L’appello dei figli degli operai ai vertici della Fivit Colombotto, fabbrica metalmecccanica di Collegno, alle porte di Torino, che vuole chiudere
Tutta la famiglia ha la bocca all’ingiù, così fanno i bambini quando devono disegnare la tristezza, così ha fatto anche Laura con la sua matita. Ed è triste pure il sole, là nel cielo spento. Sono tristi i papà che hanno perso il lavoro, sono tristi le mamme, i fratelli, le sorelle, la città, tutti.
Questa è la storia di una fabbrica che ha appena chiuso, una storia in fondo comune, dentro la maledetta crisi che fa sanguinare non solo l’economia ma le persone, soprattutto le più fragili. E c’è qualcosa di più fragile di un bambino? “Non licenziate i nostri papà”, scrivono i figli col pennarello, ingenui e perfetti, sui loro fogli bianchi.
Era una fabbrica di viti e bulloni per automobili ed elettrodomestici, la Fivit Colombotto di Collegno, alle porte di Torino, il paese famoso per il manicomio. Forse, ci sono luoghi dove il dolore preferisce fermarsi e rimanere. Bulloni, viti: oggetti di una quotidianità materiale e disarmante, oggetti antichi che l’uomo usa da sempre. Ma da qualche settimana, l’azienda ha abbassato le saracinesche.
Nel 2003 era stata assorbita dal gruppo lombardo Agrati, però le cose sono andate sempre peggio. La perdita del lavoro riguarda 82 operai, anzi 82 famiglie: e i bambini hanno deciso di prendere matite e colori per dire no, per chiedere che non finisca così.
C’è un video su YouTube, ci sono pagine su Facebook, perché almeno questo ha di bello il presente: anche se ha messo in crisi i bulloni e i papà, ha inventato nuovi modi per parlare con gli altri, subito, adesso, e per farsi sentire. “Fai tornare il sorriso alla mia famiglia”. I disegni dei bimbi di Collegno spiegano più di tanti trattati di sociologia ed economia il disagio di questo sventurato presente. Lì dentro urla un dolore quotidiano, chissà quante sere passate a parlare della crisi attorno a un tavolo, con i piccoli zitti ma attenti, spugne pronte ad assorbire ogni cosa, perché loro sono così. E poi, quel tutto è rotolato sulla carta, si è rovesciato sui fogli.
“Mio papino, non c’è bisogno che piangi di nascosto”, scrive una bambina che si firma solo “figlia di un dipendente”. “Anche se davanti a noi sorridi, io ho capito tutto, non lascerò mai la mano che stringi da 11 anni”. Nel disegno, il papà e la bimba si tengono, appunto, per mano, su un prato di fiori rossi, c’è anche un cuore appoggiato a terra. “Cattivi, papà perde il lavoro”, qui invece la famiglia è come chiusa dentro una casaprigione,
il segno è nero, la desolazione è un tratto semplice e netto.
I bambini ne avranno parlato tanto tra loro, forse con le maestre, con i nonni. E il racconto dà il senso di una comunità, è corale e dolente. Lorenzo ha disegnato un paio di mani e vorrebbe regalarle al papà, perché lui con quelle mani possa continuare a lavorare. C’è la fabbrica dentro una palla di vetro, è l’idea di Mauro e Michele, ed è un futuro che si legge anche troppo bene. C’è una cassetta degli attrezzi che non serve più, ci sono le viti disegnate con attenzione e perizia, non manca neppure una zigrinatura, si vede che questi piccoli le hanno viste, toccate.
“State rovinando i nostri sogni”, dice un cuore triste firmato da Giulia, 6 anni, e Francesco, 3 anni. “Non lasciate il mio papà senza lavoro”. C’è un mantello di stelle colorate, quasi assurdo nel buio. I bambini disegnano la fabbrica con precisione, non è il nemico ma una specie di casa, è lì che papà e mamma guadagnavano i soldi per mantenere la famiglia. E graffia il cuore il disegno con le croci sopra i vestiti, il cibo, l’automobile, i libri, cioè le cose che bisogna cancellare a una a una. Nell’uovo di Pasqua, uno di questi bimbi chiede di trovare il regalo del lavoro, anche lui è un figlio di qualche papà che piange da solo, anche se ci sono situazioni impossibili da nascondere, i bambini vedono tutto, sentono tutto, captano con le antenne sempre dritte.
Stasera i loro genitori, i dipendenti della Fivit Colombotto, parteciperanno a un consiglio comunale aperto, a Collegno, e poi andranno in strada con le fiaccole. “La nostra azienda da cinque anni non è più in cassa integrazione, ha ricevuto molte commesse, non c’era nessun bisogno di chiuderla “, dicono gli operai. L’attività è stata interrotta da un giorno all’altro, nessuno era davvero preparato, meno che mai i bambini. “I nostri genitori non sono numeri”. “Il lavoro è un diritto di tutti”. Laura, Sara, Gianluca, ognuno ha una domanda, una frase. Giulia ha disegnato il suo papà che torna a casa con la cassetta degli attrezzi in mano, invece Lara scrive: “Senza lavoro non si va da nessunaparte”.
Ci sono lacrimoni che scivolano dagli occhi, e facce che gridano. Pupille spalancate, il fumo si alza dai comignoli e dalle ciminiere, sopra i tetti di Collegno che non capisce e non lo merita. E c’è anche la realtà disegnata come finalmente dovrebbe essere: un papà che spinge sorridendo una carriola rossa, tra file di bulloni bene avvitati, tutto in ordine, tutto funzionante, un piccolo cuore che vola come una farfalla e la frase dentro un fumetto: “Io amo il mio lavoro”, ogni parola scritta con un colore diverso, “lavoro” in verde, “io amo” in rosso, non potrebbe essere altrimenti. Anche se
il disegno che fa più male, dopo quello del padre che piange da solo e quello delle bocche all’ingiù, è un cubitale e semplice “Perché?”, appoggiato nel vuoto. Il bambino che l’ha scritto forse avrà già imparato che cisono domande senza risposta.