Facebook (di nuovo) in crisi: atto terzo
La terza grande crisi di Facebook: problemi tecnici, whistleblower e indagini giornalistiche mettono “al palo” la reputazione del colosso di Menlo Park
La terza grande crisi di Facebook: problemi tecnici, whistleblower e indagini giornalistiche mettono “al palo” la reputazione del colosso di Menlo Park
Non è stata una settimana facile, per Mark Zuckerberg e per la sua creatura digitale, quella iniziata con le parole di Frances Haugen, la ex manager di Facebook che ha consegnato una ricerca interna dell’azienda alle autorità del Congresso USA e al Wall Street Journal, ricerca che illustra il modo in cui il social network gestirebbe i contenuti online e i rischi per gli utenti, a cui poi è seguito anche il down più lungo della storia dei Social, durato circa 6 ore, e che ha coinvolto Facebook, Messenger e Instagram in tutto il mondo, e anche gli stessi dipendenti di Menlo Park, con telefoni aziendali e badge fuori uso.
Facebook non è certamente nuova a crisi reputazionali di ampia portata: è stata a più riprese coinvolta in scandali che hanno avuto risonanza mediatica mondiale, a partire da quello – forse il più noto di tutti – di Cambridge Analytica, fino alle influenze russe sulle elezioni 2016 in USA, evento che ha visto l’azienda di Menlo Park essere lo strumento (inconsapevole?) di manipolazione dell’infosfera da parte dell’intelligence di Mosca. Una crisi strisciante, quella che coinvolge l’azienda, che ormai, per la palese trascuratezza dei suoi vertici, si è fatta cronica, e oggi, nel suo terzo atto, vede esplodere la somma di tutte le criticità accumulate negli ultimi anni di gestione.
Il colosso americano vanta circa 2,8 miliardi di utenti mensili attivi (1,84 miliardi di utenti attivi ogni giorno), e si riconferma come la piattaforma social preferita dagli utenti in rete raggiungendo il 59% dei fruitori di internet. Fin dalla sua creazione, Facebook ha dominato il mondo dei social media, nonostante diversi competitor come Instagram (poi acquisito da Facebook), Snapchat o Twitter, e più recentemente TikTok, sia siano fatti strada con buoni risultati. Facebook non manca certamente di meriti: aver dato l’opportunità a persone di ritrovarsi sulla rete, rendere possibile e semplice il contatto tra utenti lontani geograficamente, specie nei Paesi più remoti, e rafforzare l’idea di community virtuale, riuscendo ad evolversi nel corso degli anni grazie alla capacità di intercettare bisogni reali degli utenti online. Il successo di Facebook, soprattutto se confrontato con alcuni suoi predecessori come MySpace, è infatti dovuto alla sua capacità di rinnovarsi costantemente nel rispetto delle più attuali tendenze, così da riflettere le esigenze di un mercato in continua evoluzione. Per rendere il Social davvero accessibile a chiunque, Facebook si sta prodigando in nuovi sforzi, come il progetto – voluto da Mark Zukerberg in persona, e partito già nel 2015 – per rendere la piattaforma accessibile in formato light ai Paesi in Via di Sviluppo anche in caso di collegamento precario, e per la creazione di un Web semplificato ed economico per tutti, al quale accedere direttamente attraverso il proprio profilo Facebook.
Ora, riavvolgiamo per un attimo il nastro, ed esaminiamo le fasi del terzo atto della crisi dell’impero dei social network, accusato di essere troppo invasivo, opaco e di non investire sufficienti risorse per tutelare la salute fisica e mentale dei propri utenti, mettendo inoltre addirittura a rischio la sicurezza nazionale.
Come ricostruisce bene un articolo di Rolling Stone la nuova ondata di critiche a carico di Facebook è iniziata il 13 settembre scorso, quando il Wall Street Journal ha pubblicato la prima di una serie di inchieste denominata “The Facebook Files”, che hanno trascinato l’azienda al centro di un crescendo di accuse, causando una vorticosa reazione a catena di rivelazioni scomode e di udienze parlamentari al Congresso USA.
La whistleblower dietro le rivelazioni del WSJ è la Data-engineer Frances Haugen, che ha lavorato come product manager nel team Integrità Civica di Facebook, dal 2019 fino al suo smantellamento, all’inizio del 2020, disposto – secondo i ben informati – proprio da Zukerberg.
Spaventata dall’idea di venir in qualche modo coinvolta in faccende legate agli standard etici dell’azienda – a suo dire del tutto inadeguati – relativi al contrasto alla diffusione di disinformazione e fake news, la Haugen ha deciso dare le sue dimissioni dalla compagnia; però, prima di riconsegnare il suo badge alla sede di Menlo Park, la funzionaria ha fatto copie di un’enorme quantità di documenti interni, con l’obiettivo di far poi conoscere al mondo cosa succede veramente dietro alla facciata estremamente opaca del gigante dei Social.
La data engineer ha poi condiviso tutto il materiale con il Wall Street Journal, con la Securities and Exchange Commission, l’ente federale statunitense preposto alla vigilanza della borsa valori, e con la Commissione del Congresso statunitense che sta attualmente indagando sul ruolo della piattaforma Social nella rivolta del 6 gennaio scorso al Campidoglio, successiva alla vittoria di Joe Biden alle elezioni Presidenziali e all’uscita di scena di Donald Trump.
L’inchiesta-scandalo del Wall Street Journal rivela, attraverso un’appassionante narrazione, che Facebook Inc. era da tempo a conoscenza di una serie di gravi criticità che erano rimaste totalmente ignorate dall’amministrazione pubblica americana; l’ampia documentazione condivisa dalla Haugen ha reso note una lunga serie di importanti questioni, che peraltro non hanno fatto altro che confermare quello che studiosi, analisti e giornalisti sospettavano da tempo. Riassumiamo quindi alcune delle più rilevanti – e francamente sconcertanti – evidenze riportate dalla monumentale inchiesta del WSJ:
“Quello a cui ho assistito più e più volte in Facebook, è che quando c’erano conflitti di interesse tra ciò che era buono per l’opinione pubblica, e ciò che era buono per Facebook, Facebook ha scelto ripetutamente di massimizzare i propri interessi, facendo più soldi”, ha affermato la Haugen, che ha parlato pubblicamente della sua denuncia alle autorità Federali americane nel corso di un’intervista rilasciata alla trasmissione “60 Minutes” della CBS.
In un’udienza di tre ore con i federali, la Haugen ha accusato i suoi ex datori di lavoro di spingere per massimizzare l’interazione sociale sulle sue piattaforme “a tutti i costi”, anche quando tali interazioni hanno esacerbato – ad esempio – la dipendenza, il bullismo e i disturbi alimentari.
Facebook avrebbe poi “nascosto una ricerca che documentava come i suoi servizi colpiscono in particolare i bambini”, esponendoli ad episodi di bullismo 24 ore su 24, e a contenuti che influiscono negativamente sulla loro salute mentale.
La giovane dirigente ha inoltre rivelato la particolare decisione presa dall’azienda di chiudere, poche settimane dopo le elezioni americane del 2020, il dipartimento di Facebook chiamato Integrità Civica, che aveva lo scopo di garantire la correttezza del processo democratico e di contrastare la disinformazione: “In pratica hanno detto: ‘Bene, abbiamo superato le elezioni. Non ci sono state rivolte. Ora possiamo sbarazzarci dell’integrità civica’. E un paio di mesi dopo abbiamo avuto la rivolta. Quando si sono sbarazzati di Integrità civica, è stato il momento in cui mi sono detta ‘Non mi fido del fatto che siano veramente disposti a investire in ciò che serve per impedire a Facebook di essere pericoloso’”, ha affermato la Haugen.
Accuse obiettivamente gravi, comprovate da innumerevoli file e documenti ora nelle mani delle autorità statunitensi. Come ha reagito il fondatore del social network a questo vero e proprio polverone mediatico? Replicando il modus operandi – poco efficace, e ampiamente disallineato con le buone prassi della crisis communication e del crisis management – già utilizzato durante lo scandalo di Cambridge Analytica: Mark Zuckerberg è stato di poche parole, rispondendo solo alcuni giorni dopo con un laconico, vuoto e inefficace “Quanto è stato detto non ci rappresenta”.
Inoltre in una nota ai dipendenti pubblicata su Facebook, Zuckerberg ha scritto: “La maggior parte di noi semplicemente non riconosce l’immagine falsa che viene dipinta dell’azienda. La questione secondo cui pubblichiamo deliberatamente contenuti che fanno arrabbiare le persone per profitto è profondamente illogica”, ha aggiunto, perché agli inserzionisti – a suo dire – non piace apparire accanto a contenuti polarizzanti.
Non si è fatta attendere anche la replica ufficiale dell’azienda che ha dichiarato attraverso il suo portavoce: “Ogni giorno i nostri team devono trovare un equilibrio tra garantire la libertà di espressione di miliardi di persone e mantenere la nostra piattaforma un luogo sicuro e positivo. Continuiamo ad apportare miglioramenti significativi per contrastare la diffusione della disinformazione e dei contenuti dannosi. Affermare che incoraggiamo la diffusione di questi contenuti e che non prendiamo provvedimenti è semplicemente falso”. E ha aggiunto: “Profitto prima della sicurezza? La crescita delle persone o degli inserzionisti che utilizzano Facebook non ha alcun significato se i nostri servizi non vengono utilizzati in modi che avvicinano le persone. Ecco perché stiamo investendo nella sicurezza così tanto da impattare i profitti. Proteggere la nostra comunità è più importante che massimizzare i nostri profitti. Affermare che chiudiamo un occhio sui feedback che riceviamo ignora del tutto questi investimenti, come le 40.000 persone che lavorano sulla sicurezza in Facebook e i nostri investimenti che, dal 2016, ammontano a 13 miliardi di dollari”.
A seguito delle dichiarazioni della Haugen e della scomoda inchiesta del WSJ i membri senior della Commissione per il commercio del Senato americano stanno passando al vaglio una serie di leggi volte a porre sotto maggiore controllo Facebook e gli altri grandi gruppi della Silicon Valley. Richard Blumenthal, il Presidente democratico della Sottocommissione per la protezione dei consumatori del Senato, ha dichiarato ai giornalisti dopo un’udienza: “C’è stato un grande sostegno bipartisan, oggi. Penso che sia di buon auspicio per aver effettivamente portato la nuova legislazione al traguardo. La Dottoressa Haugen ha fornito speranza e incoraggiamento ai genitori di tutto il paese, affermando che si può fare qualcosa per aiutare a proteggere i bambini”. Il Congresso sta prendendo in considerazione una serie di leggi per rendere ancor più rigida la legislazione per le grandi aziende tecnologiche: le proposte includono protezioni federali sulla privacy, limitazioni all’immunità legale di cui godono le società di Social media e diversi progetti di legge che rafforzerebbero la forza delle policy a favore della concorrenza negli Stati Uniti, per agire contro queste società. Una delle riforme che con maggiore probabilità passerà, a detta degli esperti, è un ampliamento del Children’s Online Privacy Protection Act, uno strumento legislativo per rendere illegale la raccolta di informazioni personali su minori di 13 anni senza il consenso dei genitori.
Sul tema dei bambini, Facebook ha affermato che i risultati dello studio sull’effetto dell’uso dei social nei bambini, citato prima sarebbero stati presentati in modo fuorviante, rifiutandosi però di rendere disponibile alle autorità la ricerca citata nei Facebook Files (anche se il vicepresidente, Nick Clegg, ha fatto sapere che nei prossimi giorni fornirà “una sintesi” di quel documento).
Come riportato da un articolo su Wired, tra le prese di posizione più vigorose da parte dei rappresentanti democratici a seguito delle rivelazioni scioccanti sul tema minorile c’è la richiesta avanzata a Facebook di rinunciare al lancio di Instagram Kids, una versione del popolare Social ideata per i minori di 13 anni: solo dopo le forti pressioni ricevute, l’azienda ha annunciato di avere interrotto per il momento lo sviluppo dell’App che, sostiene Facebook, aiuterebbe invece a proteggere i bambini “separandoli dagli adulti online”. In realtà, l’argomento utilizzato dall’azienda come giustificazione è capzioso: basterebbe richiedere l’upload del PDF di un documento di identità all’atto dell’iscrizione sulla piattaforma, formalità richiesta invece per accedere a diversi servizi di backoffice come l’assistenza clienti di secondo livello, per non far accedere i minori ai propri servizi; perché Facebook non lo faccia, resta un mistero.
Tra le proposte di legge che potrebbero passare al Congresso a seguito dell’inchiesta del WSJ vi è anche una riforma in senso più stringente della Sezione 230 del Communications Decency Act, che stabilisce che le società di Social media possano essere citate in giudizio per i contenuti che gli utenti pubblicano sulle loro piattaforme anche nel caso in cui questi vengano moderati.
Inoltre come evidenziato da Michele Mezza, autorevole studioso italiano sui temi degli algoritmi digitali, a seguito della denuncia dei comportamenti discriminatori e fortemente speculativi del social network di Mark Zuckerberg da parte dell’ex dirigente Haugen, le due principali animatrici della nuova normativa europea Alexandra Geese e Christel Schaldemose hanno chiesto esplicitamente un controllo pubblico sugli algoritmi dei Social network, algoritmi che condizionano concretamente il modo in cui miliardi di persone percepiscono la società, la politica, le proprie relazioni personali e professionali e in generale la stessa vita.
Finora la maggior parte di queste riforme ha faticato a ottenere un appoggio politico sufficiente per essere portate al voto, ma gli attivisti, e alcuni esperti, ritengono che la testimonianza di Haugen – e la reazione a catena generata a seguito di essa, tanto che si parla già ovunque di effetto Haugen – potrebbe essere il propulsore decisivo per cambiare finalmente la situazione.
Lo scenario per Facebook appare, fin qui, assai grave. Ma non è finita qui, anzi.
Il vaso di Pandora è stato aperto, e alle rivelazioni della Haugen e del WSJ si sono aggiunte nuove inchieste di altri importanti quotidiani statunitensi.
Secondo quanto riporta New York Times, Mark Zuckerberg, ha personalmente approvato il mese scorso una nuova iniziativa dal nome in codice Project Amplify.
Il progetto, predisposto in una riunione interna nel gennaio scorso, aveva uno scopo specifico: utilizzare il News Feed di Facebook per mostrare alle persone storie positive sul social network, al fine, presumibilmente, di bilanciare le notizie pregiudizievoli da punto di vista reputazionale. La strategia prevedeva la diffusione di notizie a favore di Facebook – alcune delle quali scritte dalla società stessa! – con lo scopo di migliorare l’immagine del social network agli occhi dei suoi utenti.
Project Amplify nasce anche in risposta alla frustrazione sempre maggiore dei dirigenti di Facebook Inc. – stando a quello che riportano le fonti del New York Times – infastiditi dal fatto che l’azienda ricevesse un maggior controllo dalle autorità rispetto Google o Twitter. Attribuendo l’attenzione dei media e degli enti regolatori al fatto che Facebook avesse scoperto più volte il fianco attraverso le scuse (sic!) e l’accesso a dati interni, il gruppo ha promosso l’idea di utilizzare il News feed degli utenti per promuovere notizie positive sull’azienda, nonché per la pubblicazione di annunci collegati ad articoli favorevoli su Facebook. Nello stesso mese, il team di comunicazione ha discusso i modi in cui i dirigenti possono essere “meno concilianti” nel rispondere alle crisi, stabilendo che ci sarebbero state “meno scuse” da parte di Facebook, con ciò ostinandosi a contraddire, una volta di più, tutte le buone prassi di reputation management e crisis communication.
Le scuse non condizionate, com’è ben documentato nella letteratura specialistica sul crisis management, sono il solvente universale di ogni crisi reputazionale. Potrà infatti apparire paradossale, ma negli ultimi anni – complice l’affermarsi di una virata verso il web 2.0, con un elevato grado di partecipazione/interazione tra gli utenti – quella delle scuse non condizionate è la strategia che si è rivelata in assoluto più efficace: smorza le polemiche, smussa le armi ai giornalisti, preserva quanto più possibile la reputazione dell’organizzazione e riduce le – inevitabili – richieste di risarcimento danni in sede giudiziale. Gli interlocutori delle aziende coinvolte nelle crisi apprezzano tale comportamento e, non sentendosi coinvolti in un uno scontro tra blocchi con interessi contrapposti, valutano la crisi e i suoi effetti con occhi più concilianti. Non si tratta ovviamente di scusarsi assumendosi ogni responsabilità dell’accaduto prima ancora di aver effettuato le necessarie verifiche di merito, bensì di “presentare le proprie più sentite scuse in quanto il proprio brand è comunque coinvolto in un evento che ha generato fastidio, disagio, dolore o – nei casi peggiori – morte”. Come Facebook possa ostinarsi ad ignorare prassi acclarate in letteratura scientifica, è un ulteriore indicatore della scarsa preparazione dei suoi vertici e di tutto il management, e trova conseguenza diretta – non a caso – nella reputazione sempre più negativa del gigante dei Social network, che ha cessato da tempo di essere un Lovemark ed è sempre più considerata come una banale commodity.
Ma il progetto Amplify non esaurisce qui il suo potenziale negativo dal punto di vista reputazionale: a detta degli informatori, Mark Zuckerberg – che già aveva macchiato la sua reputazione con gli scandali degli ultimi anni e con le questioni politico-istituzionali che lo vedevano coinvolto (tra cui le attività svolte da Facebook in occasione delle elezioni USA del 2016 e del 2020) – voleva ripristinare la sua personale immagine di innovatore e imprenditore illuminato. Per questo, nella riunione di gennaio, il team di comunicazione ha diffuso un documento con una strategia per allontanare Zuckerberg dagli scandali, concentrando i suoi post su Facebook e le apparizioni sui media sul lancio di nuovi prodotti.
Inoltre, in modo davvero sconcertante, Facebook avrebbe contemporaneamente anche iniziato a ridurre la disponibilità di dati che permettevano ad accademici e giornalisti di studiare il funzionamento della piattaforma: lo scorso aprile, la società ha dichiarato al team di CrowdTangle – uno strumento che fornisce dati sull’engagement e sulla popolarità dei post di Facebook – che esso era in fase di scioglimento. Oggi il team sulla carta esiste ancora, ma – come per il dipartimento Integrità civica – il personale in realtà è stato smistato in altri team. Perché smantellare un dipartimento che permetteva agli osservatori di comprendere e studiare in modo trasparente il funzionamento della piattaforma?
La paternità dell’idea – come confermato sempre dai due informatori del NYT – pare sia di Alex Schultz, dirigente di Facebook stanco della copertura negativa di notizie confezionate da chi utilizzava proprio i dati di CrowdTangle per dimostrare che Facebook stava contribuendo alla diffusione di disinformazione online. Non solo: dopo lo scioglimento del team di CrowdTangle la società ha ulteriormente ridotto la capacità degli accademici di condurre ricerche sull’azienda, disabilitando gli account Facebook e le pagine di un gruppo di ricercatori della New York University. I ricercatori avevano creato una funzionalità per i browser Web – che 16.000 persone avevano acconsentito a utilizzare – la quale consentiva loro di studiare l’attività di Facebook degli utenti che partecipavano coscientemente al progetto di ricerca: i dati risultanti dal tool avevano permesso la pubblicazione di studi che dimostrano che annunci politici ingannevoli hanno prosperato su Facebook durante le elezioni USA del 2020, e che gli utenti con simpatie politiche di estrema destra si erano impegnati maggiormente in azioni di disinformazione, ma od oggi questi strumenti non sono più disponibili.
Facebook ha giustificato la misura di chiudere gli account con un post sul blog in cui affermava che i ricercatori della New York University avevano violato le regole sulla raccolta dei dati degli utenti, citando l’accordo sulla privacy stipulato con la Federal Trade Commission nel 2012: peccato che proprio la Federal Trade Commission, in seguito alle dichiarazioni di Facebook, ha ammonito il Social network per aver maldestramente citato quell’ accordo, ribadendo che in realtà “le attività di ricerca scientifica nell’interesse pubblico sono inequivocabilmente e sempre consentite”. Un ulteriore significativo scivolone per Facebook Inc., che ha reagito alle critiche balbettando giustificazioni, non scusandosi, e finendo per generare dubbi ancor più significativi sul suo operato.
Ciliegina sulla torta nel turbine impetuoso sul Social network più famoso del mondo è stata la recentissima analisi di Altreconomia, che ha messo in evidenza come la divisione italiana di Facebook (assieme a quella di Google) abbia spostato i ricavi verso l’Irlanda acquistando servizi infragruppo dalle sedi dublinesi dell’azienda. Nonostante i fatturati più che raddoppiati nell’ultimo anno, come riporta Il Fatto Quotidiano, Facebook Italia ha finito, grazie a questa pratiche discutibili, per pagare le stesse tasse dell’anno precedente, e tutto ciò nonostante un accordo stipulato con il fisco italiano con transazioni per un ammontare di 100 milioni di euro per imposte non pagate da Facebook negli anni scorsi.
Spostando l’analisi dalla cronaca alla dottrina, emerge chiaramente come Facebook abbia violato tutti i pilastri del buon Reputation management:
La reputazione è attualmente considerato come il più importante asset intangibile per un’organizzazione, quello di maggior valore sotto il profilo economico-finanziario: una buona reputazione è in grado di condizionare i comportamenti di acquisto di prodotti e servizi, aumenta quella che in gergo tecnico definiamo “la licenza di operare” di qualunque organizzazione, ovvero la disponibilità e la fiducia che i cittadini garantiscono a un’azienda, permettendole quindi di ampliare il proprio business, e aiuta a proteggere dalle crisi reputazionali.
Facebook – nonostante queste premesse e la vastissima letteratura in materia – risulta essere sorprendentemente una multinazionale a bassa cultura su queste importanti tematiche, in particolare sul fronte dell’adozione di strumenti utili per prevedere e gestire le crisi, difendendo il perimetro reputazionale dell’organizzazione e contenendo i danni.
Nonostante negli ultimi anni, come evidenzia il Financial Times, l’azienda abbia investito molto in sistemi basati sull’intelligenza artificiale per segnalare contenuti dannosi, assumendo anche un certo numero di moderatori di contenuti per eliminare i post offensivi, e creando un consiglio di sorveglianza indipendente con il tentativo di prendersi almeno in parte la responsabilità nel processo decisionale per la rimozione del contenuti tossici, questi sforzi non sono risultati sufficienti – e visto quanto sta accadendo è un evidenza di fatto, che trascende le opinioni soggettive… – per gestire le numerose e complesse criticità nelle quali la piattaforma si trova coinvolta.
Considerate le sue imponenti dimensioni, Facebook è comprensibilmente in difficoltà nel presidiare i vari fronti critici: come può con l’attuale esile struttura dell’azienda monitorare la moltitudine di contenuti nocivi in dozzine di lingue e culture differenti? Come può riuscire a limitare gli effetti malsani dell’abuso dei Social da parte di bambini e adolescenti? Come può offrire ascolto e supporto costante ai propri utenti?
Alcuni osservatori suggeriscono che una soluzione potrebbe essere quella di suddividere il colosso in diverse aziende più piccole e con catena di governance più corta, ma la verità è che spacchettare Facebook in una galassia di società potrebbe non risolvere nulla, se esse importassero la stessa cultura aziendale attuale, impostata su un modello binario-sequenziale attento soprattutto ai profitti a breve termine, e lontana dai modelli circolari e complessi tipici del reputation management, finalizzati alla costruzione di solido valore nel medio-lungo termine. Cosa fare dunque?
Facebook dovrebbe innanzitutto fermarsi a riflettere, guardarsi dentro, e ripartire dai propri fondamentali, scambiando autenticità, ascolto e un prodotto di qualità con i 2 miliardi di utenti che hanno letteralmente consegnato le proprie vite alle mani del colosso del Social.
Come suggerito dalla Haugen, è possibile immaginare e riprogettare un Social network “più responsabile”. Come? Iniziando con il trattare gli utenti come co-creatori della community, piuttosto che come “oggetti”, numeri utili solo per popolare e animare la App quanto più possibile, al fine di vendere a più caro prezzo le inserzioni pubblicitarie.
All’appello della Haugen, si aggiunge anche Jaron Lanier, noto e anticonformista informatico statunitense, che sostiene che questo potrebbe essere realizzato offrendo agli utenti un maggiore controllo sui contenuti che producono, e magari anche una maggiore partecipazione finanziaria nel modello di business di Facebook.
In ogni caso, la corda si sta assottigliando sempre più, e se Facebook non inizierà a utilizzare la propria capacità di migliorarsi allineandosi alle aspettative del mercato e dei cittadini per evolversi in un social network più affidabile, inclusivo e sostenibile, possiamo scommettere che qualcun altro, prima o poi, capirà come farlo. Attualmente, l’enorme opportunità di mercato che Facebook sta giorno dopo giorno costruendo con le proprie stesse mani, a favore di un potenziale concorrente in grado di dare la priorità agli utenti piuttosto che solo agli inserzionisti, è sempre più evidente.
È giunto forse il tempo di riprogettare nuovi e migliori Social network? Il noto e inflazionato slogan di Facebook afferma: “È gratis, e lo sarà sempre…”. Dopo tutto quanto sta accadendo, non c’è da esserne poi così sicuri.