7 domande da porsi per sapere se un fondo d’investimento è sostenibile
Una mini-guida per districarsi nella “giungla” dei fondi d'investimento e porsi le domande giuste per scegliere quelli davvero sostenibili
Una mini-guida per districarsi nella “giungla” dei fondi d'investimento e porsi le domande giuste per scegliere quelli davvero sostenibili
Cos’è un “investimento sostenibile”? L’Unione europea ha stabilito che un investimento è sostenibile quando finanzia attività economiche che contribuiscono a raggiungere obiettivi ambientali e/o sociali. Queste attività, inoltre, non devono danneggiare altri fattori ambientali e sociali. Vale a dire: non è sostenibile produrre energia a zero emissioni e contemporaneamente riversare rifiuti tossici nell’ambiente. Terzo punto: un investimento sostenibile sceglie aziende che rispettano codici di buona gestione, per esempio sulla remunerazione del personale e sul rispetto degli obblighi fiscali.
Passando dalla teoria alla pratica, significa investire il proprio denaro scegliendo prodotti finanziari (come fondi d’investimento o fondi pensione) che seguono questo approccio. Lo possono fare adottando diverse strategie. Per esempio, ci sono fondi tematici che si concentrano sulle energie rinnovabili. Fondi che investono solo nelle imprese che promuovono con maggiore successo la parità di genere. O che lavorano con le aziende per aiutarle a produrre in modo più sostenibile.
Come si individuano questi fondi? Ecco alcun riflessioni che possono essere utili quando ci si trova di fronte a un prodotto finanziario che dice di essere “sostenibile” o “ESG” (Environmental, social and governance).
I fondi possono ottenere certificazioni di sostenibilità, cioè delle “etichette” che provano che la politica d’investimento rispetta una serie di criteri. Per esempio, i fondi con il marchio francese Greenfin non investono in aziende attive nel settore dell’energia nucleare, insieme ad altre caratteristiche.
Da marzo del 2021 un regolamento dell’Ue riconosce due tipi di fondi sostenibili in base al grado di ambizione. A seconda della categoria in cui si classificano, i fondi sostenibili si definiscono come “Articolo 8” o “Articolo 9” (dal numero dei due articoli che li definiscono). Questi prodotti devono pubblicare informazioni su come gestiscono i rischi di sostenibilità, come riducono gli impatti negativi, quali obiettivi si propongono di raggiungere e come lo fanno.
Per quanto utili, classificazioni ed etichette non sono sufficienti a fare una valutazione a 360°. Per esempio, al momento i gestori danno interpretazioni molto diverse ai prodotti Articolo 8 e Articolo 9. Quindi, sotto lo stesso nome si possono trovare fondi molto diversi. Un’analisi condotta a luglio del 2021 ha evidenziato che circa il 30% dei prodotti “Articolo 9”, cioè i più sostenibili, investe in aziende attive nel settore dei combustibili fossili. Una circostanza che molti risparmiatori non si aspetterebbero, se un fondo si definisce sostenibile.
Un’idea più chiara può emergere dall’analisi del portafoglio, cioè verificando quali sono i settori e le aziende dove il fondo investe (o almeno i principali). Queste informazioni sono disponibili nelle relazioni di gestione semestrali e annuali.
La presenza di investimenti in settori controversi non deve necessariamente scoraggiare. Non è detto che un fondo con una carbon footprint elevata (cioè che investe in aziende che emettono molti gas ad effetto serra) non si impegni per promuovere la transizione. Il contributo può essere infatti molto efficace attraverso l’engagement.
Le istituzioni finanziarie fanno, appunto, engagement quando dialogano e collaborano con le aziende investite per aiutarle ad adottare pratiche più sostenibili. Diverse ricerche hanno dimostrato che tale approccio è uno degli strumenti più efficaci con cui gli investitori possono produrre impatti concreti e positivi sull’ambiente e sulla società. Intervenendo, cioè, sulle aziende.
Per ridurre drasticamente le emissioni di gas serra occorre sviluppare soluzioni innovative ed efficienti nei settori a maggiore impatto. Sono proprio questi ad avere bisogno di più capitali per finanziare la transizione. E di investitori che collaborano al processo. I fondi coinvolti in questa attività possono avere un’impronta elevata in termini di emissioni climalteranti. Ma altrettanto elevato è il loro contributo alla mitigazione dei cambiamenti climatici.
Secondo recenti stime, lavorare sui settori ad alte emissioni – come la produzione di acciaio e cemento, l’aviazione, il trasporto marittimo, l’agricoltura – permetterebbe di dimezzare le emissioni globali. Tuttavia, questi settori ricevono solo il 10% dei flussi ricondotti alla finanza climatica.
Per farsi un’idea accurata delle credenziali di sostenibilità di un fondo, quindi, è opportuno verificare se fa engagement, come lo fa, con quali aziende, con quali obiettivi e con quali risultati.
Se un investitore ha una politica di azionariato attivo legata ai temi ESG, significa che si impegna a votare in base a determinati principi e obiettivi di sostenibilità nelle assemblee degli azionisti delle società investite. Per esempio, a maggio del 2021 durante l’assemblea della compagnia petrolifera statunitense Exxon Mobil, un gruppo di azionisti ha fatto eleggere tre consiglieri di amministrazione dalle posizioni ambientaliste.
In diversi Paesi, tra cui i membri dell’UE, gli investitori sono tenuti a pubblicare sui siti informazioni sulle politiche di engagement e di azionariato attivo. Più complicato è verificare se queste dichiarazioni vengono rispettate. L’ONG ShareAction ha analizzato il voto delle 65 principali società di gestione del mondo in merito a 146 risoluzioni su temi ambientali e sociali nel corso del 2021. Ne è emerso che proprio i membri dell’iniziativa internazionale per l’engagement Climate Action100+ hanno votato, in media, contro un terzo delle risoluzioni sui temi ambientali.
Quando i gestori di un fondo devono decidere se investire o meno nel titolo di un’azienda, nella maggior parte dei casi ne analizzano il rating ESG, cioè un giudizio sintetico sulle performance di sostenibilità, che viene elaborato da agenzie specializzate.
Una ricerca della New York University ha rilevato che la maggior parte delle metodologie per elaborare i rating ESG è focalizzata sui rischi e non considera gli impatti. In altre parole, i rating dicono quanto il valore economico-finanziario dell’azienda sia esposto ai rischi di sostenibilità. Viceversa, non valutano se le pratiche dell’azienda producano un effetto positivo o negativo sull’ambiente o sulla società. Quindi, un’azienda con un rating climatico elevato è ben protetta dai rischi (come i danni agli impianti causati dai fenomeni atmosferici estremi), ma non è detto che sia responsabile di poche emissioni.
È quindi importante avere chiaro il proprio obiettivo d’investimento. Proteggere i risparmi dai rischi? Oppure contribuire a costruire un’economia più inclusiva e a ridurre gli impatti negativi sull’ambiente?
Molti fondi replicano passivamente l’andamento di indici (o benchmark), cioè insiemi di titoli che vengono selezionati e pesati tra loro in base a certi criteri, come il livello di emissioni di gas ad effetto serra, o i rating ESG. Gli indici possono includere determinate regole: per esempio una riduzione percentuale della CO2 dispersa di anno in anno nell’atmosfera.
Uno studio EDHEC Business School – Scientific Beta ha evidenziato che la maggior parte degli indici climatici porta a preferire i settori che per natura sono meno inquinanti (o le aziende meno esposte ai rischi), ma che hanno meno potenzialità di abbassare le emissioni complessive dell’economia. Al contrario, i settori che emettono più gas ad effetto serra trovano uno spazio ridotto nei portafogli. Come visto sopra, questo approccio permette di abbassare rapidamente le emissioni del fondo, ma non è molto efficace a sostenere la transizione.
La risposta più istintiva a questa domanda è sì. Se si vuole investire in modo sostenibile, un’azione immediata è cercare fondi che escludono le aziende attive in settori controversi. O quelle che non forniscono garanzie adeguate sul rispetto dei diritti umani, su diversità e inclusione, o sulla tutela della salute. Sempre più istituzioni finanziarie annunciano la decisione di disinvestire dalle imprese coinvolte nella produzione di combustibili fossili.
La logica è che perdere investitori danneggia le aziende colpite e quelle con caratteristiche simili, spingendole a migliorare. Restando sull’esempio dei combustibili fossili: i fondi possono vantare un’impronta in termini di emissioni di CO2 più bassa e i risparmiatori si sentono sollevati all’idea di non finanziare aziende pericolose per il clima.
Tuttavia, gli effetti concreti sono discutibili. È stato osservato che nella maggior parte dei casi i titoli delle aziende disinvestite vengono acquisiti da altri fondi che evidentemente non hanno politiche di sostenibilità, o hanno criteri meno stringenti. E sono meno propensi a investire risorse nell’engagement.
Spinte dalla pressione degli investitori, sempre più compagnie petrolifere vendono parte delle loro operazioni. Queste attività vengono rilevate da imprese controllate dagli Stati, oppure da aziende non quotate in Borsa, che hanno meno obblighi di trasparenza. In molti casi si tratta di aziende finanziate da hedge fund, o da società di private equity.
Nel Regno Unito un terzo della produzione di petrolio del Mare del Nord è in mano a investitori privati. In sostanza, le pompe petrolifere continuano a funzionare, al riparo dallo scrutinio dei mercati e dell’opinione pubblica. A livello globale, i combustibili fossili ricevono l’80% degli investimenti in energia dei dieci più grandi fondi di private equity.
È importante capire se il fondo applica criteri ESG (o persegue obiettivi di sostenibilità) per selezionare tutti i titoli in cui investe, oppure solo a una parte. Questa considerazione serve a soppesare quanto sono incisive le dichiarazioni delle istituzioni finanziarie sull’obiettivo net-zero, vale a dire l’impegno ad azzerare le emissioni nette di gas ad effetto serra nei portafogli entro il 2050. Un fondo con obiettivo net-zero implicherebbe che tutte le aziende investite abbiano piani per ridurre progressivamente le emissioni.
Nella maggior parte dei casi, la promessa vale solo per una porzione limitata dei portafogli. L’organizzazione Universal Owner ha analizzato gli impegni al 2030 di 43 società di gestione che fanno parte dell’iniziativa internazionale Net Zero Asset Managers Initiative. Ne è emerso che il 65% del patrimonio complessivo è escluso dall’obiettivo net-zero. Inoltre, le emissioni non sono distribuite in maniera omogenea tra aziende e settori. Per alcuni fondi analizzati, l’85% delle emissioni è concentrato in una piccola frazione di titoli, pari al 10% del patrimonio.
Quindi, un fondo che dice di essere allineato a net-zero può applicare questo obiettivo solo a una percentuale ridotta del portafoglio. Oppure coprire gran parte degli investimenti, ma lasciare esclusi proprio i settori che emettono di più.