Dagli X-Men agli Eternals: com’è cambiata l’inclusività nel mondo dei supereroi
Gli Eterni arrivano al cinema con il team di supereroi più diverse che si sia mai visto al cinema. E nei fumetti?
Gli Eterni arrivano al cinema con il team di supereroi più diverse che si sia mai visto al cinema. E nei fumetti?
Gli Eternals sono atterrati al cinema con le loro origini cosmiche, i poteri semi-divini e soprattutto con un cast di supereroi mai così ampio e inclusivo. È il film delle “prime volte” per il Marvel Cinematic Universe: il primo protagonista apertamente omosessuale, la prima protagonista sorda (interpretata da un’attrice sorda, Lauren Ridloff), la prima supereroina dodicenne, e poi tanti corpi, etnie e colori della pelle diversi.
Chi è rimasto stupito dalla diversità degli Eterni non ricorda evidentemente la storia dei fumetti. Nel 1975, gli appassionati di supereroi assistettero con occhi sgranati al rilancio degli X-Men, una testata che aveva perso quasi tutto il proprio appeal nel corso degli anni. Chris Claremont introdusse ai lettori un team quasi del tutto nuovo, e composto da un mutante russo (Colosso), una donna nera dall’Africa (Tempesta), un canadese dal pessimo temperamento e dalla statura decisamente bassa (Wolverine), un tedesco cattolico dall’aspetto diabolico (Nightcrawler) e un nerboruto discendente dei nativi americani (Proudstar) – cui si sarebbe presto aggiunta una tredicenne ebrea (Kitty Pryde).
Giant-Size X-Men 1 fu per il mondo del fumetto quel che The Eternals è oggi per il Marvel Cinematic Universe: un nuovo inizio, per molti spiazzante, con un cast di personaggi costruito a tavolino per essere il più diverso possibile. Allora come oggi, le polemiche da una certa parte dell’opinione pubblica non mancarono. Ma nel corso dei numeri e degli anni, quei personaggi riuscirono a conquistare un posto nel cuore dei lettori – grazie all’energetica immaginazione di Chris Claremont, certo, ma anche grazie all’eterogeneità rispetto a quanto si fosse mai visto prima.
All’epoca, Claremont non fece altro che replicare e amplificare lo spirito delle origini degli X-Men. Lo spirito di quei primi numeri del 1963 in cui Stan Lee e Jack Kirby inventarono un gruppo di giovani supereroi emarginati per la loro diversità, guidati da un leader sulla sedia a rotelle. L’inclusività è presente nel mondo dei supereroi da decenni, anche se ha dovuto compiere una lunga strada prima di diventare matura e onesta – un percorso che non si può ancora definire completo.
I supereroi nacquero per solleticare le fantasie di potere dei giovani lettori. Nel 1945, Capitan America celebrava la vittoria sui nazisti, Superman sollevava automobili e Wonder Woman… si univa alla Justice Society of America in qualità di segretaria. Solo negli anni ’60, l’intuizione dei supereroi con superproblemi aiutò l’industria dei comic a stelle e strisce a superare il vizio di fondo del genere, ovvero quello di rispondere (in modo più o meno letterale) all’ideale nietzschiano di superuomo, ben poco compatibile con un’idea di diversità. Il primo supereroe inclusivo, in fondo, fu Spider-Man, alias Peter Parker: un ragazzo timido, con gli occhiali, bullizzato dai compagni di classe sin dalla primissima pagina del suo albo introduttivo – anche se qui si continuava a parlare di inclusività selettiva, mirata verso un pubblico di lettori giovani, maschi, bianchi.
L’esempio di Spider-Man però può essere importante per far comprendere universalmente l’importanza della rappresentazione. Può servire a esemplificare quanto sia importante, per un giovane lettore, trovare per la prima volta un personaggio in cui identificarsi, e non un semidio indistruttibile e senza preoccupazioni, o uno stereotipo lontano dalla propria esperienza di vita. Può aiutare a dissipare le nebulose critiche di chi fa spallucce dinanzi all’esigenza di introdurre nuovi colori di pelle, etnie, orientamenti sessuali (andando ben oltre al vecchio Peter Parker, che oggi di inclusivo ha ben poco) per raggiungere nuovi lettori, e offrire loro personaggi e storie in cui riconoscersi, come all’epoca fece Spider-Man per decine di migliaia di giovani lettori nerd appassionati di scienze.
Nonostante i passi avanti compiuti dagli X-Men negli anni ‘60 prima e ’70 poi, la diversità restò a lungo tempo confinata a protagonisti maschi bianchi. Pochi personaggi femminili o di colore riuscirono a conquistare uno spazio rilevante sulle pagine dei fumetti: Tempesta degli X-Men, Pantera Nera, John Stewart. Gli anni ‘90 furono un buco nero di misoginia e stereotipizzazione per tutti i supereroi, che diventarono ipertrofici, violenti giustizieri. A questi anni risale il famigerato topos della “donna nel frigorifero” – un termine coniato dalla scrittrice Gail Simone e che si riferisce a una storia in cui la moglie di Lanterna Verde viene uccisa e ritrovata dall’eroe, fatta a pezzi, e conservata nel frigorifero di casa: in altre parole, l’utilizzo seriale di personaggi femminili esclusivamente come vittime sacrificali sull’altare della motivazione dei supereroi maschi.
Per non parlare della rappresentazione LGBTQ+ nei fumetti: basti pensare che sino al 1989 la Comics Code Authority, l’autorità di autovigilanza “etica” cui aderivano gli editori di fumetti americani, proibiva espressamente qualsiasi forma di raffigurazione alternativa della sessualità nei comic book recanti il proprio bollino di approvazione. Il supereroe Northstart, velocista canadese membro del gruppo Alpha Flight, dovette attendere sino al 1992 per poter fare coming out; in precedenza, gli sceneggiatori potevano solo accennare indirettamente alla sua sessualità. E bisognerà attendere sino al 2012 perché lo stesso Northstar diventi il protagonista del primo matrimonio gay in un albo di supereroi.
L’ultimo decennio è stato fondamentale per la storia dell’inclusività nei fumetti di supereroi. Tra le notizie più recenti a suscitare scalpore nei media vi è la conferma di Dc Comics che Jon Kent, figlio di Superman nella serie Son of Kal-El, è apertamente bisessuale; mentre Batman è reduce da un incontro con Midnighter, supereroe molto simile al Cavaliere Oscuro ma gay e sposato con Apollo (a sua volta una versione più radicale di Superman). Nel mondo Marvel Comics, Kamala Khan è dal 2014 una campionessa della rappresentazione musulmana nei fumetti di supereroi, e uno dei migliori esempi di come si possa realizzare un cast di personaggi inclusivi in grado di conquistare i giovani lettori. Daredevil resta il supereroe cieco più famoso, mentre Maya Lopez, aka Echo, è la sua controparte sorda. Cassandra Cain, alias Batgirl, è una giovane cresciuta senza alcun contatto con la società, muta, analfabeta e con gravi carenze sociali.
Nonostante tutti i passi avanti compiuti nella rappresentazione dei personaggi, il problema dell’inclusività ha una radice meno visibile. Ovvero, quella degli autori che lavorano dietro le tavole di ogni albo. Stando a statistiche elaborate dall’autore e storico Tim Hanley, nel 2020 la percentuale di autrici donne e non binariə oscillava tra il 20% e il 30% tra gli albi Marvel e Dc Comics. A ottobre, la Dc Comics ha annunciato il Milestone Initiative Development Program per identificare e supportare artisti emergenti neri e di etnie diverse. In tale occasione, però, sono emerse delle statistiche disarmanti per l’industria: ad oggi, gli autori neri rappresentano il 4,9% degli sceneggiatori e il 3,4% degli artisti; per gli asiatici le percentuali si attestano al 4,2% e all’8,4% e per gli autori ispanici e dall’America Latina si sale al 7,1% e all’11,7%.
Sorge, allora, una domanda cui il settore dei comic book dovrà necessariamente trovare risposta: quanto sono sinceri, ed effettivi, i passi avanti nella rappresentazione dei supereroi, se l’inclusività resta relegata alle tavole disegnate ma non a chi le firma?