliaia di aziende coinvolte nel processo. Queste aziende hanno un obiettivo: far conoscere al grande pubblico che il gas è una risorsa pur sempre fossile, ma la miglior alternativa per produrre energia e sostenere l’ambiente, tra quelle a disposizione. Per far passare questo concetto ci sono due strade: si può costruire una campagna promozionale, ovvero pubblicità a tutti gli effetti.
Oppure?
Oppure fare brand journalism. Tradotto: comprendere quali sono le esigenze di informazione, le curiosità, il bisogno di chiarimento, di approfondimento. E perché no sfatare i falsi luoghi comuni e chiarire ciò che viene raccontato in maniera imprecisa riguardo all’utilizzo di questa risorsa. Bisogna costruire un lavoro redazionale: un magazine online, una galassia social che veicola i contenuti, usare il fact checking e sfruttare il data visualization. Questi strumenti giornalistici non servono per vendere un prodotto ma per rispondere a tutte le domande che si pone il pubblico di riferimento. Sta tutto qui il brand journalism: cercare di intercettare ciò che è rilevante per un pubblico dandogli informazioni di qualità.
Perché le aziende lo vogliono?
Da tempo le aziende sanno che devono assumersi la responsabilità del loro ruolo all’interno di una comunità. Nel mondo analogico lo facevano poche aziende, soprattutto anglosassoni. Con il mondo digitale da visione innovativa di pochi è diventata la necessità di molti. Perché ora le aziende sono percepite come soggetti che agiscono all’interno di una comunità di riferimento che li accetta, li segue e li valuta. Per questo oggi le aziende comunicano direttamente con i propri stakeholder. Lo fanno in maniera disintermediata tramite il sito, i social network. Parlano direttamente al loro pubblico senza passare attraverso la mediazione di giornalisti e mass media.
Cosa è cambiato?
Cambia il ruolo che le aziende hanno nell’ecosistema digitale. Prima si relazionavano con persone che raccontavano la realtà. Oggi le aziende sono costrette a costruire una conversazione diretta con il pubblico. Il contenuto deve avere un valore per il mio interlocutore. Deve essere arricchente, interessante, emozionante, informativo. Deve servirgli a qualcosa. Altrimenti non sarebbe una conversazione ma un’autocelebrazione.
Chieffi, spieghiamo questa “parolaccia”. Cos’è il brand journalism?
Il brand journalism vuol dire comunicare la storia, l’attività i progetti delle aziende usando le tecniche giornalistiche. Parte dalla caratteristica distintiva e specifica del lavoro giornalistico: capire quando un fatto diventa notizia in base al pubblico che ha di fronte e fa sì che questa rilevanza sa messa al servizio della comunicazione di un marchio.
Facciamo un esempio concreto.
Per esempio con Agi Factory stiamo raccontando il lavoro tutta la filiera produttiva del gas in Italia. Al netto delle grandi aziende come Eni, Edison, Italgas che si occupano di produrre, estrarre, e distribuire il gas in Italia ci sono un paio di migliaia di aziende coinvolte nel processo. Queste aziende hanno un obiettivo: far conoscere al grande pubblico che il gas è una risorsa pur sempre fossile, ma la miglior alternativa per produrre energia e sostenere l’ambiente, tra quelle a disposizione. Per far passare questo concetto ci sono due strade: si può costruire una campagna promozionale, ovvero pubblicità a tutti gli effetti.
Oppure?
Oppure fare brand journalism. Tradotto: comprendere quali sono le esigenze di informazione, le curiosità, il bisogno di chiarimento, di approfondimento. E perché no sfatare i falsi luoghi comuni e chiarire ciò che viene raccontato in maniera imprecisa riguardo all’utilizzo di questa risorsa. Bisogna costruire un lavoro redazionale: un magazine online, una galassia social che veicola i contenuti, usare il fact checking e sfruttare il data visualization. Questi strumenti giornalistici non servono per vendere un prodotto ma per rispondere a tutte le domande che si pone il pubblico di riferimento. Sta tutto qui il brand journalism: cercare di intercettare ciò che è rilevante per un pubblico dandogli informazioni di qualità.
Perché le aziende lo vogliono?
Da tempo le aziende sanno che devono assumersi la responsabilità del loro ruolo all’interno di una comunità. Nel mondo analogico lo facevano poche aziende, soprattutto anglosassoni. Con il mondo digitale da visione innovativa di pochi è diventata la necessità di molti. Perché ora le aziende sono percepite come soggetti che agiscono all’interno di una comunità di riferimento che li accetta, li segue e li valuta. Per questo oggi le aziende comunicano direttamente con i propri stakeholder. Lo fanno in maniera disintermediata tramite il sito, i social network. Parlano direttamente al loro pubblico senza passare attraverso la mediazione di giornalisti e mass media.
Cosa è cambiato?
Cambia il ruolo che le aziende hanno nell’ecosistema digitale. Prima si relazionavano con persone che raccontavano la realtà. Oggi le aziende sono costrette a costruire una conversazione diretta con il pubblico. Il contenuto deve avere un valore per il mio interlocutore. Deve essere arricchente, interessante, emozionante, informativo. Deve servirgli a qualcosa. Altrimenti non sarebbe una conversazione ma un’autocelebrazione.
Bisogna separare le due cosa dal punto di vista etico e deontologico. Il giornalista fa il giornalista. Mentre il brand journalist dichiara in maniera esplicita, chiara e trasparente che sta facendo comunicazione per un’azienda utilizzando le tecniche giornalistiche
Molti però considerano il brand journalism come un termine raffinato per dire marketing. Si sbagliano?
Sì, e di molto. La marchetta è quanto di più irrispettoso, lontano e dannoso ci possa essere per un giornalista perché vuol dire svendere il suo lavoro. E va contro anche agli interessi dell’azienda. Perché quando un’azienda assume un giornalista all’interno della comunità viene il mal percepito. Lo si considera un atto in qualche modo di corruzione. Ma è una cosa profondamente diversa dal giornalismo classico. Opinione pubblica e aziende cercano cose diverse.
Qual è la differenza più evidente?
La nostra democrazia e la coscienza civile hanno un bisogno spasmodico di un giornalismo che informari in maniera indipendente su temi di interesse pubblico e faccia crescere una coscienza critica a un pubblico più generale possibile. E questo deve essere preservato, protetto e valorizzato. Le aziende invece hanno un pubblico più di nicchia, molto esperto e appassionato e hanno bisogno di comunicatori in grado di intercettare la rilevanza e il bisogno informativo di questo pubblico di riferimento. Sono due cose profondamente diverse tra loro.
E come si fa a mostrare la differenza?
Bisogna separare le due cosa dal punto di vista etico e deontologico. Il giornalista fa il giornalista. Mentre il brand journalist dichiara in maniera esplicita, chiara e trasparente che sta facendo comunicazione per un’azienda utilizzando le tecniche giornalistiche. Se si vincesse questo pregiudizio, e io mi sto battendo perché accada, potremmo ottenere tre risultati importantissimi.
Quali?
Primo: se il brand journalist diventa una professione con una sua etica e deontologia non solo protegge se stessa, ma protegge il giornalismo in quanto tale. Separa nettamente le due attività, chiarendo i fronti. Il secondo vantaggio è che il giornalismo in quanto tale recupera e pulisce se stesso da incrostazioni o infiltrazioni non esattamente deontologicamente corrette che pur ci sono sempre state e che fanno presa su un modello di business tradizionale in palese difficoltà.
E la terza?
Si protegge il lettore. Il pubblico godrà di due potenti fonti di informazione riconoscibili e di valore. Da una parte il giornalismo in quanto tale. Dall’altra il brand giornale che fa informazione per e per conto di aziende che interpreta in maniera sana il proprio ruolo all’interno della comunità.
Da quanto esiste il brand journalism?
Da sempre. Ma negli anni 90, uno dei più grandi visionari del digitale che purtroppo è scomparso prematuramente, Franco Carlini, fondò a Genova una cooperativa che esiste ancora oggi: F5. Aveva una caratteristica innovativa per i tempi perché all’interno non giornalisti o brand journalist ma professionisti della comunicazione. Ovvero colleghi molto giovani, preparati dal punto di vista professionale che riuscivano a far convivere le due anime. Da una parte scrivevano articoli, speciali e inchieste per testate giornalistiche con l’autonomia e la professionalità richieste, e contemporaneamente riuscivano a produrre ai tempi contenuti di alta qualità per i siti istituzionali. In quel laboratorio di idee sono cresciuti professionisti di assoluto pregio. Faccio un nome su tutti: Carola Frediani, la più importante esperta di cybersecurity del mondo, giornalista di primissimo piano.
Perché considera il brand journalism il lavoro del futuro?
Perché le aziende hanno sempre più bisogno di professionisti in grado di capire quali sono le informazioni rilevanti. Servono persone in grado di scrivere le storie collegate a queste notizie e professionisti della comunicazione in grado di giocare tutti e due ruoli.
Qual è l’aspetto più difficile nel fare il brand journalist?
Il grande giornalista si riconosce nella sua capacità di tradurre la complessità di rendere in maniera semplice le tematiche più difficili. È un studioso del presente ed è in grado di tradurlo a un pubblico vasto. Ed esattamente ciò che vuole il manager di un’azienda che sa quali sono i punti rilevanti nella sua catena di produzione, ma essendo un tema estremamente difficile ha bisogno di qualcuno in grado di cogliere gli aspetti rilevanti e tradurre questa complessità con una semplicità espositiva.
Le nuove generazioni di giornalisti sono preparate?
Ho la fortuna di insegnare all’Università e in un master di giornalismo. Vedo quotidianamente entrambe le facce dei professionisti del futuro. I ragazzi del master hanno una grande sensibilità per la notizia e una forte preparazione sui temi. Ma non hanno quel background culturale che permette loro di interpretare il loro ruolo come professionisti e non più solo come un giornalisti. Vivono come una diminutio la strada verso il brand journalism. Dall’altra trovo giovani studenti universitari o di master dedicati alla comunicazione aziendale con un’ottima preparazione tecnica sugli strumenti dello storytelling ma senza quella sensibilità giornalistica nel capire quando un fatto diventa rilevante. Sono due mondi che non riescono a incontrarsi.
E come si fa a farli incontrare?
Bisogna pensare un corso di formazione che contempli queste due realtà. Quindi dare al professionista la capacità di intercettare la notiziabilità e dall’altra parte di tradurre questa notiziabilità all’interno di processi di comunicazione aziendali che chiedono competenze tecniche ad alto livello. La persona che uscirà da un percorso del genere sarà un professionista completo in grado di giocare su due tavoli con etica e deontologia.
Sì, e di molto. La marchetta è quanto di più irrispettoso, lontano e dannoso ci possa essere per un giornalista perché vuol dire svendere il suo lavoro. E va contro anche agli interessi dell’azienda. Perché quando un’azienda assume un giornalista all’interno della comunità viene il mal percepito. Lo si considera un atto in qualche modo di corruzione. Ma è una cosa profondamente diversa dal giornalismo classico. Opinione pubblica e aziende cercano cose diverse.
Qual è la differenza più evidente?
La nostra democrazia e la coscienza civile hanno un bisogno spasmodico di un giornalismo che informari in maniera indipendente su temi di interesse pubblico e faccia crescere una coscienza critica a un pubblico più generale possibile. E questo deve essere preservato, protetto e valorizzato. Le aziende invece hanno un pubblico più di nicchia, molto esperto e appassionato e hanno bisogno di comunicatori in grado di intercettare la rilevanza e il bisogno informativo di questo pubblico di riferimento. Sono due cose profondamente diverse tra loro.
E come si fa a mostrare la differenza?
Bisogna separare le due cosa dal punto di vista etico e deontologico. Il giornalista fa il giornalista. Mentre il brand journalist dichiara in maniera esplicita, chiara e trasparente che sta facendo comunicazione per un’azienda utilizzando le tecniche giornalistiche. Se si vincesse questo pregiudizio, e io mi sto battendo perché accada, potremmo ottenere tre risultati importantissimi.
Quali?
Primo: se il brand journalist diventa una professione con una sua etica e deontologia non solo protegge se stessa, ma protegge il giornalismo in quanto tale. Separa nettamente le due attività, chiarendo i fronti. Il secondo vantaggio è che il giornalismo in quanto tale recupera e pulisce se stesso da incrostazioni o infiltrazioni non esattamente deontologicamente corrette che pur ci sono sempre state e che fanno presa su un modello di business tradizionale in palese difficoltà.
E la terza?
Si protegge il lettore. Il pubblico godrà di due potenti fonti di informazione riconoscibili e di valore. Da una parte il giornalismo in quanto tale. Dall’altra il brand giornale che fa informazione per e per conto di aziende che interpreta in maniera sana il proprio ruolo all’interno della comunità.
Da quanto esiste il brand journalism?
Da sempre. Ma negli anni 90, uno dei più grandi visionari del digitale che purtroppo è scomparso prematuramente, Franco Carlini, fondò a Genova una cooperativa che esiste ancora oggi: F5. Aveva una caratteristica innovativa per i tempi perché all’interno non giornalisti o brand journalist ma professionisti della comunicazione. Ovvero colleghi molto giovani, preparati dal punto di vista professionale che riuscivano a far convivere le due anime. Da una parte scrivevano articoli, speciali e inchieste per testate giornalistiche con l’autonomia e la professionalità richieste, e contemporaneamente riuscivano a produrre ai tempi contenuti di alta qualità per i siti istituzionali. In quel laboratorio di idee sono cresciuti professionisti di assoluto pregio. Faccio un nome su tutti: Carola Frediani, la più importante esperta di cybersecurity del mondo, giornalista di primissimo piano.
Perché considera il brand journalism il lavoro del futuro?
Perché le aziende hanno sempre più bisogno di professionisti in grado di capire quali sono le informazioni rilevanti. Servono persone in grado di scrivere le storie collegate a queste notizie e professionisti della comunicazione in grado di giocare tutti e due ruoli.
Qual è l’aspetto più difficile nel fare il brand journalist?
Il grande giornalista si riconosce nella sua capacità di tradurre la complessità di rendere in maniera semplice le tematiche più difficili. È un studioso del presente ed è in grado di tradurlo a un pubblico vasto. Ed esattamente ciò che vuole il manager di un’azienda che sa quali sono i punti rilevanti nella sua catena di produzione, ma essendo un tema estremamente difficile ha bisogno di qualcuno in grado di cogliere gli aspetti rilevanti e tradurre questa complessità con una semplicità espositiva.
Le nuove generazioni di giornalisti sono preparate?
Ho la fortuna di insegnare all’Università e in un master di giornalismo. Vedo quotidianamente entrambe le facce dei professionisti del futuro. I ragazzi del master hanno una grande sensibilità per la notizia e una forte preparazione sui temi. Ma non hanno quel background culturale che permette loro di interpretare il loro ruolo come professionisti e non più solo come un giornalisti. Vivono come una diminutio la strada verso il brand journalism. Dall’altra trovo giovani studenti universitari o di master dedicati alla comunicazione aziendale con un’ottima preparazione tecnica sugli strumenti dello storytelling ma senza quella sensibilità giornalistica nel capire quando un fatto diventa rilevante. Sono due mondi che non riescono a incontrarsi.
E come si fa a farli incontrare?
Bisogna pensare un corso di formazione che contempli queste due realtà. Quindi dare al professionista la capacità di intercettare la notiziabilità e dall’altra parte di tradurre questa notiziabilità all’interno di processi di comunicazione aziendali che chiedono competenze tecniche ad alto livello. La persona che uscirà da un percorso del genere sarà un professionista completo in grado di giocare su due tavoli con etica e deontologia.