I vocaboli che arricchiscono le presentazioni ma nascondono una cultura manageriale non più sostenibile
Prima Scena: effetto giorno, la location (posizione) è una porzione di hotel destinata ai convegni. Panoramica del luogo: ampia sala popolata da stand di vario genere in cui su rollup multicolore e sfondi prestampati spiccano termini moderni a supporto di pratiche obsolete: “gamification”, “videocv”, “app”, “welfare”, training”…
La telecamera stringe il campo ed entra in una delle due sale destinate al primo intervento della giornata, proprio mentre l’organizzatore ha finito di leggere il fitto programma di interventi e la biografia del primo speaker.
Questi si alza in piedi, invitato sul palco dal moderatore, fra gli applausi dell’audience formata in parte da qualche (suo) collega ma per la stragrande maggioranza da spacciatori di servizi che notoriamente popolano qualsiasi convegno contenga nel titolo la parola “HR” fintamente interessati all’intervento in corso, ma abili predatori pronti ad appioppare il loro biglietto da visita ed una promessa di incontro nei prossimi giorni, non appena il relatore scenderà dal palco, congratulandosi con lui per l’ intervento ricco di spunti.
Per il momento la futura preda è salita sul palco, impugna l’apposito attrezzo preposto al giramento di slide e ha già speso i primi 15 minuti ad impressionare la platea con numeri e fatturati che nei successivi 15 tutti avranno dimenticato, si è un pò incastrato col computer, “la tecnologia non ci aiuta” ha detto lui che viene da un’azienda ad alto tasso di “industria 4.0”, ma alla fine è riuscito anche a far partire il consueto filmino corporate da 7 minuti obbligatoriamente in inglese per farvi capire meglio di cosa parliamo (neanche avesse finito di spiegare qualche concetto di fisica quantistica). E finalmente entriamo nel cuore della case history, motivo per il quale il Nostro è stato invitato ad esporre a questo Convegno su la gestione dei talenti.
Un “progetto” durato un anno per la selezione di tre “internship” (stagisti) selezionati all’interno delle maggiori università europee attraverso un “contest” (concorso) che ha coinvolto oltre 600 neolaureati e tutto il board aziendale (la dirigenza) in una serie di assessment (interviste) che hanno portato all’individuazione dei tre giovani talenti che per sei mesi avranno l’opportunità di fare la loro prima esperienza aziendale. Alla domanda: “ma poi li assumerete?” la risposta arriva precisa come un colpo di lama spuntata dato a casaccio. “Al momento non abbiamo budget per assumere in quella business unit (dipartimento), ma in futuro chissà”
La seconda scena è ambientata in un ufficio. Anzi, in più uffici.
Marco, in 16 anni è cresciuto molto, non tanto per livello e stipendio, quanto nelle competenze acquisite con i clienti al punto tale che si è guadagnato sul campo e grazie ai risultati ottenuti, il ruolo di Key Account di una delle più importanti aziende di servizi del nostro Paese. Ogni giorno si confronta con i clienti strategici, disegna offerte molto complesse in cui i tecnicismi del prodotto incidono in modo considerevole. La configurazione di un’offerta per il suo mercato può garantire all’azienda margini elevati oppure rischiare di lavorare in perdita a causa dell’incidenza del costo delle manutenzioni.
Da circa 3 anni il direttore del suo reparto è in odore di pensione e siccome Marco è già da un pò che scalpita per ottenere un ruolo di responsabilità ufficiale, l’azienda riconoscendone tanto i risultati quanto le capacità lo mette “in posizione“, promettendo e rassicurandolo periodicamente sul passaggio di ruolo, che dicono essere niente più che una pura formalità. Dopo neanche un mese dall’ultimo colloquio, Marco è stato convocato dal suo capo diretto, il quale ha azzeccagarbugliato qualcosa relativo ad un nuovo modello di organizzazione “agile” per cui il ruolo del direttore non è più contemplato.
Le strategie cambiano velocemente a quanto pare e le visioni sono sempre più a breve termine.
Nel preciso momento in cui sto leggendo su Linkedin il post del giorno, abilmente pubblicato dal social media manager dell’azienda di Marco, che riguarda l’importanza di valorizzare i collaboratori. Seguito da quello in cui si pubblicizza un’intervista dell’ AD su un giornale nazionale a proposito di “Innovazione organizzativa, miglioramento continuo, purpose dell’impresa, formazione e welfare aziendale”.
Un minestrone ricco di additivi e poca sostanza.
Anche ad Emanuela hanno fatto lo stesso discorso.
In una delle più importanti aziende alimentari del Centro Italia, il capo di Emanuela lascerà l’azienda a marzo ed è stato proprio lui a indicarla per la sua successione e a costruire con lei un piano di crescita negli ultimi 5 anni affinchè desse continuità all’area. Evidentemente non è bastato aver lanciato progetti straordinari in cui sono state coinvolte le “unit” di tutto il mondo, aver vinto ogni anno il bonus per il raggiungimento dei risultati. Ad Emanuela è stata preferita una collega più giovane con una vision più internazionale che nessuno ha spiegato precisamente in cosa consista.
Stefano è uno dei massimi esperti di lean management.
Impegnato in una di quelle aziende di tecnologia i cui prodotti sono nelle tasche o sulle scrivanie di ognuno di noi. Recentemente ha anche scritto un libro sulle organizzazioni e viene invitato ad intervenire in convegni di grande prestigio e nelle università. Gli è stato proposto di confezionare uno di quei TEDx che possano ispirare i manager di tutto il mondo e il suo libro in 3 mesi è alla seconda ristampa. Ma la sua azienda o forse solo il suo capo, gli ha vietato di partecipare a qualsiasi tipo di evento pubblico anche solo a titolo personale.
Potrei andare avanti per ore a parlare di progetti senza senso spacciati per case history o storie di dipendenti illusi e spesati con argomentazioni senza significato (per l’appunto, “il purpose”). Per non parlare di quei career day in cui le aziende appoggiano un tavolino presidiato da risorse junior a raccogliere centinaia di cv di candidati al solo scopo di promuovere un brand, ma che alla domanda “fatturato e dipendenti?” o peggio “quali figure state cercando?” iniziano a balbettare come bambini pescati con le mani nella marmellata. Senza “purpose”, per l’appunto.
Ma vorrei fermarmi qui, per lanciare un appello ad ogni lettore ogni qualvolta sentirà parlare a sproposito di talenti da un signore che di talentuoso non ha assolutamente nulla e anzi, propone progetti costosissimi e processi che non hanno senso. Ogni volta che troverete una ricerca per “Talent Acquisition Manager” dove non viene spiegato da nessuna parte che piano di crescita viene proposto ad un candidato individuato come “talento”.
Ma soprattutto: come si riconosce un talento fra coloro che fino a ieri erano dietro un banco di scuola e quali sono le caratteristiche che deve avere un talento oltre ad essere sotto i 25 anni e costare meno di 25000 euro lordi annui?
Qual è il senso di continuare a perdere collaboratori che hanno dato il cuore per l’ azienda accompagnandoli all’uscita quando una volta li chiamavamo “talenti”?
Perché c’è un dato di fatto, misurabile e insindacabile: ci sono grandi aziende, quelle che amano raccontarsi nei convegni con le slide approvate dall’ufficio comunicazione su un formato stabilito dall’IT, che sono le prime che rendono inspiegabili i loro comportamenti. Sono quelle con le vision e le mission incorniciate nelle reception a fianco ai feticci dei Best Place to Work, i Top Employer Branding e i premi assegnati da fornitori e società di consulenza a cui hanno pagato le consulenze e si spera continuino a pagarne anche per il prossimo anno. Ma intanto diamogli un premio.
Sono quelle che amplificano i casi di successo ma nascondono i collaboratori di successo.
Sara negli ultimi 5 anni è stata la bandiera dell’innovazione della sua azienda.
Ha inventato un “job title” moderno e ci ha scritto pure un libro, vendutissimo. Non si contano i convegni, gli incontri con i ragazzi, le ospitate nelle aziende e nelle università in cui a fianco al suo nome è comparso quello della sua azienda, che nel frattempo di innovazione ne ha fatta ben poca. Per la sua azienda ha accettato anche di lavorare più lontano, innamorata com’era.
Ha reso simpatica la multinazionale di lavoro interinale per cui lavorava e le ha dato una visibilità importante a costo zero, spesso spiegando meglio dei manager strapagati, di investimenti pubblicitari e sponsorizzazioni (sempre le stesse, sempre negli stessi posti) quale fosse il vero senso del suo mercato.
Ma quando a causa di scelte strategiche si è dovuto tagliare qualche collaboratore, l’azienda innovativa ha preferito lasciarla a casa e dare spazio a chi dava meno significato, e certamente anche meno costi. In tre mesi Sara ha trovato di nuovo un lavoro, senza cercarlo.
Di talenti e significati mi sembra siano piene le slide dei convegni, ma in azienda si fa ancora fatica a trovare pareti dove proiettarle.