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Gli scienziati dell’Università di Udine che l’hanno brevettata l’hanno chiamata Elsa, come la leonessa protagonista del bestseller “Nata libera”. Perché si augurano che la loro stufa a pirolisi, in grado di produrre calore e carbone vegetale a basso impatto ambientale, si diffonda in Africa di villaggio in villaggio senza troppi ostacoli, ma anche perché per i piccoli artigiani e imprenditori africani Elsa Stove è libera da copyright. Oggi questa stufa ecologica che brucia scarti agricoli senza produrre fumo è già presente in Ghana, Togo, Etiopia, Zimbabwe, e sta prendendo piede in Tanzania, Nigeria, Camerun.
La storia inizia nel 2007, quando nell’ateneo friulano si iniziano a studiare gli effetti positivi del carbone vegetale sui suoli: “E’ un fertilizzante molto utile, soprattutto nel caso di terreni molto acidi come sono quelli africani, difficili da coltivare”, spiega Alessandro Peressotti, docente del dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali, che oggi presenterà la storia di Elsa anche a Lignano Sabbiadoro, per la rassegna “€conomia sotto l’ombrellone”. “A quel punto – continua Peressoti – ci siamo chiesti come potevamo produrre il carbone vegetale in modo sostenibile, senza ricorrere alle carbonaie ancora oggi diffuse in Africa, che però inquinano e liberano una grande quantità di calore”. Si pensa così a sfruttare il processo della pirolisi, grazie al quale si scindono i legami chimici attraverso il calore, ma senza la produzione di composti gassosi, perché tutto avviene in assenza di ossigeno. “Abbiamo scoperto che era possibile fare pirolisi in piccoli bruciatori realizzabili in modo semplice e con materiali anche di recupero e di diversa qualità”. Nel 2010, Peressotti, insieme a un suo studente neolaureato, Davide Caregnato, e al fisico e imprenditore agricolo Carlo Ferrato, brevetta Elsa Stove. I soldi arrivano in buona parte dalla Commissione Europea, che sostiene con circa 840.000 euro il progetto BeBi, focalizzato sui benefici agricoli e ambientali legati all’uso del biochar nei Paesi in via di sviluppo.
E i vantaggi sono parecchi: “Elsa Stove produce carbone vegetale, ottimo ammendante per i suoli delle aree tropicali e strumento di stoccaggio della CO2 nel sottosuolo. Inoltre, ottimizza il processo di combustione, fornisce calore per cucinare e non produce fumo”. Aspetto, quest’ultimo da non sottovalutare: se infatti l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda che all’interno delle abitazioni la concentrazione di particolato non superi i 50 microgrammi per metro cubo, la stessa OMS ha calcolato che nelle capanne, quando si accende il fuoco per cucinare, il dato arrivi a 30.000 µg/m3.
La stufa può essere alimentata con vari tipi di scarti agricoli, che spesso non vengono valorizzati: “Gusci di arachidi o di noci, foglie di pannocchie, nocciolino di palma da olio. Oggi per cucinare si va nella foresta a fare legna, in un processo di deforestazione continua. Non solo Elsa permette di evitare queste pratiche, ma grazie al carbone vegetale permette anche di recuperare quelle zone aride totalmente desertificate”, continua Peressotti, che è anche coordinatore di BeBi.
Il professore di Udine, che con un nuovo progetto finanziato dall’Europa, Biochar Plus, e partner come le Nazioni Unite e l’Unione Africana, sta lavorando per la diffusione di Elsa, si sta trovando davanti a un ostacolo oggettivo: “Non c’è abbastanza combustibile per tutti. Gli scarti utilizzabili non possono soddisfare il fabbisogno di tutta la popolazione”. Per questo, si è deciso di partire da aree dove gli scarti sono più abbondanti: “In Ghana, per esempio, sono presenti piccole coltivazioni familiari di palma da olio, che rendono disponibile sufficienti quantità di nocciolino utilizzabile in Elsa”. Nel frattempo si studiano anche soluzioni alternative: “In Kenya, Etiopia, Ghana, Tanzania, le segherie non recuperavano la segatura, che invece adesso viene utilizzata per produrre pellet. In Zimbabwe ogni famiglia ha circa mille metri quadrati di terreno, in grado di assicurare cibo per tutto l’anno. Abbiamo pensato di destinare una parte di questi appezzamenti alla produzione di combustibili vegetali per Elsa, e ottimizzare la produzione agricola nell’altra parte grazie alla concimazione con il carbone vegetale”. Un’idea forse non attuabile su grande scala e che in Europa ci apparirebbe poco logica, ma che nei piccoli villaggi africani, dove nelle capanne l’aria è soffocante a causa del fumo e la deforestazione sta distruggendo i polmoni verdi del continente, ha un suo perché.
Grazie all’assenza di copyright per gli artigiani africani e all’attività di formazione sul campo in diversi Paesi del continente, Elsa si sta lentamente diffondendo. 15.000 le stufe attive in Ghana, 5.000 in Etiopia, 1.000 in Togo. “Ci sono diverse produzioni attive, anche con diverse fasce di prezzo: si va dai 10 dollari per la stufa prodotta con lamiere di recupero, ai 100 dollari per quella a due fornelli, destinata alle classi più agiate delle città. Molti vedono in Elsa e nei suoi benefici un’opportunità di sviluppo sostenibile, tanto che Biochar Plus vede tra i suoi partner l’Unione africana e l’Unido, l’organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale”.
E nel frattempo all’Università di Udine si lavora anche ad altri progetti futuri: “In Zimbabwe e Guinea Bissau realizzeremo due piccoli gassificatori a biomasse: saranno alimentati dagli scarti di una fabbrica che confeziona noci di Macadamia. Forniranno energia agli stabilimenti e ai villaggi di operai”. E presto Elsa Stove sarà commercializzata anche in Europa, attraverso lo spin off universitarioBlucomb: “Nel nostro continente buona parte delle emissioni derivano dal riscaldamento. Per questo abbiamo pensato che anche qui Elsa potesse avere un mercato”.

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