Raggiungere gli obiettivi DEI senza programmi DEI
Se la vostra organizzazione sa gestire con intelligenza le performance, la diversità sul luogo di lavoro si affermerà in modo naturale

Se la vostra organizzazione sa gestire con intelligenza le performance, la diversità sul luogo di lavoro si affermerà in modo naturale
Negli ultimi anni, i programmi DEI (diversità, equità, inclusione) sono stati ridimensionati sia nel settore pubblico che in quello privato e questa tendenza potrebbe continuare. È un periodo difficile per i sostenitori della diversità all’interno della forza lavoro, che vedono il proprio operato messo in discussione.
Ma ci sono notizie incoraggianti. Un numero crescente di evidenze suggerisce che molte innovazioni manageriali progettate per migliorare le performance portano in realtà a una maggiore diversità nella forza lavoro e lo fanno senza provocare le reazioni negative che spesso suscitano i programmi DEI formali. Queste evidenze si sono accumulate negli ultimi sette anni, caratterizzati da una disoccupazione insolitamente bassa. Nel tentativo di ottenere di più da meno lavoratori e di mantenere alto il loro coinvolgimento, dirigenti avveduti di molti settori hanno iniziato a utilizzare strumenti di gestione orientati all’eccellenza che intervengono in diversi momenti del ciclo di carriera: il recruiting (per attrarre i profili migliori fin dall’inizio), la formazione, il mentoring e il supporto al bilanciamento vita-lavoro (per aiutare ogni persona neoassunta a trovare la propria strada e progredire) e la fidelizzazione nei periodi difficili (per garantire che eventuali tagli vengano decisi sulla base della performance, non della funzione o dell’anzianità).
L’idea alla base di una gestione di questo tipo è semplice: se riusciamo a creare un ambiente di lavoro in cui tutti i dipendenti si sentano valorizzati, supportati e motivati a dare il meglio, otterremo maggiore coinvolgimento da parte loro e migliori risultati aziendali. La diversità non sarà l’obiettivo, bensì un risultato naturale.
La nostra ricerca sulla diversità nei luoghi di lavoro, condotta negli Stati Uniti ma rilevante a livello globale, conferma questa intuizione. Abbiamo effettuato analisi statistiche su dati provenienti da circa 800 aziende di vari settori. Molte delle tecniche utilizzate dalle aziende per migliorare le performance hanno dimostrato di promuovere l’inclusione più efficacemente rispetto a corsi di formazione sulla diversità e a procedure di segnalazione: misure DEI molto diffuse ma spesso controproducenti, come abbiamo già evidenziato quasi dieci anni fa, nell’articolo “Perché falliscono i programmi per la diversity” (luglio-agosto 2016). Questo vale non solo per i ruoli operativi, ma anche per qualunque altra posizione, incluse quelle a livello dirigenziale.
Questo sviluppo sorprendente dovrebbe darci speranza. Se più aziende iniziano a utilizzare determinate tecniche di gestione orientate all’eccellenza, possiamo aspettarci un miglioramento nei loro numeri in tema di diversità, anche quando i programmi DEI formali vengono ridimensionati o eliminati. È però importante dire che queste pratiche aiutano ad attrarre, sviluppare e trattenere talenti diversi solo quando vengono applicate a tutti i dipendenti, non solo a quella piccola percentuale etichettata come ad “alto potenziale”.
In questo articolo, attraverseremo le fasi del ciclo di carriera, focalizzandoci su cinque aziende che hanno costruito strumenti HR orientati alla performance, ottenendo l’effetto collaterale (non intenzionale) di aumentare la diversità.
Nel 2004, Oracle acquistò PeopleSoft, un’azienda di software aziendali, con l’obiettivo di rivoluzionare la gestione delle risorse umane. L’innovazione principale di PeopleSoft era stata un software per il monitoraggio e la contabilità HR. Il CEO di Oracle, Larry Ellison, voleva usare questa expertise per integrare nuove pratiche manageriali orientate all’eccellenza in strumenti cloud: nacque così il sistema Human Capital Management (HCM). Il sistema era solo una delle componenti della suite gestionale Fusion di Oracle, progettata per migliorare non solo le risorse umane ma anche la pianificazione, le performance aziendali, l’esperienza cliente, la produzione e la catena di fornitura.
Il team di Ellison sperava che HCM Fusion superasse la concorrenza anche grazie alla forza delle segnalazioni interne. Studi accademici dell’epoca avevano mostrato che i candidati segnalati da dipendenti avevano maggiori probabilità di fare un colloquio ed essere assunti, ma anche di accettare l’offerta, di offrire performance migliori, restare più a lungo in azienda e ricevere promozioni. Come riportato in un white paper di Oracle, i migliori recruiter per i nuovi talenti si trovavano già in azienda.
Oracle integrò per la prima volta una funzione di segnalazione dei candidati in una piattaforma HCM all’inizio del 2012. Questa funzione permetteva all’azienda di inviare annunci di lavoro ai propri dipendenti, che potevano candidarsi o usare una funzione di “social sourcing” per segnalare amici. Presto, la funzione venne integrata anche nel prodotto tradizionale, Oracle PeopleSoft. I dipendenti che effettuavano segnalazioni andate a buon fine ricevevano un bonus.
Nel 2011, durante una serie di interviste a dirigenti d’azienda statunitensi sul tema del recruiting, ci capitò spesso di parlare dei programmi di referral. Con nostra sorpresa, emerse un beneficio inaspettato: i programmi sembravano aumentare la diversità. In un ospedale di Boston, una responsabile dello sviluppo del personale ci disse che, secondo la sua esperienza, chiedere ai dipendenti di segnalare amici o familiari portava a nuove “ottime assunzioni” e che la diversità “si realizzava spontaneamente”. Altri responsabili HR raccontarono episodi simili.
Più di recente, la nostra analisi su 800 aziende ha confermato ciò che avevamo appreso in quelle interviste: i programmi di referral aumentano effettivamente la diversità, anche nelle aziende che storicamente si affidano a segnalazioni informali. Questo perché i lavoratori appartenenti a minoranze etniche che occupano ruoli operativi raramente si sentono autorizzati a segnalare amici o familiari, a meno che non venga loro chiesto esplicitamente. Un programma formale di referral fa proprio quell’invito chiaro. Anche aziende con una forza lavoro prevalentemente bianca vedono crescere la diversità, perché quei pochi dipendenti non bianchi si sentono legittimati a proporre amici loro. E ogni segnalazione rappresenta una valutazione a doppio senso: del candidato come lavoratore valido e dell’azienda come posto di lavoro attraente.
I benefici si registrano anche nei ruoli manageriali. Le nostre analisi statistiche avanzate mostrano che, se mantenuti attivi per diversi anni, i programmi di referral aumentano del 5% la percentuale di manager neri, ispanici e asiatici. Inoltre, quando le aziende affiancano ai programmi di referral i gruppi di risorse per i dipendenti (employee-resource groups), che possono promuovere efficacemente i programmi stessi, la percentuale di manager appartenenti a minoranze etniche cresce di almeno un ulteriore 7%.
Oggi, HCM Fusion e Oracle PeopleSoft detengono insieme quasi il 20% del mercato dei sistemi di gestione del capitale umano. Altri hanno seguito l’esempio, come Workday, che nel 2014 ha lanciato uno strumento di reclutamento con un pulsante “offri una referenza” e oggi copre il 26% del mercato.
I sistemi di segnalazione da parte dei dipendenti hanno il potenziale per aprire opportunità in tutta l’organizzazione e molte piattaforme HCM li rendono ampiamente accessibili e facili da usare. Tuttavia, finora, la maggior parte delle aziende non ne ha sfruttato il potenziale. Alcune li usano solo per un numero limitato di ruoli difficili da coprire, come chirurghi pediatrici o ingegneri aerospaziali, e così non riescono a beneficiare delle reti di tutti i dipendenti, vera chiave per migliorare la qualità delle assunzioni e costruire una forza lavoro più rappresentativa.
Anche le aziende che usano sistemi HCM spesso non attivano le opzioni di segnalazione disponibili. Questo significa che non possono contare sui propri dipendenti per “vendere” l’azienda alle loro conoscenze e per pre-valutare i candidati. Di conseguenza, queste aziende non riescono a sfruttare il potere delle reti dei dipendenti per reclutare in modo più ampio, anche all’interno di comunità che raramente vengono contattate e tra potenziali candidati che non stanno attivamente cercando lavoro. Grandi occasioni che vanno del tutto sprecate.
Nel 2014, Doug McMillon divenne il nuovo CEO di Walmart. McMillon, che aveva iniziato a lavorare in un magazzino dell’azienda mentre era ancora al liceo, conosceva l’impresa da cima a fondo. All’epoca, Walmart stava perdendo quote di mercato a favore di Costco e Target, che riuscivano entrambi a trattenere meglio i lavoratori di frontline. Costco, ad esempio, aveva ridotto il turnover a un gestibile 17% annuo, mentre Walmart registrava un tasso del 44% complessivo che, in alcuni negozi, arrivava fino al 90%.
Una migliore fidelizzazione si traduceva naturalmente in una migliore esperienza cliente. Un’analisi di Wayne Cascio del 2006 rilevò che, pagando salari più alti e affrontando il problema del turnover, Costco era riuscita a costruire uno staff competente e motivato con una produttività doppia rispetto a quella dei lavoratori di Walmart. Praticamente ogni dipendente di Costco era in grado di aiutare i clienti a trovare ciò che cercavano. Nei negozi Walmart ad alto turnover non era così.
Con Costco e Target che guadagnavano terreno, McMillon era disposto ad aumentare i salari, ma come migliorare anche la qualità del personale? Riflettendo sulla sua lunga esperienza in azienda, decise che la risposta stava nella formazione. Nel 2016, aprì la Walmart Academy, che oggi conta oltre 200 sedi in tutto il Paese e offre un programma di formazione part-time della durata di sei mesi, incentrato su competenze pratiche.
L’Academy rappresentava un’innovazione radicale nel settore del retail. I collaboratori non imparavano soltanto le procedure di cassa. Attraverso esercitazioni pratiche, apprendevano il modello di business del retail, il lavoro di squadra, il merchandising e la comunicazione. In sostanza, frequentavano un corso base di management.
L’aspetto più innovativo del programma era un modulo sui percorsi di carriera. In esso, ogni partecipante sceglieva un obiettivo professionale (ad esempio, supervisore o responsabile elettronica) e imparava come raggiungerlo. Il messaggio per i dipendenti era chiaro: Walmart poteva essere più di un’occasione per entrare nel mercato del lavoro. L’Academy portava avanti l’impegno di lunga data di Walmart sulle promozioni interne (il 70% degli store manager aveva iniziato come commesso) e come incentivo aggiuntivo offriva ai diplomati un aumento di un dollaro l’ora e la possibilità di iscriversi a un corso da assistente manager.
Nel 2020, l’Academy aveva formato la metà degli 1,6 milioni di lavoratori statunitensi dell’azienda. Walmart monitorava 10 metriche per valutare fidelizzazione, produttività e coinvolgimento e confermò che l’Academy stava producendo risultati. Le metriche rivelarono anche che la formazione offerta dall’Academy aumentava la diversità tra i dipendenti, i manager e anche i dirigenti.
Nel 2016, ad esempio, le persone di colore rappresentavano il 42% della forza lavoro di Walmart. I centri di formazione dell’azienda furono lanciati nel 2017 e alla fine di quell’anno le promozioni di persone di colore che passarono da un lavoro operativo a ruoli più manageriali erano aumentate del 5%. Negli otto anni successivi, la percentuale di persone di colore in posizioni manageriali salì dal 31% al 43%.
L’Academy ebbe un impatto positivo anche sulle donne presenti in Walmart. Negli anni 2010, uomini che non riuscivano più a trovare lavoro nel settore manifatturiero statunitense cominciarono a cercare impiego nel retail. Di conseguenza, tra il 2016 e il 2024 la percentuale complessiva di donne nella forza lavoro di Walmart scese dal 56% al 52%. Tuttavia, nello stesso periodo, le donne manager mantennero le loro posizioni e il numero di dirigenti aumentò in modo significativo, dal 32% al 39% (vedi il box “L’evoluzione della forza lavoro in Walmart”).
La nostra ricerca mostra che l’esperienza di Walmart non è unica: tra le 800 aziende che abbiamo studiato, la formazione professionale ha aumentato la diversità nei ruoli manageriali. Offrire esperienze di job rotation per preparare i dipendenti a ricoprire ruoli diversi, ad esempio, ha aumentato dal 3% al 5% la percentuale di donne bianche, uomini e donne nere e uomini e donne asiatici nei ruoli manageriali.
Walmart ha cercato di diffondere i benefici della formazione sulle competenze attraverso la sua rete più ampia, compresa la Walmart Foundation e varie partnership di ricerca. Nel 2022, ha lanciato la One Global Walmart Academy, disponibile per tutti i suoi 2,3 milioni di dipendenti nel mondo, diventando un modello per il potenziamento delle competenze dei lavoratori.
Lo scorso novembre, sotto la pressione di attivisti politici e influencer presenti sui social media, Walmart (come molte altre organizzazioni) ha promesso pubblicamente di ridurre le iniziative DEI e di porre fine ai canali preferenziali per fornitori di proprietà di donne e minoranze. Tuttavia, l’azienda non ha menzionato il suo programma di formazione di enorme successo per i lavoratori di frontline, oltre il 50% dei quali ora sono persone di colore. Con questo programma, Walmart potrebbe aver trovato il modo per aumentare la diversità della forza lavoro e migliorare i risultati economici in un mondo in cui i programmi DEI espliciti sono sotto attacco: un approccio che altre aziende potrebbero voler emulare.
All’inizio degli anni 2000, IBM si trovava ad affrontare una serie di sfide, tra cui una concorrenza feroce sul prezzo nel settore dei personal computer. Due anni dopo aver assunto la carica di CEO nel 2003, Sam Palmisano vendette il ramo PC dell’azienda a Lenovo ed espanse le attività nel cloud computing e nell’intelligenza artificiale. Palmisano investì anche nella gestione dei talenti attraverso la condivisione delle conoscenze e il mentoring individuale, una pratica storicamente incoraggiata in IBM. La sua innovazione radicale in quest’ambito fu la creazione di una piattaforma con una suite di strumenti per trasferire rapidamente conoscenze e competenze essenziali su innovazioni come il cloud computing e l’IA ai 356.000 dipendenti IBM in tutto il mondo. Fra le risorse disponibili sulla piattaforma c’erano guide, storie di successo, podcast, “caffè virtuali” di speed mentoring, caffè di mentoring per studenti di università storicamente frequentate da persone afroamericane e un’app di chat in tempo reale chiamata “Dear Mentor”. IBM creò anche programmi di mentoring internazionali e tra sedi diverse per ottenere i benefici della rotazione del personale (una tradizione IBM) senza causare disagi alla vita privata dei dipendenti. Palmisano incaricò i manager di inserire il mentoring nelle valutazioni delle performance e reclutò figure che lo potessero promuovere.
Ginni Rometty, che ne prese il posto, condivideva l’impegno sul mentoring e l’importanza dello scambio di conoscenze. Quando nel 2018 iniziò a pubblicare i dati sulla diversità in IBM, emerse che l’azienda era avanti rispetto alla maggior parte del settore per quanto riguardava la presenza di donne nei ruoli tech, manageriali e dirigenziali: un altro esempio di come un management orientato all’eccellenza favorisca la diversità. Nei cinque anni successivi, IBM vide crescere costantemente la percentuale di donne in tutte e tre le tipologie di ruolo, anche quando durante la pandemia il settore nel suo complesso perdeva quote femminili (si veda il box “L’evoluzione della forza lavoro in IBM”).
IBM risultò anche leader nel settore per diversità razziale ed etnica nel 2018 e registrò forti aumenti nei cinque anni successivi, nonostante i licenziamenti diffusi nel settore dopo il 2020, che hanno interrotto o invertito i progressi fatti in molte aziende.
La nostra ricerca dimostra che quando esistono programmi formali di mentoring accessibili a tutto il personale, questi aumentano la rappresentanza di donne e persone di colore nei ruoli manageriali, in tutti i settori. Nei settori altamente specializzati, come l’informatica, l’elettronica e la chimica, i programmi di mentoring aumentano la quota di manager donne bianche, nere, ispaniche e asiatiche, così come quella di uomini neri e asiatici, di almeno il 15% nell’arco di più anni. In effetti, in questi settori, il mentoring è in assoluto lo strumento più efficace per promuovere la diversità.
La crescita dello shopping online nei primi anni 2000, accelerata un decennio dopo dalla diffusione degli smartphone, ha rappresentato una sfida per il noto retailer specializzato Gap. Come per Walmart, i dirigenti ritenevano che la sopravvivenza della catena dipendesse dall’esperienza del cliente e, in ultima analisi, dalla qualità del personale di vendita. La crisi finanziaria del 2008 aveva, però, spinto Gap a ridurre le spese, assumere meno collaboratori a tempo pieno e consentire ai manager di modificare i turni dei dipendenti all’ultimo minuto. Queste azioni avevano aumentato l’ansia tra il personale e ridotto il coinvolgimento.
Nel 2014, San Francisco (dove ha sede Gap) approvò le Formula Retail Employee Rights Ordinances, che obbligavano le aziende a garantire ai dipendenti una certa prevedibilità negli orari. Seattle, New York City e lo stato dell’Oregon seguirono a ruota con leggi simili. Questa tendenza spinse Joan Williams, professoressa presso il College of the Law dell’Università della California a San Francisco, a proporre un esperimento ai dirigenti di Gap: implementare alcune innovazioni nella programmazione dei turni ritenute vincenti per migliorare soddisfazione, retention e performance dei dipendenti, e valutarne poi i costi.
L’azienda accettò e lanciò una sperimentazione di 35 settimane in 28 negozi a Chicago e San Francisco. Le modifiche introdotte furono quattro: 1) un’app mobile chiamata Shift Messenger, per permettere lo scambio immediato dei turni senza l’approvazione di un supervisore; 2) un “impegno di massima” a garantire ai collaboratori stabili almeno 20 ore di lavoro a settimana; 3) orari settimanali stabili per questi collaboratori, quando possibile; 4) orari di inizio e fine turno standardizzati.
I dipendenti si dissero molto più soddisfatti dopo i cambiamenti introdotti e i supervisori non manifestarono alcuna lamentela. I benefici, però, andarono oltre la semplice soddisfazione. Williams e il suo team scoprirono che anche l’efficienza era aumentata: le vendite nei negozi crebbero del 7% e la produttività del lavoro del 5%, generando 2,9 milioni di dollari di profitti aggiuntivi nel corso della sperimentazione, ben cento volte il costo delle innovazioni. L’aumento delle vendite fu attribuito a un miglior servizio offerto ai clienti: i dati dimostravano che i collaboratori erano meno stressati e più coinvolti, quindi più disponibili. Questo portava i clienti a effettuare più acquisti e a spendere di più. Con un maggiore coinvolgimento arrivarono anche più feedback e suggerimenti da parte dei dipendenti. Alcuni segnalarono, per esempio, che il 40% delle volte gli articoli richiesti dai clienti risultavano esauriti, così l’azienda sviluppò un’app per il riassortimento tempestivo.
Da allora, Gap ha esteso queste innovazioni a tutti i suoi marchi: Gap, Banana Republic, Old Navy, Intermix e Athleta. Molte altre aziende hanno seguito l’esempio e oggi è opinione diffusa che la prevedibilità degli orari migliori le performance nel retail. La nostra ricerca rivela anche un effetto collaterale poco noto: nel campo della programmazione degli orari, la combinazione di flessibilità e stabilità aiuta tantissimo i datori di lavoro a trattenere e valorizzare persone di colore e donne, aumentando così le loro possibilità di avanzamento verso ruoli manageriali.
Possiamo osservare questo effetto nei dati interni di Gap, che l’azienda ha iniziato a rendere pubblici nel 2011. Analizzandoli, abbiamo riscontrato una crescita costante della percentuale di persone di colore impiegate, con l’eccezione di una temporanea inversione durante la pandemia. Tra gli store manager, la crescita è accelerata sensibilmente dopo il 2018 (periodo pandemico a parte), quando tutte le innovazioni nella programmazione degli orari sono state implementate. Dal 2011 al 2017, la percentuale di store manager appartenenti a minoranze etniche è passata dal 25% al 29%, mentre fra 2017 e 2023 dal 29% al 49% (si veda il box “L’evoluzione della forza lavoro in Gap”).
I dati relativi alle donne in Gap raccontano una storia simile. La percentuale di dipendenti donne è cresciuta gradualmente dal 2011 al 2017, passando dal 73% al 76%, mentre la percentuale di donne tra gli store manager oscillava tra il 68% e il 69%. Dopo l’introduzione delle modifiche agli orari di lavoro, la percentuale di donne alla guida dei negozi è però salita rapidamente, arrivando al 76%.
Questo vuol dire che offrire ai dipendenti orari più prevedibili e flessibili fa sempre aumentare la diversità? Nel nostro articolo “I sorprendenti benefici del sostegno al lavoro/vita privata” (Harvard Business Review, settembre-ottobre 2022), abbiamo analizzato la flessibilità oraria in diversi settori e rilevato che, in effetti, comporta un aumento della presenza di donne bianche, nere, ispaniche e asiatiche nei ruoli manageriali. È notevole, ma la vera sorpresa è che anche uomini neri, ispanici e asiatici ne traggono vantaggio.
Perché? Per il semplice fatto che questi lavoratori vivono spesso in famiglie a doppio reddito con figli e devono conciliare lavoro e cura dei figli. I genitori bianchi negli Stati Uniti oggi possono permettersi più facilmente un aiuto a pagamento, perché in media possiedono una ricchezza superiore di 10 volte rispetto ai loro omologhi neri e ispanici. Donne e uomini neri e ispanici con figli traggono vantaggio dalla prevedibilità e dalla flessibilità degli orari, che consentono loro di tenersi il lavoro, impegnarsi di più (come spesso è richiesto per dimostrare le proprie capacità) e fare carriera invece di doversi spostare verso impieghi meno qualificati ma più flessibili. I dipendenti non bianchi hanno maggior bisogno di questo tipo di supporto, ma è meno probabile che lavorino in contesti che lo offrono. E anche quando ci lavorano, spesso si sentono meno a loro agio nel chiedere aiuto oppure ottengono risposte meno positive quando lo fanno. Quando la flessibilità e la prevedibilità vengono offerte a tutti i dipendenti, le prospettive di carriera per lavoratori neri, ispanici e asiatici migliorano.
Jeff Bezos ha costruito una cultura aziendale fortemente orientata alla performance, nota internamente come “darwinismo intenzionale”. Per far primeggiare Amazon in ogni settore in cui entrava (e-commerce, cloud, device) ricompensava generosamente i top performer, ma al contempo chiedeva ai manager di valutare i dipendenti su una curva, dove almeno un 5% di giudizi dovevano essere negativi. I manager ricevevano ogni anno l’obiettivo di favorire “abbandoni che nessuno avrebbe rimpianto”, da raggiungere tramite pressioni o licenziamenti.
Amazon è cresciuta vertiginosamente tra il 2016 e il 2021, passando da 175.000 a 1.120.000 dipendenti. L’impennata è stata particolarmente forte negli ultimi due anni del periodo in questione, trainata dall’impennata dell’e-commerce e dello streaming durante la pandemia. Con il calo dell’emergenza sanitaria, però, il successore scelto da Bezos, Andy Jassy, ha annunciato un’importante riduzione del personale: 27.000 impiegati corporate sono stati licenziati tra il 2022 e il 2023.
I licenziamenti hanno messo a dura prova la cultura della performance di Amazon. Molti esperti si sono chiesti se i tagli basati sulle valutazioni della performance avrebbero avuto gli stessi effetti dei licenziamenti tradizionali, che spesso colpiscono prima i neoassunti e i reparti considerati “non essenziali” come customer service, ufficio legale e DEI. È noto che questo approccio tradizionale porta a un’emorragia di donne e persone di colore. Sarebbe accaduto lo stesso con i licenziamenti collegati alle performance?
Un’analisi condotta nel 2014 da una delle autrici di questo articolo (Alexandra) suggerisce che il risultato è diverso: questo tipo di licenziamento non compromette la diversità nei ruoli manageriali. E, infatti, i tagli di Amazon non hanno comportato delle perdite soprattutto fra le donne o le persone di colore. Mantenere chi ha le performance migliori si è rivelata una strategia efficace per conservare (e persino aumentare) la diversità nei momenti difficili. In parte, ciò si verifica perché licenziare i neoassunti significa perdere il segmento più diversificato della forza lavoro, cioè i neolaureati.
Inoltre, tagliare i ruoli “non essenziali” comporta spesso l’eliminazione di molte donne e persone di colore, che al momento dell’assunzione vengono facilmente assegnate a tali ruoli.
Amazon ha iniziato a pubblicare dati sulla propria forza lavoro nel 2016, quando il personale ha cominciato a crescere rapidamente. Con l’aumento del personale è cresciuta anche la diversità: un risultato naturale, ma è significativo che la percentuale di manager, personale qualificato e dipendenti appartenenti a minoranze sia continuata a salire anche durante i licenziamenti del 2022 e 2023.
Anche la presenza femminile nei ruoli manageriali e professionali ha continuato a crescere.
Tali risultati dimostrano che i licenziamenti non devono per forza penalizzare i gruppi sottorappresentati. Ora abbiamo prove concrete del fatto che, puntando sulla performance, le aziende possono conservare i propri migliori talenti di tutti i gruppi demografici anche nei momenti difficili. Licenziare per funzione o seguendo il criterio “ultimo arrivato, primo a uscire” significa inevitabilmente tagliare alcuni ottimi talenti e ridurre la diversità aziendale. Le aziende possono anche ridurre il rischio di licenziamenti futuri formando i dipendenti in modo trasversale, affinché siano pronti per ricoprire nuovi ruoli.
L’approccio performance first sta guadagnando adepti. Nel 2025, per esempio, Meta ha chiesto ai propri manager di tagliare il 5% dei dipendenti con le performance peggiori: una mossa chiaramente ispirata al modello Amazon. Questo approccio può sembrare spietato ai dipendenti, tanto che alcuni validi collaboratori decidono di andarsene comunque, ma se un’azienda deve ridurre il personale nei momenti duri, non deve per forza sacrificare i migliori né compromettere la diversità.
Oracle, Walmart, IBM, Gap e Amazon hanno culture e modelli di business molto diversi, ma condividono l’impegno verso l’eccellenza, che le ha spinte a sperimentare innovazioni nella gestione della performance. I loro stessi dati e le analisi condotte su 800 aziende confermano che queste innovazioni favoriscono anche la diversità. A pensarci bene, non è così sorprendente.
Attivando programmi di segnalazione formali, le aziende sfruttano le reti di tutto il personale.
Offrendo percorsi di formazione e mentoring aperti a tutti, estendono i vantaggi del training informale anche a chi ne è solitamente escluso. Garantendo orari prevedibili e flessibili, sostengono i dipendenti neri, ispanici e asiatici che non hanno le risorse per gestire orari rigidi.
E quando licenziano a partire dalla performance, conservano i migliori talenti, evitando di colpire i neoassunti e i ruoli “non essenziali”, in cui lavorano spesso donne e persone di colore. Per anni, esperti di diversity e risorse umane hanno invitato le aziende a cambiare i propri sistemi di gestione per offrire opportunità a tutti. Le soluzioni descritte in questo articolo fanno proprio questo, anche se non era l’intenzione originaria dei loro ideatori. In tempi turbolenti per la DEI, le innovazioni orientate alla performance che aiutano i dipendenti a dare il meglio di sé possono rappresentare la speranza più concreta per il sogno dell’uguaglianza.
FRANK DOBBIN è professore di Scienze sociali nel dipartimento di Sociologia dell’Università di Harvard. ALEXANDRA KALEV è professoressa e dirige il dipartimento di Sociologia e Antropologia presso l’Università di Tel Aviv. Insieme sono autori di Getting to Diversity: What Works and What Doesn’t (Belknap Press, 2022).