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Tod’s si trova al centro di un caso di caporalato che avrebbe richiesto lucidità, responsabilità e un’immediata strategia di reputation recovery.

Invece l’azienda ha reagito con una postura difensiva e culturalmente arretrata, dimostrando di non aver compreso la gravità del disastro reputazionale in corso. La scelta di evocare presunti “attacchi al Made in Italy”, come se la magistratura stesse colpendo un simbolo nazionale anziché un sistema illecito di sfruttamento, è stata un errore tanto clamoroso quanto rivelatore: é la classica reazione di chi si percepisce intoccabile. Invece di prendere atto che la filiera nascondeva pratiche criminali, Tod’s ha preferito travestirsi da vittima, negando fatti che proprio i suoi audit esternalizzati avevano già segnalato come sospetti.

La difesa del “non sapevamo, non potevamo sapere”, è una confessione mascherata. Nel 2025, ignorare equivale a essere responsabili, perché i brand globali hanno il dovere di conoscere nel dettaglio la propria catena di fornitura. E Tod’s non solo, da ciò che si apprende dalle cronache, aveva le informazioni, ma ha scelto di gestirle in modo “cosmetico”. Commissionare audit e poi non usarli per correggere il sistema non è una scusante: è una prova di colpa organizzativa.

La comunicazione dell’azienda tradisce l’illusione che la reputazione sia un’operazione estetica, un velo di storytelling capace di coprire qualsiasi ombra. Ma la reputazione moderna è un asset strutturale: trasparenza, responsabilità, governance. Tutti fattori che l’azienda avrebbe dovuto attivare subito e che invece ha rifiutato, mostrando una pericolosa impermeabilità culturale.

Le tecniche di reputation recovery erano note e pronte all’uso: accountability immediata (“non avremmo dovuto non sapere”), audit indipendente entro 48 ore, sospensione dei rapporti con i fornitori coinvolti, pubblicazione di una roadmap di riforma, apertura radicale della filiera ai media e agli stakeholder.

Persino un gesto di ricostruzione simbolica – ad esempio una fondazione autonoma per rigenerare la filiera della moda, finanziata dall’azienda, ma governata da terzi – avrebbe immediatamente invertito la percezione pubblica, trasformando uno scandalo in un’occasione di marcare la propria leadership etica.

Invece Tod’s ha scelto l’immobilismo, la negazione, la retorica dell’assedio. Ha trattato la crisi come un fastidio reputazionale invece che come un terremoto morale. Ha preferito proteggere l’immagine anziché ricostruire la realtà. Il risultato è che non è più solo la filiera a essere sotto accusa, ma la cultura aziendale stessa.

Paradossalmente, Tod’s non sta pagando il prezzo del caporalato in sé, che, pur grave, è una crisi che si può affrontare e risolvere, ma della sua inefficace risposta. Una risposta che suona vecchia, miope, istintiva, completamente inadatta al tempo in cui viviamo.

Tod’s, per ora, ha deciso non affrontare di petto il problema, ricordando ciò che fece Intel quando i suoi microprocessori non erano precisi nei calcoli in virgola mobile.

Il vero disastro non è lo scandalo, ma il modo in cui un’azienda della sua storia e visibilità ha deciso di attraversarlo, incapace di capire che oggi la credibilità non si difende: si dimostra.

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