La gestione delle crisi “smoldering”


Per definizione, una crisi “smoldering” ovvero “a bassa intensità, e lunga durata” – come descritto dalla letteratura internazionale sul crisis management[1] – non presentano una singola e specifica soglia di innesco, ma maturano lentamente, manifestandosi nell’infosfera e riaffiorano ciclicamente, su modello di ripetute curve gaussiane[2] che ogni volta riportano di attualità l’attacco per poi diminuire d’intensità per mesi se non anni, e ritornare poi di attualità rafforzando l’intensità dell’attacco.
Questa peculiare tipologia di crisi è caratterizzata da una progressione di segnali deboli (weak signals), ovvero episodi apparentemente minori, lamentele sparse, contenuti parziali, non verificati o del tutto decontestualizzati, che nel tempo vengono ripresi, aggregati e rielaborati fino a costruire una narrativa coerente (ancorché non genuina) agli occhi del pubblico, anche quando essa è distorta rispetto alla realtà[3].
La distinzione classica fra crisi “improvvise” (cosiddette “sudden crises”) e crisi “striscianti” (smoldering crisis, o creeping crises) mostra come queste ultime rappresentino oggi purtroppo la maggioranza dei casi registrati: studi riportati dall’Institute of Crisis Management stimano che circa il 60–70% delle crisi nasca da situazioni note e preannunciate e da segnali che sono stati ignorati o sottovalutati dalle aziende, mentre solo il 30–40% è realmente frutto di scenari “imprevedibili”.
Blog e social media – meglio se non moderati – si prestano particolarmente alla creazione dei presupposti per questo tipo di crisi: l’effetto combinato dell’analfabetismo funzionale, della circolazione non moderata di contenuti ostili su alcune piattaforme e della reiterazione, negli anni, di informazioni critiche contribuisce o a sedimentare una narrazione negativa, che non scompare mai del tutto dell’orizzonte, ma permane come un “rumore di fondo reputazionale”.
In buona sostanza, ogni volta che un attore ostile riprende un contenuto critico del passato, lo ricombina con nuovi elementi, e lo rilancia agganciandolo a keyword sensibili, la crisi si riattiva, e ritorna in superficie, indipendentemente dal fatto che l’azienda abbia nel frattempo introdotto correttivi o miglioramenti per risolvere le presunte non conformità.
La letteratura scientifica e i casi di studio pratici convergono nel descrivere il crisis management come un processo di gestione continuativo nel tempo: in particolar modo le crisi smoldering per loro natura non si risolvono con una singola iniziativa né con la messa a terra di un atto simbolico isolato. Coombs insiste sul fatto che la gestione della crisi – e in particolare di questo specifico tipo di crisi – sia un processo continuativo, che richiede attenzione specialistica e coerenza nel tempo, nonché un insieme di risposte coordinate, ma non una singola “mossa comunicativa risolutiva”[4]. In particolare, Ulmer, Sellnow e Seeger (2018) sottolineano come, nelle crisi intermittenti di lunga durata, la capacità di riposizionarsi positivamente dei brand dipenda dalla tenacia nell’affermare coerenza tra quanto l’organizzazione dichiara e quanto mette effettivamente in atto nel medio-lungo periodo, più che da un singolo annuncio o da una brillante campagna media isolata.
La letteratura converge inoltre su un altro elemento chiave: nelle crisi di lungo corso, le strategie che includono una qualche forma di assunzione di responsabilità, almeno rispetto alle aree in cui sono emerse criticità o non conformità, tendono a essere più efficaci nel ristabilire credibilità[5]. Non si tratta di “colpevolizzarsi” a priori, ma di riconoscere con lucidità che, in ogni crisi prolungata, coesistono sullo stesso piano due distinti fattori: da un lato la distorsione prodotta da attori ostili o da ecosistemi informativi polarizzati e critici; dall’altro, eventuali incoerenze, rigidità o ritardi interni che possono aver contribuito, anche indirettamente, a rendere più vulnerabile la posizione dell’azienda.
Dentro questo quadro si inserisce il tema della valutazione morale (moral evaluation) del comportamento organizzativo: un soggetto che ammette l’esistenza di propri margini di miglioramento, documenta i passi avanti compiuti, e mostra disponibilità ad apprendere dal passato tende a essere percepito dal pubblico come più credibile e affidabile; al contrario, un soggetto che nega sistematicamente qualsiasi possibilità di errore, o che reagisce solo in chiave difensiva, tende a essere percepito come opaco e poco trasparente[6].
La letteratura sui sistemi socio-organizzativi e sulle crisi multistakeholder mostra che, quando più pubblici interagiscono attraverso piattaforme diverse, con livelli asimmetrici di informazione e percezioni eterogenee, la crisi assume una natura non lineare, stratificata, difficilmente riconducibile a un singolo episodio o a un singolo antagonista[7]. In contesti di questo tipo – tipici delle smoldering crisies – nessuna trasformazione reputazionale può andare a meta se derivante da un singolo gesto isolato; il pregiudizio informativo da parte del pubblico critico è infatti il frutto dell’interazione tra narrative pregresse, memorie collettive e dinamiche digitali non efficacemente moderate, tutti fattori solo parzialmente riferibili alle reali responsabilità dell’azienda.
È quindi l’intero sistema a dover essere convintamente riposizionato: non con una “bacchetta magica”, un singolo gesto risolutivo, ma attraverso la costruzione progressiva di un ambiente informativo più coerente, più autentico e più solido.
In definitiva, la letteratura sui sistemi complessi e sulla gestione delle crisi riconosce che la riduzione dell’entropia reputazionale non è l’effetto di una singola azione, bensì di una costellazione coordinata di interventi che, insieme, contribuiscono a depotenziare gli attori ostili e a stabilizzare la percezione del brand nel medio periodo[8].
Nelle crisi prolungate a bassa intensità la resilienza reputazionale deriva dalla capacità dell’organizzazione di governare la complessità, intervenire tempestivamente e agire in modo coerente su più fronti per limitare l’impatto dei periodici picchi di alta entropia[9]. È quindi la convergenza di molte azioni, non l’intensificazione di una sola di esse, a generare un impatto positivo sistemico: con l’obiettivo di ridurre progressivamente l’intensità degli attacchi, fino – auspicabilmente – a farli cessare.
Per questo è fondamentale mantenere una regia costante anche nei periodi di apparente calma: la letteratura segnala che, nelle crisi smoldering, i tempi di reazione sono parte integrante dell’equazione[10]. Trascurare i segnali deboli significa lasciare spazio a una rigenerazione spontanea delle narrative ostili; presidiarli, invece, permette di anticipare, depotenziare e disinnescare gli attacchi, riducendo gradualmente l’entropia del sistema reputazionale. Ne deriva che il brand dovrebbe procedere costantemente, dedicando tempo e attenzione anche “in tempo di pace”, ad attrezzarsi per ridurre l’impatto della successiva emersione della crisi.
La letteratura sul crisis management è concorde nel descrivere una specifica “famiglia” di crisi che non deflagrano a causa di un unico evento riconoscibile, ma si sviluppano “per accumulo”: situazioni che si alimentano nel tempo attraverso micro-episodi, rilanci ciclici sui mass-media o sui Social, riaperture periodiche del dibattito pubblico in chiave critica.
In queste configurazioni – che la dottrina colloca nell’ampio perimetro delle crisi “striscianti” – non esiste un momento preciso in cui si possa dire che la crisi “comincia” o “finisce”: il conflitto reputazionale attraversa fasi di latenza e riattivazione, più che vivere di picchi isolati di emergenza[11].
In scenari di questo tipo, la gestione non segue le logiche dell’intervento emergenziale classico: l’evidenza accumulata dagli studi sulle crisi organizzative mostra che la maggior parte degli eventi critici deriva da situazioni note o segnalate in precedenza, e che il problema non è l’assenza di informazioni, ma la difficoltà nel governare nel tempo il flusso di segnali, percezioni e narrazioni che circondano l’organizzazione stessa[12]. L’entropia informativa rimane fisiologicamente alta, e viene continuamente alimentata da nuovi contenuti, reinterpretazioni da parte del pubblico e commenti sui canali digitali, potenziati dagli algoritmi di visibilità.
In questo quadro, non è realistico attendersi che una crisi prolungata possa essere “risolta” da un singolo gesto – un video, un comunicato, un contenuto particolarmente efficace. I principali contributi teorici sottolineano come la risposta alle crisi di lungo corso richieda un approccio sistemico e multilivello, capace di integrare aspetti organizzativi, comunicativi, relazionali e digitali: dalla governance interna alle policy, dalla qualità dell’informazione prodotta al presidio degli ecosistemi online[13].
L’obiettivo della gestione di crisi diventa quindi la riduzione progressiva dell’entropia reputazionale, non la “risoluzione” immediata della crisi.
Ogni intervento correttivo – che si tratti di una revisione procedurale, di un chiarimento pubblico, di una presa di posizione documentata o di un accordo di partnership con soggetti terzi credibili – contribuisce a restringere lo spazio narrativo a disposizione degli attori ostili, ma nessuna singola azione è sufficiente da sola a risolvere il problema.
La letteratura insiste sul fatto che, nelle crisi di lunga durata, la traiettoria di uscita dipende dalla continuità e coerenza nel tempo di una serie di decisioni efficaci, più che dall’utilità di un singolo “colpo di reni” comunicativo[14].
In questo senso, la costruzione di un ecosistema informativo coerente – fondato su dati verificabili, documenti accessibili, standard etici espliciti, collaborazioni autorevoli, audit e attività di ricerca – non rappresenta un elemento accessorio, bensì la condizione necessaria per rendere via via meno efficace l’azione di attacco e disinformazione, e più stabile il campo percettivo intorno al brand.
Un ulteriore elemento che la letteratura evidenzia con grande chiarezza riguarda la dimensione temporale delle risposte da parte del brand. Nelle crisi prolungate — e in particolare in quelle smoldering – il quando si interviene è parte integrante del come si interviene. Non si tratta di una variabile accessoria, ma di un fattore strutturale, parte dell’equazione reputazionale.
Secondo la migliore letteratura sulle HRO – High Reliability Organisations[15] (Weick & Sutcliffe, 2001/2007) e sugli approcci di crisi (Mitroff, 2005), le organizzazioni che si distinguono per elevata affidabilità sviluppano una vigilanza costante verso errori e anomalie, e sono capaci di attivare prontamente meccanismi di contenimento e di recupero. In contesti in cui si accumulano segnali di rischio, tale vigilanza e la rapidità di intervento — insieme a una cultura della sicurezza e resilienza organizzativa — aumentano la probabilità di contenere gli effetti negativi della crisi e di evitare l’escalation. Interventi tardivi, invece, perdono progressivamente di efficacia: quando la finestra di opportunità si restringe, l’atto comunicativo o operativo che sarebbe stato risolutivo mesi prima diventa insufficiente o viene percepito come difensivo e tardivo.
La gestione delle crisi smoldering richiede quindi una manovra a tenaglia, fondata non solo sulla qualità delle decisioni, ma sulla loro esecuzione tempestiva. Da un lato, la progressiva costruzione di presidi strutturali; dall’altro, l’attuazione rapida delle task strategiche identificate e concordate.
Ritardi sistematici nell’esecuzione — anche di attività apparentemente minori come aggiornamenti digitali, ottimizzazioni SEO, presidio dei contenuti o messaggi chiarificatori — generano un surplus di vulnerabilità che si accumula e indebolisce il campo reputazionale (Coombs, 2015; Ulmer, Sellnow & Seeger, 2018).
La letteratura sottolinea anche che i piani di risoluzione delle crisi risultano efficaci solo quando l’organizzazione partecipa attivamente alla loro implementazione: la risposta alla crisi è infatti un processo integrato che richiede coordinamento interno, cooperazione con gli esperti e attuazione puntuale delle azioni previste (Bundy et al., 2017). Il tema del timing, quindi, e della collaborazione attiva da parte della struttura, non rappresenta un “giudizio” di valore da parte del consulente, bensì una necessità sistemica: nelle crisi prolungate, il ritardo nell’esecuzione delle azioni aumenta l’impatto della crisi stessa, mentre la tempestività d’intervento lo riduce, e permette alla manovra di contrasto alla crisi di produrre effetti concreti nel medio periodo.
Infine, all’interno di una strategia complessa e multistakeholder come quella necessaria per tentare di risolvere le crisi a bassa intensità, è importante valorizzare anche gli strumenti narrativi già predisposti dall’azienda insieme ai partner esterni.
È tuttavia necessario riconoscere che il valore strategico degli strumenti adottati, in termini di efficacia, è strettamente legato anche al loro tempismo. La letteratura sulla gestione delle crisi evidenzia infatti che, nelle fasi di alta vulnerabilità reputazionale, la tempestività di un intervento può amplificarne l’efficacia o, al contrario, attenuarne l’impatto (Weick & Sutcliffe, 2007; Mitroff, 2005). In questa cornice, questi strumenti non devono essere letti come atti isolati o finalizzati a una “soluzione rapida” della crisi, bensì come componenti di un disegno sistemico, pensate per gestire la complessità della crisi, con i suoi tempi e con la pluralità di pubblici coinvolti. Per ogni elemento messo a terra, si otterrà un ritorno solo se esso sarà inserito in un percorso di accountability e di presidio informativo che l’azienda sta costruendo: nessuno di questi strumenti si rivelerà efficace di per sé, tutti risulteranno utili a ripristinare l’ecosistema reputazionale del brand.
Un secondo elemento ricorrente nella letteratura internazionale riguarda il ruolo dell’assunzione di responsabilità nei percorsi di uscita dalla crisi. I principali modelli internazionalmente validati di crisis communication convergono su un punto: quando l’opinione pubblica percepisce – anche solo in parte – una responsabilità dell’organizzazione rispetto a quanto accaduto, le strategie più efficaci sono quelle di tipo accomodativo – riconoscimento, scuse, spiegazioni fondate e azioni correttive concrete – mentre negazione, minimizzazione o spostamento di colpa sull’accusatore risultano, nel medio-lungo periodo, poco efficaci o addirittura controproducenti.
La Situational Crisis Communication Theory (SCCT) di Coombs evidenzia come, nei contesti in cui l’azienda viene percepita come anche solo in parte corresponsabile o responsabile (“preventable” o “intentional crises”) di qualche non conformità, le strategie basate su scuse, assunzione di responsabilità e impegno a correggere le criticità siano associate a esiti reputazionali migliori rispetto alle strategie difensive o puramente giustificative[16].
In modo complementare, l’Image Restoration Theory di Benoit mostra come le tattiche di mortification (ammissione di colpa, richiesta di perdono) e corrective action (illustrazione delle misure adottate per evitare che l’evento si ripeta) siano determinanti per la ricostruzione dell’immagine, soprattutto quando il pubblico attribuisce all’organizzazione – a torto o ragione – una quota di responsabilità[17].
Questo impianto teorico trova riscontro anche nelle ricerche sperimentali sulla riparazione della fiducia dopo una violazione. Kim, Ferrin, Cooper e Dirks (2004), ad esempio, mostrano che – in presenza di un comportamento percepito come “non etico o scorretto” (quanto meno nella percezione del pubblico) – le risposte che combinano riconoscimento dell’errore e impegno credibile a cambiare i processi generano livelli di fiducia più elevati rispetto alle risposte difensive o alle semplici spiegazioni senza assunzione di responsabilità. In altre parole, il pubblico non valuta solo le parole, bensì la disponibilità dell’organizzazione a riconoscere le proprie vulnerabilità e a trasformarle in miglioramento strutturale al proprio stesso interno.
Per questo motivo, nei casi di crisi prolungate, la letteratura insiste sulla necessità di un lavoro di chiarificazione delle fragilità del passato, di loro contestualizzazione e di produzione di evidenze verificabili rispetto alle azioni correttive intraprese.
Non si tratta di adottare un gesto simbolico “una tantum”, bensì della presa d’atto di un requisito funzionale: in assenza di questo passaggio, la controparte (critici, media, community ostili, giornalisti…) continuerà ad avere un proprio spazio narrativo per rilanciare ciclicamente le stesse accuse, presentando l’azienda come un soggetto che “non ha mai ammesso nulla” o che “non è cambiato”.
Beninteso, assumersi responsabilità non equivale ad auto-colpevolizzarsi in modo indiscriminato, ma significa governare la narrativa sul proprio passato: riconoscere ciò che non ha funzionato, spiegare in modo trasparente come l’organizzazione è cambiata, documentare procedure aggiornate, controlli introdotti, nuove policy, strumenti e presìdi a tutela delle persone coinvolte. È in questo equilibrio fra accountability e miglioramento che si gioca la possibilità di una vera ricostruzione del perimetro reputazionale del brand.
In quest’ottica, l’assunzione di responsabilità non è una semplice “mossa comunicativa”, ma un componente strutturale del processo di uscita dalla crisi. È ciò che dà sostanza alle iniziative successive – pubblicazione di dati, audit indipendenti, testimonianze, contenuti informativi – e consente al sistema degli stakeholder di percepire il cambiamento come autentico e non meramente cosmetico.
Senza una forma credibile di assunzione di responsabilità, ogni intervento correttivo rischia di essere interpretato come tattico o difensivo, e la crisi – soprattutto se a bassa intensità e lunga durata – tende a ripresentarsi sotto nuove forme.
Nella gestione delle crisi prolungate a bassa intensità, la letteratura sui sistemi complessi e sul comportamento organizzativo mette in luce un fenomeno ricorrente: all’aumentare delle dimensioni e della complessità di un’organizzazione, si crea inevitabilmente una distanza tra il centro decisionale e ciò che avviene nelle periferie operative.
Studiosi come Herbert Simon[18] e Karl Weick[19] hanno ampiamente documentato come, nei sistemi articolati, i vertici tendano a costruire una rappresentazione dell’organizzazione fondata sugli standard virtuosi che essi stessi hanno ridefinito e sulle procedure che hanno implementato, mentre alcune dinamiche periferiche possono continuare a sfuggire alla loro percezione quotidiana e al loro controllo.
Questo fenomeno non costituisce di per sé un errore di leadership, bensì una caratteristica strutturale di ogni sistema complesso: chi guida un’organizzazione, filtra inevitabilmente la realtà attraverso i risultati, gli indicatori e le informazioni che a lui arrivano dai livelli intermedi. È quindi fisiologico che un management impegnato da anni a innalzare la qualità dei processi, a costruire presidi etici e scientifici e a rafforzare la reputazione aziendale, sviluppi una percezione dell’azienda coerente con gli enormi progressi effettivamente compiuti su proprio impulso. Non si tratta di distorsione, ma dell’esito naturale di ciò che Weick definisce “sensemaking”: un processo con cui ogni leader costruisce un’immagine razionale e coerente della propria organizzazione sulla base degli elementi che emergono più chiaramente dal suo ruolo.
Tuttavia, Argyris e Schön (1978), nel descrivere la distinzione tra espoused theory e theory-in-use, mostrano come ciò che un’organizzazione dichiara di fare non coincide sempre perfettamente con ciò che accade in ogni sua parte, a ogni livello. L’allineamento può essere molto elevato al centro, nelle sedi più strutturate e ben presidiate, nei team maggiormente formati; ma in specifici contesti periferici possono invece persistere micro-pratiche non del tutto coerenti, spesso non per “dolo”, quanto piuttosto per interpretazioni personali, eccesso di presunzione di autonomia (magari confortata da buone performance nelle vendite, quindi nuovamente con una valutazione basata sugli effetti di breve periodo) o semplicemente perché alcune procedure non sono state interiorizzate ovunque con lo stesso livello di rigore. L’aspetto cruciale è che tali criticità possono emergere anche quando l’azienda ha già compiuto un percorso importante di maturazione.
La letteratura sui sistemi complessi[20] mostra che queste situazioni non rappresentano “anomalie”, ma conseguenze naturali dell’immersione dell’azienda in una situazione di complessità. La loro gestione richiede strumenti di monitoraggio, formazione periodica, riduzione della distanza informativa tra centro e periferie, e un rafforzamento della governance interna.
Com’è noto, il solvente universale di una crisi reputazionale è innanzitutto la capacità di saper presentare in modo sobrio le proprie scuse: un’azione catartica e un gesto di per sé dalla portata straordinaria. L’essere umano, come l’organizzazione, dimostra di avere ‘la schiena dritta’, è in grado di guardare l’interlocutore e la audience negli occhi, capire il perché dei propri errori e impegnarsi costruttivamente a cambiare, affinché quanto è successo non accada mai più.
Presentare le proprie scuse inoltre non include necessariamente un’assunzione diretta di responsabilità intesa come “colpa”: con le scuse l’azienda dimostra di essere empaticamente dispiaciuta in quanto il proprio brand è “parte dell’equazione” in uno scenario che sta generando dolore o anche solo disagio a qualcuno.
La letteratura sulla gestione delle crisi e sul ripristino della fiducia concorda con quanto appena illustrato, mostrando con chiarezza che, specie nelle crisi prolungate e a bassa intensità, le scuse non sono un gesto accessorio né un puro atto emotivo: rappresentano uno strumento funzionale per ristabilire l’equilibrio reputazionale, ridurre l’ostilità dell’ambiente informativo esterno e riattivare un dialogo credibile con i pubblici rilevanti. Modelli come la Image Restoration Theory di Benoit (1995) e gli studi sul trust repair di Kim, Ferrin, Cooper e Dirks (2004) convergono sull’idea che le strategie accomodative – riconoscimento, spiegazione, scuse, e impegno in azioni correttive – rafforzino la percezione di accountability dell’organizzazione (a condizione che siano sincere, contestualizzate e supportate da evidenze concrete di cambiamento).
Chiedere scusa non significa assumersi responsabilità personali per eventi non commessi; significa riconoscere, da parte dell’organizzazione, che in fasi precedenti possono essersi verificati episodi non coerenti con gli standard attuali e che oggi l’azienda si colloca in una posizione diversa: più solida, più strutturata, più matura.
Significa dire “ci dispiace se, nonostante le nostre intenzioni fossero altre, qualcuno o qualcuna è rimasto ferito lungo il percorso”. Gli studi sul ripristino della fiducia dopo una violazione mostrano che le organizzazioni che affrontano in modo chiaro i propri errori, spiegano ciò che è accaduto e illustrano le misure correttive adottate ricostruiscono la credibilità in modo significativamente più stabile rispetto a chi adotta un approccio puramente difensivo[21]. Questo tipo di accountability è ciò che consente al pubblico di percepire un percorso autentico di trasformazione, distinguendolo da una postura di mera “auto-assoluzione”.
Resta però un punto, imprescindibile: questo passaggio può essere compiuto solo quando l’organizzazione è ragionevolmente certa – attraverso una verifica estesa e sistematica di sedi, processi e prassi interne – che le non conformità residue siano state ridotte al minimo fisiologico. Solo in questa condizione le scuse diventano credibili, perché non espongono l’azienda al rischio di essere smentita da nuovi episodi successivi, come accadrebbe se emergesse, anche a breve distanza di tempo, un caso di non conformità. In assenza di questa stabilizzazione interna, le scuse rischierebbero di essere percepite come di comodo, tardive, parziali o incoerenti.
Quanto al “luogo” (materiale o virtuale) nel quale formulare questo atto, la scelta è altrettanto strategica. Le scuse producono un impatto reputazionale solo se espresse davanti a un’audience adeguata, capace di comprenderne il valore e di riconoscere l’autenticità del gesto. La letteratura sul media choice in contesti sensibili evidenzia che la percezione di credibilità dipende anche dal canale e dal contesto in cui avviene la comunicazione: un messaggio veicolato esclusivamente su canali proprietari tende ad esempio a essere percepito come più addomesticato, mentre il confronto in spazi percepiti come indipendenti o potenzialmente critici può accrescere la forza e potenza dell’atto comunicativo[22].
La crisi “smoldering” non conosce un punto di inizio e di fine netto, si alimenta di narrative pregresse, di percezioni stratificate, di contenuti ostili che periodicamente riemergono e si agganciano a keyword sensibili e ad ecosistemi digitali non moderati.
In questo contesto, la letteratura è univoca: non esiste una singola azione in grado di risolvere la crisi; esiste, piuttosto, una costellazione di decisioni coerenti nel tempo capaci di ridurre progressivamente l’entropia della crisi stessa, e di stabilizzare – e sempre più rafforzare – l’immagine del brand e la resilienza dell’organizzazione.
Tutto ciò a condizione, però, che tali azioni arrivino a valle di una verifica capillare delle prassi interne, e non a monte di esse: solo così potranno venir lette come espressione di maturità organizzativa e non come una reazione tattica all’ennesima ondata polemica; se accompagnate da evidenze verificabili di effettivo riallineamento nella messa a terra delle procedure, esse costituiranno un tassello efficace nel percorso di ricostruzione credibile della fiducia del pubblico verso l’azienda.
Un percorso come quello delineato nelle pagine precedenti di questa scheda di analisi non produrrà solo un beneficio reputazionale di tipo “difensivo”. La letteratura sulla resilienza organizzativa evidenzia che la continuità di azioni coerenti nel tempo — presidio sistematico delle procedure, trasparenza documentale, assunzione di responsabilità, relazioni istituzionali sempre più forti, governance dei canali digitali, formazione interna, etc. — contribuisce allo sviluppo di veri e propri anticorpi reputazionali: meccanismi interni che permettono all’azienda di assorbire e gestire con maggiore lucidità ritorni di fiamma, onde d’urto critiche e riattivazioni cicliche tipiche delle crisi smoldering. Questo principio è ampiamente documentato negli studi sulla resilienza[23], nei lavori sul sensemaking nelle organizzazioni complesse[24] e nei modelli di systemic resilience applicati ai sistemi socio-organizzativi[25].
È un processo di rafforzamento progressivo, che consentirà all’azienda non solo di rispondere in modo più efficace agli attacchi futuri, ma anche di ridurne l’impatto complessivo, nel tempo, sul fatturato. In altre parole, la resilienza reputazionale non è un tratto “innato”, ma è l’esito di una continuità strategica fatta di innumerevoli accorgimenti, solo apparentemente indipendenti l’uno dall’altro, presidi efficaci e concreti, coerenza e responsabilità.
È nella tenuta nel tempo di questo equilibrio, più che in un singolo gesto, che si gioca la possibilità di accompagnare l’azienda dalla logica della crisi permanente, portando l’azienda all’interno di un perimetro reputazionale più stabile, sicuro e agevolmente governabile.
[1] L’Institute for Crisis Management (ICM), distingue fra sudden e smoldering crises nelle sue survey annuali; Ulmer, Sellnow & Seeger, 2018
[2] La curva gaussiana è una distribuzione di probabilità a forma di campana simmetrica, che descrive come certi dati – nel nostro caso il livello più acuto della crisi – si raggruppano attorno a un certo valore medio; la sua forma è determinata da due parametri: la media (il picco centrale di massima acuzie) e la deviazione standard (che misura la “dispersione” dei dati). È una rappresentazione fondamentale in statistica, poiché molti fenomeni naturali e umani tendono a seguirla, ed è il risultato dell’accumulo di molteplici fattori casuali, che – nel crisis management – rendono molto difficile la previsione della frequenza di riattivazione della crisi.
[3] cit. in Mitroff, 2005
[4] Coombs, 2019
[5] Ulmer, Sellnow & Seeger, 2018 Op. Cit.
[6] Coombs, 2007
[7] Op. cit.
[8] Mitroff, 2005; Weick & Sutcliffe, 2007
[9] Coombs, 2019; Weick & Sutcliffe, 2007
[10] Op. cit.
[11] Coombs, 2019; Ulmer, Sellnow & Seeger, 2018
[12] Bundy et al., 2017
[13] Op. cit
[14] Fink, 1986; Augustine, 1995
[15] sono le organizzazioni aziendali ritenute dal proprio ecosistema come maggiormente affidabili
[16] Coombs, 2007; 2015
[17] Benoit, 1995
[18] Administrative Behavior, 1997
[19] Sensemaking in Organizations, 1995
[20] Vaughan, 1996; Weick, 1995; Simon, 1997
[21] Kim et al., 2004
[22] Stephens & Malone, 2010
[23] Sutcliffe & Vogus, 2003
[24] Weick & Sutcliffe, 2007
[25] Norris et al., 2008
