image_pdfVersione PDFimage_printStampa

Oggi avete usato la vostra stampante 3D? Avete ricevuto un pacco da un drone? Guidato (o almeno visto) un’auto che si guida da sola? O per lo meno full-electric? Usato, anche indirettamente, l’intelligenza artificiale o la blockchain? No? Eppure siamo nel 2020 e, a guardare articoli e dichiarazioni di qualche anno fa, a quest’ora queste tecnologie avrebbero dovuto far parte del nostro quotidiano.

Ogni anno ha la sua “buzzword”, la sua parola magica di cui tutti parlano e che sembra pregna di un futuro luminoso e prossimo. E quest’anno, complice il COVID, pare proprio che questa parola sia “smart working”. A sentire e leggere molti, pare che l’ufficio sia oramai cosa del passato, e che il futuro porterà inarrestabile il lavoro da casa; le sedi aziendali non esisteranno più, o al massimo ci staranno solo server e robot.

Chi si oppone a questa visione o anche solo cerca di ridimensionarla viene presto tacciato di essere un miope retrogrado o un vile guardiano di quell’ancien régime prossimo a essere spazzato via dalla inarrestabile innovazione del momento (la “cancel culture” esisteva anche prima di Black Lives Matter, e il “tech hype” è un suo regno storico). È successo – di nuovo – anche al sindaco di Milano Beppe Sala ieri.

Eppure non è la prima volta che ci si convince che il lavoro in ufficio è un arnese del passato. In almeno tre occasioni – dopo lo shock petrolifero del ’79 che quadruplicò i prezzi della benzina, negli anni ’90 quando le e-mail e gli scanner presero piede, e verso metà dei 2000 con la diffusione di Skype e similari – ci si convinse che oramai il lavoro da casa era l’inevitabile futuro, salvo poi tornare sui propri passi.

Anzi, a guardare solo a pochi mesi fa, la direzione certa del futuro sembrava esattamente opposta, con le imprese più in vista che facevano a gara per rosicchiare spazi e minuti al tempo libero e domestico; con le mense, i caffè, le palestre, i teatri e i ping pong in azienda.

La farsesca storia della “start-up” di sub-affitto immobiliare WeWork, ritenuta solo l’anno scorso un “unicorno” da 47 miliardi di dollari di valore e poi collassata e dimenticata in un batter d’occhio, è in proposito particolarmente significativa.

I pericoli di farsi prendere da questi trend sono principalmente due: concentrarsi molto sui benefici nel breve periodo, adottando troppo e troppo rapidamente processi e strumenti che poi non si sa governare o far crescere; e sviluppare una narrazione tossica ed escludente per chi è incapace o impossibilitato a beneficiare dell’innovazione del momento.

Ecco, questo c’è da dire anzitutto riguardo lo smart-working (o agile working, o tele-lavoro: non sono la stessa cosa ma ci siamo capiti): la maggioranza delle persone non lavora in un ufficio o con un computer, ma nella manifattura, nella logistica, nella cura, nella ristorazione, nel turismo… Tutti ambiti in cui la maggioranza dei lavoratori a distanza può fare ben poco, mentre non pochi di loro fanno affidamento proprio sulla presenza dei colleghi negli uffici per lavorare e per guadagnare.

Ma anche tra chi può – o potrebbe – operare in smart-working o in tele-lavoro, ci sono degli impedimenti “attitudinali”. Non tutti sono inclini a lavorare da soli e per obiettivi. C’è tanta gente che (per fortuna!) non ha molto di quello “spirito imprenditoriale” necessario per auto-gestirsi, ma – per esempio – ha metodo e attenzione per i dettagli, nonché bisogno di ricevere compiti e confrontarsi per lavorare bene.

E poi, infine, ci sono quelli per cui lavorare da casa diventa una specie di incubo, perché non hanno spazi o mezzi adeguati per farlo, o esigenze familiari o sanitarie che rendono il lavoro da casa molto complicato da gestire, o perché se non sono in ufficio con i colleghi e col capo che ogni tanto passa proprio non riescono a concentrarsi.

Fatta quindi l’abbondante tara sull’accessibilità dello strumento a breve termine, vi è poi da ragionare sulle implicazioni a lungo termine. Per esempio c’è il rischio che lo smart-working, invece di rapporto di delega e quindi di fiducia, diventi uno strumento di controllo pervasivo sui lavoratori. Non è difficile immaginare grandi aziende che sviluppino piattaforme software onnicomprensive in cui monitorare ogni momento il comportamento dei dipendenti, un po’ come fanno oggi molti siti con gli utenti.

Vi è poi anche il rischio di una massiccia perdita di capacità contrattuale politica e di rappresentanza da parte dei lavoratori. Oggi i sindacati sembrano piuttosto favorevoli al lavoro a distanza, ma come coltivare e far crescere il senso di comunità e di solidarietà tra lavoratori che nemmeno si incontrano nei corridoi o chiacchierano in mensa? Anzi, c’è il rischio che – come in parte accaduto con le e-mail – esso aumenti lo scarica-barile di compiti e responsabilità: d’altronde, è molto più facile appioppare colpe e incombenze a un indirizzo di posta che al collega che sta dall’altra parte della scrivania.

Ma anche i datori dovrebbero preoccuparsi. Ora, spaventati dai costi di sanificazione e dai rischi di nuove chiusure causa focolai, nonché irretiti dall’idea di poter risparmiare moltissimi costi fissi, spingono per il lavoro a distanza. Ma dovrebbero riflettere sul fatto che così rischiano di diventare sempre più dei semplici “datori di stipendio” invece che datori di lavoro, poiché saranno sempre meno quelli che detengono i mezzi di produzione e quindi il controllo sul proprio processo produttivo.

Anche perché la cultura aziendale – così giustamente ritenuta fondamentale e celebrata fino all’anno scorso – è molto difficile da coltivare con i lavoratori a casa: se io lavoratore mi gestisco da solo e uso i miei mezzi per mandarti, con i miei tempi e i miei modi, i risultati che mi chiedi, e per forza di cose sono sempre meno in grado di vedere il contributo che do nel processo, sei un cliente più che un datore di lavoro. E alla lunga non mi sento di fare per te più dello stretto necessario.

Tutto questo vuol dire che lo smart-working è solo una moda passeggera? Ovviamente no. Può portare benefici a molte persone e alla comunità, aumentando la flessibilità e la responsabilizzazione di moltissimi lavoratori, così come può ridurre sensibilmente inquinamento e sprechi. 

In generale, può essere una grande occasione per instaurare un nuovo clima di fiducia e un rapporto di forza più sano tra datori e lavoratori. Inoltre, in Italia potrebbe essere una straordinaria opportunità per favorire la fusione delle piccole e medie imprese nel management, quello sì in buona parte possibile a distanza.

Tanti possibili benefici, quindi. Ma, come abbiamo visto, anche tanti rischi. E il modo più facile di incorrere nei rischi invece di cogliere le opportunità è fare le cose di fretta, fuori scala e senza pensare alle implicazioni profonde, generando poi disillusione e conflitto. Non caschiamoci.

I grandi cambiamenti sono complessi e richiedono tempo, oltre che prove ed errori. E comunque non cambiano mai tutto per tutti. I rapporti con i colleghi, l’ambiente di lavoro sono per miliardi di persone fattori fondamentali di costruzione della propria identità sociale e anche personale. 

Siamo persone diverse in ambienti diversi: è uno dei principi chiave del nostro essere umani. E le persone, si sa, cambiano, ma molto, molto lentamente.  

image_pdfVersione PDFimage_printStampa