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L’intelligenza artificiale generativa sta trasformando il mondo della comunicazione, mettendo a disposizione strumenti sempre più sofisticati per creare testi, immagini, video e suoni. Ma di fronte a questa rivoluzione, il punto non è se l’AI debba essere usata o meno. Il vero tema è come i comunicatori scelgono di governarla.

Nel dibattito sulle AI generative si cade spesso in una contrapposizione ingannevole: da un lato, il timore che la macchina possa sostituire l’essere umano; dall’altro, l’entusiasmo per l’efficienza che può garantire. Ma questa lettura è limitante. L’intelligenza artificiale generativa non è un’entità autonoma: è il riflesso dei dati, dei modelli e delle logiche che gli esseri umani decidono di applicare. Per questo, chi si occupa di comunicazione ha una responsabilità fondamentale: capire come utilizzarla in modo etico e consapevole, senza alimentare disinformazione, bias e distorsioni.

AI e disinformazione: uno strumento nelle nostre mani

Le intelligenze artificiali generative non pensano, non mentono e non hanno intenzioni proprie. Semplicemente, elaborano i dati a cui hanno accesso e producono contenuti basati su schemi probabilistici. Questo significa che, se i dati di partenza sono incompleti o distorti, il risultato sarà altrettanto parziale.

Chi lavora nella comunicazione deve essere consapevole di questa dinamica. L’AI può amplificare la disinformazione, ma non ne è la causa: la responsabilità resta umana. I professionisti e le professioniste del settore devono quindi sviluppare una cultura dell’uso critico di questi strumenti, verificando le fonti, contestualizzando le informazioni e riconoscendo i limiti della tecnologia.

L’AI può diventare un alleato nella lotta alla disinformazione, ma solo se viene utilizzata con metodo e trasparenza. Automatizzare la produzione di contenuti non significa rinunciare alla loro qualità e affidabilità.

Non subire l’innovazione, ma governarla

Ad oggi, il quadro normativo sull’AI è ancora in fase di definizione, e i vincoli per chi sviluppa questi strumenti sono limitati. Chi progetta algoritmi ha il dovere di garantire trasparenza, ma chi li usa ha la responsabilità di comprenderne il funzionamento.

Ci sono ancora molte incognite, per esempio sugli impatti ambientali di questa tecnologia: l’addestramento di modelli come GPT-4 consuma un’enorme quantità di energia, paragonabile al fabbisogno annuo di migliaia di famiglie. Oppure sul tema dei bias: se i dati su cui si basano gli algoritmi sono sbilanciati (e oggi lo sono, basti pensare al gender gap nel settore tecnologico), il rischio è che l’AI amplifichi disuguaglianze già esistenti.

Per questo, i comunicatori non possono limitarsi a “usare” le AI generative, ma devono capire come funzionano, quali sono i limiti e come evitare effetti indesiderati (se non sappiamo come funziona la macchina, non possiamo certo “accusarla” di fare un cattivo lavoro). La formazione continua diventa essenziale: solo chi conosce davvero questi strumenti può governarli, evitando di subirne passivamente le conseguenze.

Un nuovo ruolo per chi comunica: competenza, etica e visione

Cambiano i profili e le modalità del nostro lavoro ma non è – e non può essere – l’AI a decidere se un messaggio è corretto, etico o trasparente. Questa responsabilità resta in mano a noi persone.

Chi lavora in comunicazione deve oggi più che mai esercitare pensiero critico, verifica delle fonti e capacità di contestualizzazione. L’AI generativa può automatizzare alcuni processi, ma non potrà mai sostituire la capacità di interpretare il contesto, di creare connessioni significative e di costruire narrazioni autentiche. Più di tutto, di nutrire le relazioni.

Come sottolineano Massimo Lapucci e Stefano Lucchini nel saggio Ritrovare l’umano, non c’è vera sostenibilità senza mettere al centro la componente Human. Questo vale anche per la comunicazione: se la tecnologia non è al servizio del benessere collettivo, rischia di diventare solo un acceleratore di squilibri.

Quindi, il punto non è se l’AI sia un rischio o un’opportunità. Il punto è quale ruolo vogliamo avere come professioniste e professionisti della comunicazione in questa trasformazione. E la risposta sta nella nostra capacità di usarla con consapevolezza, competenza ed etica.

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