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Alessandra Fazio è un’esperta di sicurezza alimentare, qualità, compliance e materiali per imballaggio, ha oltre vent’anni di esperienza di lavoro in grandi aziende multinazionali, ed è attualmente Head of Quality di Nestlé Italiana. A questo ruolo, affianca la presidenza dell’Istituto Italiano Imballaggio e della Fondazione Carta Etica del Packaging, realtà impegnate nella promozione della cultura del packaging responsabile e sostenibile. Leader pragmatica e appassionata, ha un’attenzione particolare alla valorizzazione delle nuove generazioni, alla diversità e alla parità di genere. Vive a Milano ed è mamma di due bambini: l’abbiamo intervistata sul suo appassionante lavoro, sullo stato dell’arte del riciclo in Italia, e sul futuro degli imballaggi…

Il suo ingresso in Nestlé: quando, come e perché…

Nel 2010, nello stabilimento di Moretta, vicino a Cuneo, con l’incarico di occuparmi dei processi di qualità nello stabilimento. Accettare il passaggio da un ruolo su più siti – quello che ricoprivo nella mia precedente azienda, una multinazionale B2B – a una posizione legata a uno stabilimento specifico è stata una scelta ragionata. Mi ha motivata la possibilità di confrontarmi con la produzione di prodotti alimentari destinati ai clienti finale, misurarmi nella gestione della qualità di alimenti freschi, con tutte le complessità che comportano, e anche approfondire nuovi prodotti, processi e tecnologie. Non ultimo, la possibilità di entrare nella prima multinazionale alimentare al mondo. La scelta non è stata facile, comportava anche un trasferimento che ha avuto un impatto sulla mia vita privata, ma ho deciso di scommettere su questa esperienza convinta del suo altissimo potenziale per la mia crescita. Col senno di poi, posso dire che è stata una scommessa vinta.

Tra i tanti, il più riuscito progetto della Fondazione Carta Etica del Packaging?

Uno dei progetti più riusciti e rappresentativi è senza dubbio Packaging: che fantastica avventura!, un’iniziativa educativa rivolta alle scuole primarie italiane. Il progetto nasce con l’obiettivo di far scoprire ai bambini, e attraverso di loro a insegnanti e famiglie, il valore culturale, ambientale e sociale del packaging. Si articola in lezioni in classe, laboratori creativi e un contest finale, che premia la capacità delle classi di reinterpretare l’imballaggio come oggetto di cultura e responsabilità. In pochi anni ha coinvolto centinaia di scuole in tutta Italia, raccogliendo entusiasmo, idee originali e un’inaspettata partecipazione emotiva. Crediamo che il cambiamento culturale inizi proprio dai più piccoli, e questo progetto dimostra come l’educazione possa diventare motore di trasformazione collettiva.

L’Italia come si posiziona rispetto agli altri Paesi UE sul fronte dell’attenzione all’impatto ambientale degli imballaggi?

Tra i Paesi europei più virtuosi nella gestione degli imballaggi e nel riciclo. I dati più recenti parlano chiaro: nel 2024 il nostro Paese ha riciclato oltre il 76% degli imballaggi immessi al consumo, pari a circa 10,7 milioni di tonnellate. Un risultato che non solo supera la media europea, ma anticipa gli obiettivi fissati dall’UE per il 2030, che prevedono un riciclo del 70%. Questi traguardi sono stati raggiunti grazie all’efficacia del sistema consortile italiano, che coinvolge la quasi totalità dei comuni e coordina l’intera filiera – dalla raccolta differenziata al trattamento, fino al riciclo vero e proprio. Anche le singole filiere registrano risultati significativi: oltre il 77% per il vetro, più del 68% per l’alluminio, oltre il 50% per la plastica e oltre il 70% per il legno. Tutti questi numeri raccontano un’Italia che ha saputo fare sistema, mettendo in rete istituzioni, imprese e cittadini. Un modello di economia circolare che funziona, e che può essere d’esempio a livello europeo.

La plastica ha cambiato la vita di tutti noi, in meglio, ma nel contempo costituisce uno dei più evidenti pericoli per l’ambiente, in particolare per gli oceani. Come conciliare queste due verità?

La plastica è stata – ed è tuttora – una grande innovazione. È grazie a questo materiale se possiamo garantire sicurezza alimentare, sterilità in ambito medico, leggerezza nei trasporti, riduzione degli sprechi e accessibilità a moltissimi beni. La plastica ha trasformato in meglio molti aspetti della nostra vita quotidiana. Il vero problema non è il materiale in sé, ma come lo usiamo e lo gestiamo. Quando progettata responsabilmente e raccolta correttamente, la plastica può essere riciclata e mantenuta all’interno di un’economia circolare, riducendo al minimo gli impatti sull’ambiente. Al contrario, quando viene abbandonata o dispersa, diventa una minaccia per ecosistemi preziosi, in particolare per gli ambienti marini. Conciliare i vantaggi della plastica con la necessità di proteggere l’ambiente è possibile, e passa da un approccio integrato: progettazione intelligente, sistemi efficienti di raccolta e riciclo, ricerca su nuovi materiali, educazione dei cittadini e responsabilità condivisa lungo tutta la filiera. La plastica, se inserita in un sistema virtuoso di progettazione, raccolta e riciclo, rappresenta una risorsa preziosa e sostenibile.

Il PHA ed altre bioplastiche, seppure più costose della plastica sintetica, promettono molto bene sotto il profilo delle performance e ovviamente della compatibilità ambientale, essendo a impatto zero e biodegradabili senza necessità di compostaggio. A suo avviso, c’è resistenza all’adozione di queste soluzioni, e se sì, perché?

Le bioplastiche come il PHA rappresentano un importante fronte di innovazione e possono offrire soluzioni interessanti in determinati contesti applicativi. Tuttavia, non sono la risposta unica e definitiva. Le resistenze alla loro adozione derivano da diversi fattori: costi ancora elevati rispetto ai materiali convenzionali, prestazioni non sempre equivalenti, incertezze normative e difficoltà legate alla gestione a fine vita. A tutto questo si aggiunge un ulteriore elemento da considerare: la complessità dei termini tecnici legati a questi materiali, come “biodegradabile”, “compostabile” o “biobased”, che spesso richiedono una spiegazione più accurata per essere compresi correttamente. È quindi fondamentale fare chiarezza per orientare scelte davvero responsabili. Biodegradabile, per essere chiari, significa che un materiale può essere decomposto da microrganismi presenti in natura, ma questo processo può richiedere tempi lunghi e condizioni specifiche. Compostabile, invece, implica che il materiale si degradi entro tempi definiti e in ambienti controllati – come quelli degli impianti di compostaggio industriale – senza lasciare residui tossici. Non tutti i materiali biodegradabili sono compostabili, e non tutti i compostabili si degradano efficacemente nell’ambiente naturale. Per questo motivo, ogni materiale va valutato lungo l’intero ciclo di vita: dalla produzione al fine vita, considerando l’impatto ambientale complessivo, le infrastrutture disponibili e le reali modalità d’uso. L’innovazione è fondamentale, ma deve essere accompagnata da conoscenza, responsabilità e trasparenza. La Fondazione promuove questo tipo di approccio, basato su dati scientifici, etica progettuale e una comunicazione chiara e rigorosa: solo così possiamo fare scelte davvero sostenibili.

La vita ideale di un imballaggio spiegata “for dummies”

Inizia ben prima della sua realizzazione, ovvero nella fase di progettazione. È qui che si definisce il materiale più adatto alla funzione, si progetta la forma per garantire protezione e praticità, si valuta il modo in cui faciliterà il trasporto, l’utilizzo e la comunicazione verso il consumatore. In questa fase si tiene conto anche della normativa vigente, per assicurare la conformità in termini di sicurezza, sostenibilità e informazione.
Un buon progetto è anche attento all’efficienza: riduce il consumo di risorse, limita i materiali non necessari e prevede fin da subito un fine vita sostenibile. Durante il suo utilizzo, l’imballaggio deve essere funzionale, sicuro, resistente, leggero e facilmente gestibile: deve proteggere il contenuto da contaminazioni, urti o deterioramenti, garantire un’esperienza d’uso affidabile per chi lo maneggia e comunicare in modo chiaro tutte le informazioni necessarie al consumatore. Alla fine del suo ciclo, deve poter essere riutilizzato, riciclato o correttamente avviato alla raccolta differenziata, a seconda delle sue caratteristiche e del sistema di gestione dei rifiuti disponibile. Un imballaggio ben progettato non è solo un contenitore tecnico: è una risorsa che accompagna e valorizza il prodotto lungo tutta la sua vita, contribuendo alla sostenibilità economica, ambientale e sociale. In sintesi: un imballaggio efficace genera valore prima, durante e dopo il suo utilizzo.

Le direttive europee in diversi casi tentano di stimolare non solo il riciclo, ma anche il riutilizzo, in un’ottica di economia circolare. Cosa ne pensa?

Le politiche europee stanno tracciando una rotta sempre più ambiziosa verso l’economia circolare, spingendo il riutilizzo accanto – e in certi casi sopra – il tradizionale riciclo. Il Regolamento (UE) 2025/40 sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio introduce obiettivi vincolanti per la prevenzione, la riduzione, il riutilizzo e il riciclo, con l’obiettivo di armonizzare le regole in tutta l’Unione Europea e stimolare un’evoluzione concreta della filiera. È una direzione a nostro avviso estremamente positiva, che richiede rigore e realismo. Il riutilizzo deve essere parte di sistemi progettati sin dal principio, che considerino logistica, sicurezza dei materiali, efficacia ambientale e i comportamenti degli utenti. Non tutto ciò che è tecnicamente “riutilizzabile” è automaticamente sostenibile: serve un’analisi approfondita del ciclo di vita, caso per caso. Per sostenere le imprese e i professionisti in questo passaggio normativo e culturale, la Fondazione Carta Etica del Packaging ha avviato, in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari di Venezia, il corso di alta formazione Packaging Waste Expert, un percorso che mira a preparare figure competenti e multidisciplinari, in grado di interpretare le sfide poste dal regolamento, coniugando innovazione, etica progettuale e sostenibilità.

Tentando di predire il futuro: cosa succederà, lato imballaggi tra 10 anni? E tra 100?

Tra 10 anni vedremo imballaggi sempre più intelligenti: più leggeri, performanti, facilmente separabili nei materiali, tracciabili, e con una forte integrazione di componenti digitali per garantire trasparenza e sicurezza. La progettazione sarà guidata non solo da esigenze di marketing e protezione, ma da criteri ambientali, normativi e sociali. Tra 100 anni – se avremo lavorato seriamente sul piano culturale e tecnologico – l’imballaggio sarà diventato un ingranaggio perfetto dell’economia circolare: disegnato per essere riutilizzato, rigenerato o riciclato a zero sprechi, sarà percepito non più come uno scarto, bensì come “valore in transito”: un elemento vivo parte di un ecosistema sostenibile. Il lavoro della Fondazione, oggi, è proprio quello di gettare le basi per questo futuro: promuovere responsabilità, conoscenza e visione per costruire un domani in cui l’imballaggio sia parte della soluzione, non parte del problema.

Il suo personale più grande successo professionale… e il suo più grande fallimento

Il mio più grande successo è essere riuscita ad affermarmi come professionista, conquistando stima e autorevolezza nei ruoli che ricopro, senza rinunciare a essere una moglie e una mamma felice. Il mio più grande fallimento è non aver avuto, in alcune occasioni, la prontezza di denunciare con la giusta forza situazioni di discriminazione che purtroppo ho vissuto anch’io personalmente. Con il tempo, ho capito che il silenzio, a volte, è una forma di complicità.

Se potesse esprimere un desiderio, e vederlo realizzato, sul lavoro ma anche nella vita, cosa chiederebbe?

Mi piacerebbe un mondo senza pregiudizi, senza bias, senza più discriminazioni di alcun tipo: questo desiderio vale tanto per il lavoro quanto per la vita personale, perché non può esistere vera innovazione senza giustizia, inclusione e rispetto della dignità di ogni persona.

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