L’inchiesta pubblicata dal New York Times sullla fabbrica delle bufale che distorce il confronto politico in Italia ha generato uno scontro tra i partiti fatto di accuse reciproche e tentativi di risolvere la questione a suon di leggi. Ma quanto è profonda la tana delle fake news? Dove conducono le ramificazioni delle bugie che rendono tossico il confronto in rete e il dibattito pubblico? Dove si arriva seguendo l’intreccio tra post virali, banner online e agenzie di broker pubblicitari?
ROMA È un algoritmo antico quanto l’uomo quello che muove la fabbrica delle “fake news”, la centrale dalle migliaia di IP che, da almeno due anni, pompa on-line il veleno che intossica la Rete, i social e, con loro, il dibattito pubblico, preparandosi a condizionare una campagna elettorale che già parte con le peggiori premesse.
Quell’algoritmo si chiama denaro. Un fiume. Che si muove attraverso i banner della pubblicità on-line e i broker – tra loro, lo vedremo, anche una società russa – che la negoziano.
C’è chi ha cominciato a offrirne a prezzi sin qui mai visti. E il banco è di chi ha più traffico, più visualizzazioni. Di chi “viralizza” con il sangue agli occhi su temi capaci di dividere. Fino a diecimila euro al giorno di guadagno per chi impasta odio, piuttosto che alzare fumo, su migranti, sicurezza, omosessualità, sanità, e, naturalmente, Politica. Non quella dei fatti, ma della “character assassination”, dell’assassinio della reputazione dell’avversario. È una storia la cui coda in chiaro è nella violenta polemica di quest’ultima settimana tra Pd, Lega, Movimento Cinque Stelle su chi sarebbero le vittime e chi i carnefici del sistema. Chi gli artigiani del falso e chi i committenti. Ma è una storia che, a monte, ha altri indirizzi e protagonisti. Che porta a Londra, a Mosca, in Albania, ai domicili virtuali di sedicenti e improbabili “publisher”, imprenditori editoriali della Rete, spesso nascosti dietro Troll, e che Repubblica ha ricostruito cominciando da una fabbrica di manufatti in alluminio a Terni.
Dove, in una sera gelida di novembre, durante la pausa di cambio turno, Leonardo, un metalmeccanico di 34 anni, ex punk, la terza media in tasca e i soldi per comprare il primo modem non più di sei anni fa, apre le porte del Sistema.
Leonardo di cognome fa Piastrella. E in Rete, fino al giorno in cui ha deciso di sfilarsi la maschera e cominciare a girare le scuole con il suo vero nome per illuminare i cavalieri neri dell’intossicazione online, era conosciuto come Ermes Maiolica, il più noto “bufalaro” italiano. Ne ride da solo Leonardo di quella trovata, non esattamente originale, che lo aveva trasformato da uomo in Troll «Piastrella… Maiolica» – e che lo ha protetto per anni. Trasformare il falso in verosimile e quindi in vero, viralizzandolo, è stato per lui un altro modo per portare avanti la sua personalissima “rivoluzione punk”. Per dimostrare che “il Re era nudo”.
Finché il gioco si è fatto sgradevole e troppo gravido di conseguenze. «Il mercato delle bufale è molto più semplice di quello che uno può pensare esordisce Leonardo – C’è chi ha i soldi, i broker pubblicitari. E chi ne prende una percentuale, i gestori dei siti. Più traffico hai, più soldi prendi dalla pubblicità. Si è sempre detto che lo stratagemma per avere molto traffico, fosse disporre di un buon algoritmo in grado di adattare i contenuti agli umori e alle preferenze del pubblico». Nelle parole di Maiolica, l’algoritmo ha un significato fulminante nella sua semplicità. «Ho la terza media e gli algoritmi non li ho studiati. Mi è bastato capire che l’algoritmo è la formula che risolve un problema. Mi sono detto: se esiste un algoritmo che risolve un problema, deve esistere un contro-algoritmo che il problema lo crea e che ne moltiplica l’effetto in termini di viralizzazione. Ecco, i bufalari creano dei contro-algoritmi. Lavorano sui nervi scoperti dei gruppi di discussione sui social. Comprendono quali temi sono potenzialmente in grado di incendiarli e il gioco è fatto. Basta dare fuoco. Nei giorni del diesel gate, misi in piedi un falso concorso ai cui partecipanti la Volkswagen regalava auto. L’azienda ebbe i call center intasati per ore e fu costretta a fare un comunicato stampa».
Un giorno, alla porta di Leonardo, come a quella di alcuni suoi amici hacker e ingegneri sociali, cominciano a bussare i broker pubblicitari. Cercano gente che faccia traffico e i bufalari sono i re del traffico. Le società lavorano in un mercato dove la parte del leone l’ha sempre fatta Google Ads ma da quando è cominciata la storia delle fake news, e Google ha stretto le maglie, tagliando fuori dai dividendi pubblicitari i bufalari, si è liberato spazio per una nuova forma di concorrenza.
Le società, tra le altre, si chiamano Criteo, Chamaleon, Adnow. E, un anno e mezzo fa, sul mercato italiano, si aggiunge una startup che brilla per aggressività e redditività: Clickio.
Più che una startup Clickio è un satellite. La casa madre è la russa AdLabs, la più importante azienda pubblicitaria del paese. Uffici a Mosca, Praga, Cipro e ora anche a Londra dove ha sede la direzione commerciale che sovrintende il mercato italiano.
Un ingegnere sociale, che chiede a Repubblica l’anonimato consapevole di violare un segreto che può costargli caro, racconta che Clickio non solo offre tariffe fino a cinque-sei volte superiori alla media di mercato. Ma, in alcuni casi, arriva a suggerire ai “publisher”, direttamente o indirettamente, i temi su cui costruire contenuti. Dove per “indirettamente” si intende individuare come cliente privilegiato chi, in Italia, scrive di migranti, terrorismo islamico, reati commessi da stranieri. O chi celebra la Russia di Putin.
Al 32-38 di Leman Street, a Londra, ha l’ufficio Jacopo Gerini, direttore commerciale di Clickio.
Ascolta le domande di Repubblica, sorride quando comprende dove si vada a parare e con garbo dice: «Capisco che il fatto che il proprietario sia russo e possa far pensare a chissà cosa, ma l’azienda ha sede in Gran Bretagna e qui non c’è niente da nascondere. Siamo una piattaforma di ottimizzazione che consente ai nostri clienti di poter raggiungere un incremento medio tra 20 e 40 per cento dei ricavi pubblicitari. Abbiamo un policy team dedicato che controlla la qualità dei siti, collaboriamo con Google Ads e abbiamo criteri molto rigidi nella scelta dei partner. Evitiamo di lavorare con publisher e siti che hanno una visione di parte o che, ad esempio, violano le regole di “brand and family safety” (un esempio, la speculazione sulla morte di qualcuno). Non abbiamo mai imposto ai publisher i loro temi di discussione in quanto la nostra esperienza e’ esclusivamente nell’ottimizzazione e non nell’editoria. Vogliamo semplificare la vita ai publisher che faticano a comprendere il mercato pubblicitario».
Conviene tenere conto di quello che dice Gerini. E verificarlo. Un’altra volta. A Udine. Dove lavora David Puente. Ex consulente della Casaleggio Associati, è uno dei più capaci, affidabili e profondi conoscitori della comunicazione on line. In gergo, è un debunker, uno svelatore di mistificazioni. Un cavaliere bianco. Con lui, si fa un’interessante scoperta. Il banner di Clickio è associato (e dunque fa inserzioni pubblicitarie) ad almeno tre siti tra quelli che i formidabili tools informatici di Puente monitorano costantemente a caccia di bufale.
In un pezzo del sito scenarieconomici. it, si legge: “Isis, parte la campagna del terrore per le festività natalizie. Sul web le minacce e le immagini al limite dello splatter”. In un altro, che polemizza con Renzi e Marchionne, si finisce su direttanews. it , la testata on-line con sede legale a Velletri (in provincia di Roma), citato dalle inchieste di BuzzFeed e del New York Times e oggetto delle denunce dal palco della Leopolda di Matteo Renzi. Un terzo, documenta come cliente di Clickio lantidpomatico. it, sito il cui gestore è un consulente dell’ufficio legislativo dei 5 Stelle alla Camera.
«Bene arrivati al cuore del problema – dice sorridendo Puente – È il denaro della pubblicità che alimenta il mercato delle bufale. Se poi aggiungiamo che molti dei bufalari si muovono spinti anche da una propria ideologia politica, ecco spiegata la ragione di un mercato così in ebollizione. C’è chi si mette in vendita per soldi. Chi per soldi e convinzione politica, diciamo così. Il che, dal suo punto di vista, elimina anche qualsiasi residuo scrupolo etico».
È una corsa al nuovo oro dove c’è posto per tutti. Per Paesi – la Russia di Putin – impegnati in operazioni di influenza. Per avventurieri sull’altra sponda dell’Adriatico. «Qualche settimana fa, ho scoperto siti di bufale in lingua italiana con proprietari due ragazzi albanesi di Lezhe. Il che conferma come, alla vigilia della campagna elettorale, l’offerta di bufale sia destinata a crescere. Diciamola così: l’Italia che si prepara alle elezioni è una bufala da mungere». Anche perché, la Politica, anche stavolta, sembra non voler capire. «Anziché ragionare sulla necessità di accordi tra autorità, aziende e paesi stranieri che rendano pienamente trasparente e veloce l’individuazione delle proprietà dei domini cui si appoggiano i siti di bufale – prosegue Puente – mi sembra che la discussione sia più interessata a utilizzare la questione delle fake news come strumento di attacco all’avversario politico. Con l’effetto paradossale di depotenziare il problema e di non capire che tutte le forze politiche sono potenzialmente vittime del Sistema. Che i nemici sono i Troll senza nome e il denaro che li alimenta».
E a proposito di bufale e troll, da qualche giorno, in rete ha cominciato a fare capolino un certo Vincenzo Ceramica. Provate a indovinare chi sia.