image_pdfVersione PDFimage_printStampa

Siamo arrivati a martedì e il weekend per molti è solo un timido ricordo. Ma mi chiedo: il vostro è andato bene o è stato funestato da messaggi su WhatsApp che nulla avevano a che fare con la cerchia familiare o amicale? Parliamoci chiaramente: l’eccezione ci può stare, ma qui sta diventando la regola.

Non è un capriccio, ma una constatazione: mai come oggi manca una cultura del digitale. Abbiamo a disposizione strumenti straordinari – WhatsApp, Teams, Slack, mail, repository cloud – ma il loro utilizzo è diventato disordinato, quasi caotico. La chat è usata come archivio, la mail come messaggistica istantanea e WhatsApp ormai è diventato l’approdo più immediato. Restiamo alla chat di instant messagging di casa Zuckerberg: con oltre 2,3 miliardi di utenti attivi mensilmente nel mondo e un tempo medio di utilizzo quotidiano di circa 38 minuti per utente, WhatsApp è diventato non solo il canale principale per le relazioni personali, ma anche una piattaforma in crescente espansione nel business: già oltre 200 milioni di aziende lo usano WhatsApp comunicare con clienti e quasi 175 milioni di persone scrivono ogni giorno a un’azienda tramite app.

Diciamoci la verità: nel confronto tra messaggistica e posta elettronica, WhatsApp dimostra una reattività molto superiore: mentre la maggior parte degli utenti controlla l’app ogni giorno e risponde quasi immediatamente ai messaggi, le mail aziendali tendono ad avere tempi di risposta molto più lunghi, rendendo WhatsApp un’alternativa concreta per comunicazioni private e professionali. Nel frattempo i messaggi fioccano senza sosta, anche nel fine settimana, in un cortocircuito che confonde urgenza e reperibilità.

Il punto non è la tecnologia, ma l’approccio. Marshall McLuhan ci ricordava che il medium è il messaggio. Se usiamo il mezzo sbagliato per il contenuto sbagliato, il messaggio perde forza, diventa rumore di fondo. E quel rumore ha un costo: in termini di produttività, di benessere, di fiducia reciproca. La coerenza nell’utilizzo degli strumenti digitali non è un dettaglio tecnico: è una competenza culturale. Significa stabilire regole condivise, definire quali canali usare e per quali obiettivi, rispettare tempi e contesti. Peter Drucker diceva che la cultura mangia la strategia a colazione: se la cultura digitale di un’organizzazione è fragile, nessuna strategia di crescita reggerà a lungo.

Per le startup questo tema è ancora più cruciale. Saper distinguere tra ciò che va in chat e ciò che merita un documento, tra ciò che è urgente e ciò che può attendere, significa guadagnare tempo, energie, lucidità. Significa proteggere l’innovazione. Il digitale non è neutrale: amplifica i nostri comportamenti. Una cultura digitale matura non serve solo a gestire meglio le piattaforme, ma a creare organizzazioni sostenibili, in cui le persone possano lavorare bene, insieme, nel rispetto dei ruoli e dei tempi. La vera sfida non è scaricare l’ennesima app. È decidere, insieme, come usarla con coerenza.

image_pdfVersione PDFimage_printStampa