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Ringrazio tutti voi presenti, i co-relatori, e in particolare l’organizzatrice dell’evento Prof.ssa Emilia Costa, alla quale mi lega un’amicizia e una stima solidissime, ormai ultraventennali.

Mi è stato chiesto di dare un contributo alla discussione di oggi dal mio punto di vista di docente in Scienze delle comunicazioni, settore scientifico-disciplinare apparentemente ancillare a quelli più direttamente centrati e coinvolti nel tema della violenza di genere, che state trattando oggi.

Vi chiedo la pazienza necessaria per permettermi di fare una breve premessa, solo apparentemente slegata dal tema del congresso.

Rudolf Virkhow era un patologo e antropologo tedesco, il padre del consolidamento della teoria cellulare moderna e della legge di derivazione cellulare, che nell’Ottocento immaginò le cellule come tante piccole “cellette”, microcosmi a sé stanti e isolati.

Seppure la scienza debba essere molto grata a Virkhow, oggi questo concetto si è molto evoluto, e si parla infatti di “super-organismo”: nel corpo umano vi sono 30.000 miliardi di cellule fortemente interconnesse, nonché 40.000 miliardi di batteri, che formalmente non sono parte del nostro organismo e non hanno il nostro DNA, ma a tutti gli effetti vivono nel nostro corpo e lo condizionano tangibilmente. Esiste persino una stretta dipendenza tra il codice genetico dei batteri e il nostro, fenomeno che prende il nome di microbioma.

Non è quindi più valido da tempo il modello di una sola singola unità indipendente dalle altre, bensì il modello oggi riconosciuto è quello di miliardi di elementi armonicamente interdipendenti fra loro: le cellule si combinano per formare i tessuti, i tessuti per formare gli organi e gli organi per formare gli organismi viventi, che poi agiscono tra loro organizzandosi in sistemi sociali.

Eccoci quindi in un attimo dall’infinitamente piccolo alla dimensione delle relazioni tra esseri umani, relazioni messe a dura prova – tra le altre cose – proprio dalla violenza di genere.

In un mio saggio, dal titolo Apri la tua mente, riflettevo sulla necessità di abbandonare un modello di pensiero binario-sequenziale per abbracciare definitivamente un modello circolare, complesso, fluido, più vicino a quello illustrato dalle più recenti scoperte nel campo della medicina dei sistemi, e – decenni prima – da Ludwig von Bertalanffy, il biologo austriaco noto soprattutto per aver fatto muovere i primi passi alla Teoria generale dei sistemi.

D’altra parte la natura, nel micro come nel macro, obbedisce a leggi basate, appunto, sulla complessità, tematica sulla quale so l’amica Emilia Costa ha concentrato parte della sua ricerca per almeno 30 lunghi anni, forse più.

Ebbene, il passaggio a un livello di interazione superiore, con l’ipotesi di nove miliardi di esseri umani interdipendenti che comunicano tra loro anche grazie alle molecole sine materia costituite dalle emozioni, apre nuovi orizzonti di riflessione: l’essere umano come un sistema di flusso, in continua relazione al proprio interno ma anche con gli altri esseri umani, e non solo, anche in contatto virtuoso (o a volte vizioso, come nel caso delle guerre che affliggono il nostro contemporaneo) con l’ambiente che lo circonda.

Assai stimolante come consapevolezza, quella indotta da queste prime riflessioni, ma anche “scomoda”, in ragione di quanto ci richiama a un ben più alto livello di responsabilità, anche nella relazione con l’altro/altra, e nell’ambito delle dinamiche proprie dei rapporti di coppia, troppo spesso – come ci ricordano le cronache – “tossici e inquinanti”

Anche la natura, d’altra parte, è fonte di continua ispirazione in termini di analogie con i sistemi complessi creati dall’uomo.

A tal proposito, ho piacere di citare e commentare oggi con voi un bell’articolo pubblicato su The New York Times Magazine dallo scrittore Ferris Jabr, che ci accompagna nell’assai stimolante mondo delle foreste, sistemi viventi nei quali – sorprendentemente – enormi reti sotterranee di funghi permettono agli alberi di comunicare e cooperare tra loro, in un enorme e straordinario internet delle piante.

Secondo queste ricerche, sotto la superfice del terreno, alberi e funghi formano delle correlazioni denominate microrrize: si tratta di funghi filiformi che avvolgono le radici degli alberi fino a fondersi con esse, aiutandole a estrarre acqua, fosforo e azoto in cambio di zuccheri ricchi di carbonio, che le piante producono grazie alla fotosintesi.

Gli esperimenti in laboratorio avevano già dimostrato che le microrrize collegano una pianta all’altra: ma qual è in effetti il livello di interazione tra questi elementi, se esiste?

La Professoressa Suzanne Simard, che insegna ecologia forestale all’Università della British Columbia, segue questa linea di ricerca da almeno 30 anni, e – analizzando il DNA delle radici e tracciando il movimento delle molecole sotto terra – ha scoperto che le microrrize collegano tra loro quasi tutti gli alberi di una foresta, anche di specie diverse, in un enorme rete biologica.

E – incredibilmente – tale meccanismo funziona non solo per facilitare il trasferimento di sostanze nutritive, bensì anche per permettere il passaggio di ormoni e di segnali di allarme: ad esempio, le risorse tendono a fluire dagli alberi più vecchi e grandi a quelli più piccoli e giovani, e i segnali chimici di allarme o stress generati da un albero preparano gli alberi vicini al pericolo.

Ad esempio, un albero ormai vecchio e in punto di morte, rilascia una notevole quantità di carbonio in eredità ai propri vicini, mentre le piantine separate da questo reticolo di comunicazione hanno maggiori probabilità di morire rispetto a quelle interconnesse con esso.

In successivi esperimenti, la scienziata dimostrò che in una foresta di abeti ogni albero era connesso all’altro, sottoterra, da non più di tre gradi di separazione, e che quando le piantine di abete erano private delle foglie e quindi rischiavano di morire, inviavano segnali di stress e una notevole quantità di carbonio a un robusto pino nelle vicinanze, che accelerava la produzione di enzimi difensivi.

Jabr, nel suo articolo per il NYT Magazine, ci ricorda quindi come queste scoperte finiscano per contraddire, in parte, le teorie darwiniane della perpetua contesa tra le specie viventi, centrate sulla lotta di ogni organismo per sopravvivere e riprodursi, tutti governati da “geni egoisti”, e portino invece fortemente l’attenzione sul tema del valore della cooperazione tra i singoli appartenenti di un sistema complesso, all’interno del quale possono esserci inevitabili conflitti, ma anche negoziato, reciprocità e solidarietà.

Le più recenti scoperte scientifiche sulla cooperazione tra specie vegetali diverse appartenenti a un macrosistema biologico complesso ribaltano quindi i ragionamenti Darwiniani e ci chiamano in causa, stimolando un’assunzione di responsabilità a livelli molto più alti che in passato.

Oggi, la scienza della complessità studia, come sappiamo, i sistemi complessi e i fenomeni emergenti a essi associati, occupandosi – con una visione interdisciplinare – di studi relativi ai sistemi adattativi, alla teoria del caos, all’intelligenza artificiale e alla cibernetica; approcci che hanno mosso i primissimi passi alla fine del XIX secolo, in seguito alla constatazione che la logica Aristotelica e il dualismo Cartesiano erano ormai inadeguati a comprendere le regole che animano le complesse interazioni del mondo moderno.

Ebbene, tutto ciò dovrebbe valere egualmente anche per l’essere umano, troppo spesso impegnato in una continua lotta, spesso violenta, per il predominio sui propri simili, con risultati quanto mai disastrosi, dinnanzi agli occhi di tutti, più che mai evidenti in questo turbolento XXI secolo, nel quale la violenza contro le donne – sia da parte di maschi tossici, come da parte di governi misogini e totalitaristi, come, per non fare nomi, quello Iraniano del mullah – pare semplicemente non esaurirsi mai.

Chiarito questo, passo ad analizzare un altro aspetto di questa delicata, importante e attuale tematica che è l’oggetto del vostro dibattito di oggi.

Questa nuova idea di noi, della società e del mondo, centrata sulla complessità e sulla circolarità, invece che sul banale approccio sequenziale e binario, porta a tema anche l’indiscutibile potenza delle relazioni nel ridefinire la nostra identità.

Kathleen Wallace, docente di filosofia all’Università di Hempstead (New York) si chiede: “Che peso le relazioni possono avere nella definizione e determinazione della nostra personale identità?”.

Un quesito di straordinaria attualità, a mio avviso. L’osservazione pare dimostrare che, ci piaccia o no, nulla è più plasmabile dell’identità, e che al centro dei vari meccanismi che regolano le modificazioni identitarie vi sono sempre loro: le relazioni.

Già Cartesio intuì secoli fa la forza delle potenziali interazioni tra mente e corpo, ma questo punto di vista appare riduttivo, se guardiamo al dibattito in corso su questi temi nella filosofia contemporanea, centrato fortemente sul concetto di sé come rete complessa, e non più solo di sé come contenitore (di coscienza, educazione, esperienze, emozioni, etc.).

Relazioni quindi fisiche (tra le cellule e tra gli organi del nostro corpo), genetiche (eredità da chi ci ha preceduto), psicologiche (tra i nostri pensieri), emotive (tra le emozioni, nostre e degli altri), ambientali (all’interno della società), e via discorrendo: tutti questi fattori possono condizionare la nostra stessa identità, che tende inevitabilmente a modificarsi nel tempo.

Mille sono i modi nei quali possiamo definirci, sulla base della nostra identità in quel certo momento, evidenzia Wallace: uomini o donne, di destra o di sinistra, credenti o atei, bianchi neri o di diversa etnia, cugini e fratelli di altre persone, amanti di questa o quell’altra arte, estroversi oppure timidi e via dicendo.

In pratica, ognuno di voi potrebbe dire in questo momento: “Sono un uomo di pelle nera, cristiano evangelico, fratello di Luisa, conservatore ma liberale, eterosessuale, sposato, padre di due figli, creativo ma riservato, di lingua ispanica”. Potremmo continuare a lungo, tentando di definirci in base ad alcune delle caratteristiche del nostro essere, che tuttavia – impossibile negarlo – possono variare nel tempo, contribuendo a ridefinire la nostra identità.

Ad esempio, 25 anni dopo – un tempo solo apparentemente lungo, ma che passa in un’istante! – tu, che stai ascoltando o leggendo questa mia relazione, potresti aver abbandonato la tua religione, aver praticato in alcune occasioni la bisessualità, essere diventato molto più estroverso e sicuro di te, tua sorella potrebbe essere venuta a mancare, ed essendoti trasferito per ragioni di lavoro in Francia il francese potrebbe essere diventata la tua lingua corrente di riferimento.

In poche parole, parte delle caratteristiche e delle certezze sulle quali all’epoca avevi definito la tua identità potrebbero essere drasticamente cambiate, ma, non per questo, saresti meno “tu”: semplicemente, le relazioni con ciò che ci circonda hanno influenza e potere su di noi e sull’apparentemente incrollabile perimetro che siamo abituati a costruire per definire – in modo assai rassicurante – il nostro modo di percepirci e farci percepire dagli altri.

Ci sono aspetti che potrebbero essere più dominanti di altri; alcuni potrebbero generare conflitti e tensioni all’individuo stesso, che potrebbe volerne nascondere o dissimulare una parte (ad esempio, quelli politici, o sessuali); altri potrebbero essere oggetto di discriminazione in quanto ritenuti soggettivamente più rilevanti per chi osserva (ad esempio quelli razziali, o relativi al genere); altri ancora si modificheranno con assoluta certezza (nell’esempio sopra riportato, da adolescente non era sposato, e magari dopo i 50 anni ha litigato con sua moglie e ha divorziato). La nostra stessa coscienza, come anche il modo nel quale interpretiamo la vita e il mondo, è effetto di questi inevitabili cambiamenti nelle nostre plurime e mutevoli identità, e questo non deve spaventarci.

Cambiamenti che possono essere scelti oppure subiti, ma che non ci fanno cessare di essere ciò che siamo: semplicemente ci arricchiscono, o ci impoveriscono, ma sempre ci trasformano.

Il continua ad esistere, passando però a una nuova fase. E questa complessità rende anche plasticamente evidente quanto sia riduttivo classificare un individuo o un’organizzazione in base ad una sola delle sue caratteristiche identitarie: “è islamico, è sposata, è una setta, è un’azienda che inquina…” (l’industria che inquina, ad esempio, è la stessa che da anche lavoro a migliaia di famiglie; questo non deve apparire come una giustificazione assolutoria, ma solo come la presa d’atto di una definizione necessariamente più complessa).

Quale può essere allora la ricetta per una convivenza meno tossica?

Forse cercare tra i molteplici aspetti identitari anche ciò che unisce, e non solo la singola caratteristica che “divide”, potrebbe essere utile per coltivare comunicazioni interpersonali e relazioni più sane ed efficaci.

La persona-tipo che abbiamo utilizzato come esempio probabilmente si sentirebbe più apprezzata e comunicherebbe meglio trovandosi in un ambiente politico conservatore, ma ciò non toglie che potrebbe con un minimo sforzo individuare altre e diverse proprie caratteristiche identitarie utili per costruire un dialogo virtuoso anche con un progressista, ad esempio cristiano evangelico come lui. E questa consapevolezza potrebbe generare atteggiamenti meno tossici nei rapporti con gli altri, e in particolare con le donne, esposte statisticamente più degli uomini a gesti e atteggiamenti violenti.

Aggiungo che per anni mi sono impegnato culturalmente per rivendicare l’unicità dell’identità: ai miei discenti ho sempre spiegato che l’identità è ciò che siamo realmente, e che è parte sostanziale della nostra equazione. Resto convinto della peculiarità dell’identità rispetto alla percezione costruita artificialmente o alla vuota ed effimera immagine, ma successivamente – anche in forza dei ragionamenti che ho appena condiviso con voi – ho arricchito il mio punto di vista – modificando quindi in parte anch’io la mia identità! – circa il fatto che l’identità stessa possa arricchirsi (o depauperarsi di qualcosa) e quindi modificarsi nel tempo, sulla base delle relazioni che la coinvolgono, continuando a costruire valore e sopravvivenza, solo in maniera diversa.

Le relazioni, in poche parole, ci ridisegnano ogni giorno, e all’interno della rete complessa che in qualche modo ci definisce, la regola per vincere dovrebbe essere quella della condivisione: quale relazione può sopravvivere se non ben coltivata?

Dovremmo allora agire, pensare e vivere sempre compartecipando, offrendo del proprio ad altri, e viceversa, perché solo seguendo questo modello, “nutrendo” ogni giorno la nostra rete di relazioni, riusciremo a costruire valore in grado di sopravvivere allo scorrere del tempo.

Le relazioni sono il potentissimo solvente universale, in grado di permetterci di risolvere più velocemente qualunque crisi o tensione, sul lavoro come nella vita: mai sottovalutare il loro straordinario, dirompente potere.

Mi avvio verso la conclusione di queste mie riflessioni. Come coltivare, allora, queste relazioni in modo virtuoso e non tossico? Partendo, forse, dalle piccole cose.

Come riportato in un articolo del Washington Post a firma della dott.sa Trisha Pasricha, medico al Massachusetts General Hospital e docente all’Harvard Medical School, l’atto di tenersi per mano non è solo una gestualità antica, ma ha degli effetti straordinari sul nostro organismo: “contribuisce ad abbassare la pressione, a ridurre il dolore e a mitigare le esperienze stressanti”, conferma Pasricha. “È un gesto semplice, ma che può limitare l’impatto dello stress sul sistema nervoso autonomo, regolando funzioni corporee involontarie come la dilatazione delle pupille. Stringere le mani di una persona cara riduce inoltre l’attività delle regioni cerebrali responsabili della risposta emotiva”.

I risultati di queste ricerche sono stati confermati anche da James Coan, psicologo clinico e direttore del Laboratorio di neuroscienze affettive dell’Università della Virginia: “la risonanza magnetica cerebrale dimostra che stringere la mano di una persona conosciuta o, ancor più, per la quale proviamo affetto, riduce lo stress e fa diminuire la paura”.

I ricercatori ci confermano che la regolazione delle emozioni è governata dalla corteccia prefrontale, la regione del cervello che ci aiuta a controllare gli istinti: non per niente, come ricordo spesso ai discenti nelle mie lezioni in università, utilizzare l’intelligenza emotiva significa anche trovare il giusto accordo ed equilibrio tra ragione e sentimento.

Molte altre ricerche di questo tipo confermano anche un altro dettaglio, per nulla secondario: il cervello non percepisce il gesto di stringere la mano come una “novità” rispetto ad una situazione precedente di assenza di contatto, bensì – sorprendentemente – é vero esattamente il contrario, in quanto la condizione neuropsicofisiologica di base è proprio il senso di contatto, di vicinanza e di comunanza con gli altri, e la situazione “anomala” è invece il senso di solitudine, che destabilizza noi e – conseguentemente – l’intero nostro ecosistema di relazioni.

I nostri neuroni si aspettano quindi del tutto naturalmente che esistano dei rapporti di reciproca connessione – delle relazioni, appunto – e questo vale per il cervello umano e anche, a mio avviso per estensione, per qualunque organizzazione sociale complessa: l’uomo e le organizzazioni da esso create nascono per condividere, ovvero dividere con, sinonimo di possedere insieme, partecipare, offrire del proprio ad altri, e viceversa, all’estenuante ricerca del giusto equilibrio che ci permetta di essere utili, come anche di trarre sopravvivenza da chi circonda, per proseguire nella nostra personale missione, quale che sia, nella quale coinvolgere sempre più altre persone, sempre più altre parti di noi.

Abbracciatevi più spesso quindi, e stringete la mano chi stimate o amate, iniziando oggi, subito, nella sala dove vi trovate ad ascoltare questa mia relazione, o nell’ambiente professionale o familiare dove la state leggendo.

Grazie per la vostra attenzione, e buon proseguimento di lavori.


Prof. Luca Poma, Professore in Scienze della Comunicazione e Reputation Management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino

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