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Le Imprese si trovano oggi a navigare nelle difficili acque dell’Era della complessità. Si tratta di un Tempo ostico e destabilizzante, che assiste al tramonto di vecchi e rassicuranti punti di riferimento e ancora non vede il sorgere di nuovi e affidabili punti fiduciali. Lo stesso concetto di complessità costituisce un interrogativo. La difficoltà nel codificare l’idea di complessità appare confermata da Edgar Morin, ritenuto il massimo studioso del fenomeno, il quale ha scritto – non senza un filo di ironia – che “la parola complessità esprime contemporaneamente la situazione contorta della cosa designata e l’imbarazzo di chi parla, la sua incertezza nel determinare, chiarire, definire, e, infine, la sua impossibilità a farlo” (La sfida della complessità, 2021, 27). Conseguentemente “la parola complessità, nel suo uso banale, significa tutt’al più “non è semplice, non è chiaro, non è bianco né nero, non bisogna fermarsi alle apparenze, ci sono dubbi, non si sa bene” (ibidem).

Alessandro Cravera, in “Allenarsi alla complessità”, richiamando “La sfida della complessità” di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti, scrive che “si ha complessità quando sono inseparabili i differenti elementi che costituiscono un tutto” (2021,19).

Ai fini del presente scritto possiamo, con grossolana approssimazione, individuare l’essenza della complessità nella straordinaria quantità di interconnessioni e di interazioni proprie del Contemporaneo, caratterizzate dal sovrapporsi e dal contaminarsi di elementi molto diversi tra di loro, tradizionalmente viaggianti su binari autonomi e distinti.

Nella Società dei nostri giorni, infatti, si vive costantemente immersi in un flusso ininterrotto di messaggi, stimoli e informazioni, con un progressivo assottigliamento dei confini tra lavoro e tempo libero, economia e cultura, politica e comunicazione, verità e narrazione, scienza e spettacolo, etc.

Questo fenomeno ha un impatto forte sull’Impresa, che deve affrontare grandi e rapidi cambiamenti, sia nel suo funzionamento interno sia nelle sue funzioni esterne.

Sul versante interno, l’azienda diventa un vero e proprio crocevia di dinamiche e di materie diverse e distanti, alcune delle quali tradizionalmente estranee al suo ambito: dalla comunicazione all’arte, dal welfare alla governance. Sul versante esterno, l’Impresa è chiamata a svolgere un ruolo su temi che solo pochi lustri addietro difficilmente sarebbero stati associati alla mission aziendale: dall’ambiente al sociale, dalla cultura alla politica.

Le profonde trasformazioni che oggi interessano l’azienda hanno origini diverse e solo parzialmente sovrapponibili. Una spinta importante, nell’allargamento del raggio di azione dell’Impresa, proviene senz’altro dai dettami della corporate social responsability, ossia da quella innovativa visione che vede le aziende come fondamentali player anche nell’ambito del sociale, non in funzione del profitto, ma a favore dell’intera collettività. Il concetto di corporate social responsability, in buona sostanza, si traduce in un inedito dovere dell’Impresa di andare oltre quelli che sono i suoi interessi economici e di occuparsi anche del benessere dell’intera collettività.

L’azienda, poi, oggi deve ripensarsi e riorganizzarsi alla luce del pervasivo paradigma della sostenibilità, punto di snodo ineludibile per le imprese che vogliono mantenere e alimentare la propria competitività sui mercati.

La sostenibilità, come noto, rappresenta per sua stessa natura un fenomeno dalla natura articolata e complessa, declinandosi e dispiegando i suoi effetti lungo tre distinti versanti: quello ambientale, quello economico e quello sociale. Così, nella valutazione di un’azienda, rivestono un peso sempre più determinante i cosiddetti fattori extra finanziari, usualmente riassunti con la formula ESG: Environmental, Social e Governance.

Luca Dal Fabbro, in “ESG, La Misurazione della Sostenibilità” (2022), acutamente illustra “cosa sono i fattori ESG: 

Environmental – I fattori ambientali riguardano il mondo che ci circonda: rifiuti e inquinamento, esaurimento delle risorse naturali, preservazione della biodiversità, emissione di gas serra, deforestazione, cambiamento climatico.

Social – I fattori sociali riguardano come le aziende e gli Stati trattano le persone: relazione con i dipendenti, condizioni di lavoro, compreso il lavoro minorile e la schiavitù, finanziamento di progetti o istituzioni che serviranno le comunità povere e sottosviluppate a livello globale, salute, sicurezza, gestione dei conflitti sociali.

Governance – I fattori di governance racchiudono il complesso delle strutture, delle regole e delle strategie che presiedono alla guida di un’azienda o di uno Stato: strategia fiscale, remunerazione dei dirigenti, donazioni e pressioni politiche, strategie anti-corruzione, diversità e struttura di governo aziendale e statale” (19).

La sopravvenuta varietà ed eterogeneità delle ricadute esterne dell’attività d’impresa ha, negli ultimi anni, trovato una sua interessante coniugazione nel concetto di Impact Economy.

L’Impact Economy, in estrema sintesi, rappresenta un modello economico che aggiunge ai due tradizionali pilastri del rischio e del rendimento quello dell’impatto, tanto ambientale quanto sociale.

Giovanna Melandri, da tempo impegnata sull’argomento, ha dichiarato in una intervista a Pandora: “L’impact economy è il paradigma che consente al capitalismo una exit strategy. Queste nuove direzioni si definiscono con l’ottimizzazione non solo del rischio e del rendimento, ma aggiungendo a queste due dimensioni quella dell’impatto. L’impatto è il punto centrale e – volendo essere provocatori e lanciando uno spunto che meriterebbe un approfondimento ulteriore – ciò che importa non è tanto se un’organizzazione economica è profit o non profit, quello che importa sono la generatività e l’impatto che produce” (27 marzo 2022).

Dice la medesima Autrice, nel saggio “Ripartire Insieme”, firmato insieme a Isabella Guanzini: “Per generare il cambiamento profondo che serve non possiamo che dotarci di una lente a tre dimensioni: a quelle tradizionali del rischio e del rendimento finanziario bisogna aggiungere, in maniera strutturale, definitiva e universale quella dell’impatto generato, sia ambientale che sociale, una tripla elica, dunque: rischio-rendimento-impatto” (2023, 24).

Scrive Ronald Cohen: “Il termine “impatto sociale” è riferito all’incremento sia del benessere degli individui e delle comunità, sia della loro capacità di avere una vita produttiva. Rappresenta un autentico progresso sociale: istruire i giovani, dare da mangiare agli affamati, curare i malati, creare posti di lavoro e fornire ai poveri il necessario per vivere” (Impact, 2022, 19).

E aggiunge: “L’espressione “impatto ambientale” significa proprio quello che suggerisce: sono le conseguenze positive per il pianeta delle attività delle imprese e degli investimenti. In parole povere, stiamo preservando il mondo per consegnarlo alle generazioni future in modo che possano beneficiarne e affidarlo a loro volta a quelle successive” (ibidem).

Le funzioni svolte dalle Imprese nell’ambito della società sono ormai talmente vaste, centrali e trasversali che ci si spinge addirittura a ragionare su ipotetiche e inesplorate forme di impegno delle aziende nella gestione della cosa pubblica.

Personalmente, in un articolo pubblicato alcuni mesi addietro su Lanterna, sono giunto a ipotizzare – in modo largamente provocatorio – una assunzione di responsabilità diretta da parte delle Imprese nel campo della Politica:

“Le Aziende oggi non si limitano a guardare al proprio business, ma sono capaci di visioni lunghe, di spinta ai processi di innovazione, di attenzione alle esigenze del sociale. Le Imprese, a ben guardare, sono già chiamate – sotto vari aspetti – ad impegnarsi per realizzare una società diversa, che sia più giusta, equa e sostenibile.

È ora che le Aziende dismettano il ruolo di meri osservatori delle devianze e delle patologie del Palazzo e che vengano coinvolte in modo trasparente nei meccanismi della Cosa Pubblica. Per portarvi, nel superiore interesse di tutti i Cittadini, le proprie competenze, le proprie visioni, la propria forza, il proprio coraggio e la propria tenacia” (Imprese e Palazzo: un nuovo ruolo per le Aziende in Politica?).

Vitttorio Cino e Andrea Fontana, in “Corporate Diplomacy”, hanno scritto: “la gente vuole che i brand prendano posizione e incidano concretamente sulla società, in sostituzione o a integrazione di quanto fanno la politica e istituzioni sempre più deboli” (2019, 59).

Gli stessi autori, parlando di “brand democracy”, sottolineano che “sempre più i brand sono sollecitati ad andare oltre i semplici interessi aziendali per partecipare da protagonisti alla costruzione di una società migliore” (ibidem).

L’Impresa, insomma, nell’Economia della complessità, è chiamata a grandi e destabilizzanti sfide, per vincere le quali deve ridefinire al tempo stesso la sua organizzazione interna e le sue funzioni esterne, con entrambi i versanti caratterizzati da un intenso intersecarsi e contaminarsi di elementi diversi ed eterogenei.

Il Design, in questo contesto, assume in Azienda una straordinaria centralità e diventa uno strumento di insostituibile utilità per governare le spinte e gestire le esigenze proprie della complessità.

Da alcuni lustri, infatti, il Design è andato a sua volta modificando, ampliando e diversificando le funzioni svolte nell’ambito dell’Impresa, con riferimento sia al suo interno (i meccanismi e le logiche di funzionamento) sia al suo esterno (i risultati e le ricadute della sua attività).

Ho già scritto che “oggi il Design ha una natura composita e rappresenta sostanzialmente un metodo di lavoro, trasversale e multidisciplinare, finalizzato ad apportare Innovazione nei campi dell’Estetica, della Tecnologia e della Semiotica” (Il Design Crisalide, 2019, 163).

In modo più brillante, con afflato quasi romantico, Walter Da Silva, nella Prefazione della medesima opera dice che “il Design è un modello culturale in evoluzione costante. Sviluppa sistemi analogici e digitali, estetici e poetici. Definisce le strategie d’impresa ed è al centro delle decisioni. Rende meno ambigui i prodotti dando un valore aggiunto e ripetuto nel tempo, per un reciproco beneficio tra cittadino/utente e impresa/paese” (ibidem, 20).

Il Design contemporaneo, insegna Francesco Trabucco, interviene a “tradurre opportunità tecnologiche in nuove qualità comunicative, estetiche, prestazionali ed ergonomiche dei prodotti industriali”; “rende percepibili i valori qualitativi, sia tecnici sia semantici del prodotto” (Trabucco, Design, 2015, 31, 135).

Le Imprese, grazie al Design, possono oggi affrontare con successo le sfide che la complessità pone sul loro cammino, coniugando in modo efficace e virtuoso economia e cultura, ambiente e finanza, comunicazione e sociale.

Tornano così alla mente, quasi profetiche, le parole di Flaviano Celaschi, che già tre lustri addietro ebbe a definire il Design come “mediatore di saperi”, “come disciplina che si insedia a metà strada tra quattro sistemi di conoscenze (in-put) tra di loro difficilmente dialoganti: le “humanities” e la tecnologia/ingegneria su un asse, e l’arte/creatività e l’economia e la gestione su un altro asse perpendicolare al primo” (Il Design come mediatore di saper, in Uomo al centro del progetto – Design per un nuovo umanesimo, 2008, 20).

Non dobbiamo mai dimenticare che, per ricordare una celebre frase di Pietro Nenni, “le idee camminano sulle gambe degli uomini”.

Affinché il Design possa esprimere, nell’Impresa e nella Società, tutte le proprie potenzialità e svolgere le importanti funzioni delle quali abbiamo detto, è dunque necessario creare, diffondere e alimentare conoscenze e competenze adeguate.

Bisogna che gli operatori del Design assumano piena consapevolezza dell’importanza degli innovativi compiti ai quali sono chiamati e che si dotino degli strumenti più adeguati per portarli avanti con successo.

Nel campo del Design, quindi, si pone in modo particolare l’urgenza e la necessità di una formazione larga, profonda, trasversale e multidisciplinare, che ricomprenda materie molto varie, tali da includere Tecnologia e Diritto, Comunicazione e Cultura.

Walter Da Silva, nella sua Prefazione a Il Design Crisalide, ha stigmatizzato con parole di fuoco la leggerezza e la superficialità di un diffuso approccio al mondo del Design:

“La parola Design è abusata, sfruttata e maltrattata. Utilizzata come una maschera carnacialesca per coprire lacune culturali e professionali inconfessabili. Un opportunismo trasformista che lascia attoniti. In questa nostra epoca ex artisti dello spettacolo, sportivi, modelle, cantanti, blogger, politici, piccole e grandi star, marketing manager e persino semplici frequentatori di social network, diventano e si autoproclamano designer, senza pudore e senza rispetto verso una delle professioni più complesse e articolate del mondo. Questi signori (che ovviamente non si trasformano in avvocati, medici, chirurghi, etc.) sono mutanti prefabbricati dal marketing e dal consumo sfrenato e superficiale. Sono dannosi.” (op. cit., 18).

Si tratta di una posizione da condividere in pieno.

L’importanza e la centralità che l’Epoca della complessità assegna al Design implicano la necessità di consapevolezze nuove, di comportamenti responsabili e di competenze effettive, solide e avanzate.

Soltanto così, poggiando su un adeguato e contemporaneo sostrato conoscitivo, il Design potrà compiutamente assolvere, nell’Impresa e nel Secolo, al suo fondamentale “compito di dare forma al linguaggio della modernità” (Francesco Trabucco, Design, 2015, 31).

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