Nell’Unione europea la professione ha un riconoscimento giuridico, mentre nel nostro Paese la figura non è normata. Il suo lavoro di “rappresentante di interessi” è però sacrosanto, perché porta avanti le istanze di una comunità. E infatti il buon legislatore sa ascoltarlo
Si stanno svolgendo in questi giorni le audizioni riguardanti le proposte di legge in materia di disciplina dell’attività di rappresentanza di interessi. Detta in modo spicciolo si sta cercando, per l’ennesima volta, di normare l’attività di lobbying. Ma chi è e cosa fa il lobbista?
Il lobbista non è affatto un uomo misterioso affamato di potere. Non è neanche il Remy Danton di House of Cards, o meglio forse qualcuno sì. Il lobbista o rappresentante di interessi, è colui il quale veicola ad un pubblico decisore un interesse di un gruppo, di un’azienda, di un’associazione o di un circolo bocciofilo. Cerca di tradurre le esigenze di una comunità affinché queste possano avere tutela a livello normativo. Esatto, tutela normativa. Il lobbista si impegna per realizzare un impianto giuridico consono all’attività del proprio cliente o azienda, facendo parte di una categoria non normata. Cioè?
Il lobbista italiano, differentemente da quanto accade negli Stati Uniti o nella Unione Europea, non ha un riconoscimento giuridico e, come “Balto”, sa solo quello che non è. Vive nel limbo normativo dove si intersecano piccole regolamentazioni settoriali, regionali e locali ma è totalmente privo di una legge di contesto che possa dire «cosa fare ma soprattutto cosa non fare». Questo rende ancora più confusa la figura del lobbista che nel momento in cui gli si chiede «ma tu di preciso che fai?» sente un brivido scorrere lungo la schiena.
«Cosa fai nella vita?», «Faccio il lobbista». Come canta Francesco Guccini, di cui recentemente si sono festeggiati gli ottant’anni, «…e chi fa il giornalista si vergogna». Oggi la stessa frase potrebbe essere usata per poter dire «…e chi fa il lobbista si vergogna».
Si vergogna perché è associato a corruzione e malaffare e perché porta, nella usata e abusata narrativa comune, un velo nero che lo avvicina a Dart Fener senza considerare l’Anakin Skywalker che è in lui.
Vestendo gli abiti, jeans e camicia, di “rappresentante di interessi” potrei, credo a buon ragione, affermare che normare l’attività di lobbying non solo è giusta ma è un passo di civiltà. Voglio tralasciare i “salamelecchi giuridici”, le erudizioni ed il latinorum degli “istituti”, parola che al primo anno di giurisprudenza significava tutto ma che in realtà non si capiva mai fino in fondo, e portarmi su di un altro contesto. Quello che viviamo tutti i giorni, quello sociale, quello politico. Partendo da una semplice domanda. Ma il lobbista che fa?
Dal «faccio cose, vedo gente» alla realtà, ne passa eccome. Ne passano ore di studio, ne passano giorni di approfondimento, ne passano ricerche, letture ed analisi. Ne passa una buona dose di pazienza. Perché è molto più complesso capire cosa scrive il Legislatore che non cosa faccia il lobbista. Legislatore. Altra parola strana, valida risposta a tutte le domande d’esame e scritta con la maiuscola perché così diceva il “Torrente” (noto manuale di diritto privato, ndr).
Dietro queste ore passate fondamentalmente a “leggere e scrivere” c’è qualcosa che accarezza la mitologia di questo mestiere: l’associazionismo e il vivere in comune. Il lobbista rappresenta gli interessi organizzati meritevoli di tutela.
Interesse. Organizzato. Meritevole di tutela. Tre parole su cui poter trascorrere settimane di simposi, convegni, “inviti a partecipare” e congressi. Parole su cui materiale e svariate tesi di laurea, tra cui la mia, non cessano di elucubrare.
Ma io, che di giuridico ho forse solo il titolo accademico, voglio raccontare il romanticismo di queste parole. Cosa merita tutela? La libertà? Certo. Le possibilità? Ovvio. L’opportunità? Esatto. Ma di cosa? Di poter raccontare al mondo una storia. Un’idea. Così come il lobbista la racconta al proprio interlocutore. Quello che i più bravi chiamano law maker.
È tra lo svolgimento della storia e il suo epilogo che entra in scena il lobbista, che con qualche strumento tecnico racconta la sua versione o quella dell’organizzazione che rappresenta. La pone all’attenzione di chi, su quella storia, avrà il potere di aggiungere o togliere dei tasselli importanti. Tramite una norma, un ok, una legge o “un fondo dedicato”. Perché poi la poesia lascia spazio al mondo e il mondo lascia spazio al denaro.
Interesse organizzato allora? È la parte strumentale. L’organizzazione convoglia in un grande imbuto la voce di migliaia di altre storie, la compatta, la razionalizza e diventa così l’output della stessa. Portandola, appunto, con gli strumenti tecnici del rappresentante di interessi, alle orecchie del Legislatore. Che quando ascolta, assimila, dibatte, critica e osserva merita la tanto agognata lettera maiuscola.