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L’estate scorsa un articolo della Reuters riportava un dato sorprendente: uno statunitense su quattro stava boicottando un prodotto o un’azienda che aveva comprato o finanziato in passato. C’erano anche numeri più dettagliati su quali fossero le persone più inclini a partecipare ai boicottaggi: quelle che guadagnano almeno un milione di dollari all’anno (37 per cento); chi fa parte della generazione Z, cioè i nati a partire dalla metà degli anni novanta (32 per cento); i millennials, nati tra l’inizio degli anni ottanta e la metà dei novanta (28 per cento); gli elettori democratici (31 per cento) un po’ più di quelli repubblicani (24 per cento).

Ho ripensato a quei dati di recente, leggendo articoli sul boicottaggio contro la Bud Light, la più famosa birra statunitense. L’iniziativa è cominciata all’inizio di aprile, quando si è saputo che il marchio stava per lanciare una collaborazione con l’influencer transgender Dylan Mulvaney. I consumatori conservatori, che costituiscono una buona fetta del target di quella birra, hanno smesso di comprare Bud Light, fomentati dagli influencer di destra. Celebrità come il cantante Kid Rock e l’ex giocatore di football Trae Waynes hanno pubblicato online dei video in cui sparavano a delle casse di Bud Light. Non bere quella birra è diventata una sorta di dimostrazione di fedeltà ai valori tradizionali. In poche settimane le vendite sono crollate. La destra americana, quella del Make America great again, ha ottenuto il risultato paradossale di portare la Modelo Especial, una birra prodotta in Messico, in cima alle classifiche delle birre più vendute negli Stati Uniti.

Al di là delle sue implicazioni economiche e politiche, questa vicenda è interessante perché può aiutare a capire il rapporto degli americani con i boicottaggi, quindi anche con il consumo e l’attivismo politico. Come ha scritto lo storico Lawrence Glickman, i boicottaggi fanno parte della storia e della cultura americana quanto la torta di mele. Gli statunitensi hanno cominciato a usare le tattiche di consumo nell’ambito delle loro lotte politiche ancora prima di potersi veramente definire statunitensi. Negli anni sessanta del settecento le colonie cominciarono a boicottare i prodotti commerciati dalle aziende britanniche (in particolare il tè proveniente dalla Cina e venduto dalla Compagnia britannica delle Indie orientali), in risposta all’aumento delle tasse stabilito dal parlamento del Regno Unito. Quelle iniziative contribuirono ad accelerare gli eventi che portarono alla guerra rivoluzionaria e all’indipendenza.

Dopo la nascita degli Stati Uniti emerse un sentimento ambivalente nei confronti dei boicottaggi come forma di protesta: da un lato venivano esaltati per aver contribuito alla conquista della libertà di un popolo oppresso, dall’altro erano considerati una pratica destabilizzante e pericolosa. Il motivo è facile da immaginare: in un paese che andava rapidamente verso un’economia basata sulla libera impresa e il consumo ma era ancora molto disuguale, i gruppi subordinati potevano cercare di colpire le aziende – smettendo di comprare i loro prodotti – per combattere i potentati economici e politici. In questa visione l’acquisto di beni non era una decisione privata, ma un atto fondamentalmente sociale con conseguenze di vasta portata.

Di fronte a questa dinamica, i gruppi di potere temevano quello che poteva succedere nell’immediato (perdere soldi) e ancora di più nel lungo periodo (cambiamenti sociali radicali). Glickman riporta molti commenti critici di giornali e industriali contro i boicottaggi in varie epoche storiche: “Nel 1887 Philip D. Armour, imprenditore del settore della carne di Chicago, bersaglio di un boicottaggio, disse che ‘questa pratica non è un’istituzione americana’, riferendosi al gran numero di lavoratori immigrati che partecipavano alla protesta”. Qualche anno dopo anche il Los Angeles Times scrisse che il boicottaggio è un’“istituzione antiamericana”. Durante il movimento per i diritti civili, negli anni sessanta del novecento, i boicottaggi organizzati dagli afroamericani furono denunciati non solo come una forma di terrorismo economico, ma anche come un’arma di guerra interrazziale.

Una cultura politica

Gli sforzi per definire l’attivismo dei consumatori come una pratica aliena alla cultura americana spesso non funzionavano, proprio perché in realtà era molto radicata nella storia nazionale. Nel corso degli anni i boicottaggi sono stati usati in molte lotte sociali e hanno fondamentalmente plasmato la cultura politica nazionale, collegando gli individui a cause lontane. Gli esempi più importanti riguardano il razzismo. Ci vengono subito in mente i boicottaggi degli anni sessanta del novecento, ma in realtà ce ne erano stati molti, altrettanto dirompenti, nei decenni precedenti. Dopo la guerra rivoluzionaria e prima dell’abolizione della schiavitù, nacque un movimento chiamato “free produce”, che incoraggiava i consumatori a boicottare i prodotti fabbricati dagli schiavi.

Attingendo all’umanitarismo del tempo, gli attivisti cercavano di far passare l’idea che i consumatori non potessero considerarsi innocenti rispetto al crimine della schiavitù. Al contrario, erano più colpevoli dei proprietari di schiavi, che avrebbero abbandonato la schiavitù se non avessero avuto un mercato per i beni prodotti con quella forza lavoro. “In quest’ottica”, spiega Glickman, “gli acquirenti dovevano essere intesi come datori di lavoro responsabili delle condizioni di chi produceva i beni che, di fatto, commissionavano. I sostenitori del movimento promossero anche una nuova concezione dei consumatori come forza politicamente potente. Si basavano sul presupposto introdotto dall’economista Adam Smith, secondo cui ‘il consumo è l’unico fine di tutta la produzione’ e prendevano sul serio le rivendicazioni morali alla base di questa visione”. In sostanza cercavano di appropriarsi del concetto di libertà in campo economico (il consumatore ha il diritto di comprare quello che vuole) e di farlo coincidere con una rivendicazione sociale collettiva.

Molto tempo dopo, negli anni sessanta e settanta del novecento, una strategia simile fu usata dalla United farm workers union, il sindacato che si batteva per i diritti degli immigrati che lavoravano nei campi dell’ovest del paese. Disse la leader sindacale Dolores Huerta: “Ogni vera espressione di solidarietà deve essere accompagnata dal tentativo di punire gli industriali del settore agroalimentare”. Poiché ai lavoratori agricoli venivano negati i diritti e le tutele di cui godevano gli altri lavoratori in base alla legge, i boicottaggi non solo erano legali ma erano anche una delle poche armi potenti a loro disposizione. Quelle azioni, in particolare quella contro i produttori d’uva, portarono risultati importanti.

Boicottaggio organizzato dai lavoratori del settore agricolo in California, settembre 1968. - Denver Post/Getty Images
Boicottaggio organizzato dai lavoratori del settore agricolo in California, settembre 1968. (Denver Post/Getty Images)

Questa ricostruzione storica aiuta a capire perché i boicottaggi sono ancora frequenti e perché in molti casi funzionano ancora. Brayden King della Kellogg school of management ha studiato i casi di 133 boicottaggi avvenuti tra il 1990 e il 2005. E ha scoperto che un quarto delle aziende boicottate ha effettivamente modificato il proprio comportamento in risposta alle proteste. King ha spiegato anche che i boicottaggi oggi ottengono risultati in modo diverso rispetto al passato: “Quelli efficaci in genere hanno avuto successo non facendo diminuire le vendite di un prodotto ma concentrando l’attenzione dei mezzi d’informazione sulle aziende, danneggiando la loro immagine pubblica e facendo scendere il prezzo delle loro azioni”.

Ci sono altre differenze importanti tra i boicottaggi di oggi e quelli del passato, e capirle può aiutare anche a comprendere come sono cambiate le dinamiche sociali e politiche negli Stati Uniti. Facendo un confronto tra le campagne attuali (comprese quella contro la Bud) e quelle del passato citate in precedenza, si nota che le prime sembrano avere obiettivi limitati, cioè si esauriscono nel momento in cui riescono a infliggere un danno, mentre le seconde erano concepite come iniziative di trasformazione sociale. Questa discrepanza è dovuta probabilmente a una serie di fattori. Oggi grazie ai social network è molto più facile diffondere un invito a boicottare un marchio (bastano i post di poche persone molto influenti) e non serve un’organizzazione sindacale e politica nel mondo reale; di conseguenza la campagna raggiunge subito un grande pubblico, si esaurisce altrettanto in fretta e chi vi ha partecipato si concentra verso nuovi obiettivi (nel caso dei conservatori le tante aziende statunitensi considerate troppo “woke”).

Anche la polarizzazione politica potrebbe aver dato un contributo. Sia a destra sia a sinistra, i boicottaggi sembrano diventati un modo per segnare una piccola vittoria nell’ambito di una più ampia guerra culturale. L’ingresso in politica di Donald Trump potrebbe aver accelerato questo meccanismo. Glickman ha scritto che i boicottaggi sono aumentati dopo la sua vittoria, nel 2016. Non solo perché Trump è un imprenditore che nella sua carriera ha provato a inserirsi praticamente in ogni settore commerciale, ma anche perché la sua strategia politica è stata fondamentalmente il tentativo di vendere un marchio, il marchio Trump. “Questo tentativo di monetizzare la presidenza e di convincere i consumatori a sostenerlo politicamente ha anche dato ai suoi critici una possibilità per attaccarlo, come dimostra la campagna #grabyourwallet, il boicottaggio contro i prodotti della Trump Organization lanciato nel 2016”.

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