Quando si parla del copywriting e della sua storia il pensiero corre senza indugio a William (Bill) Bernbach,
il maestro dei maestri, anche se a scrivere le campagne più famose della DDB furono Bob Levenson, Paula Green e altri. Certo Bernbach aveva ampiamente mostrato di saper usare non solo la testa ma anche la penna, essendosi distinto come copywriter alla Grey e in varie attività di consulenza prima di aprire, a trentotto anni, la propria agenzia e di scatenare con quella la creative revolution degli anni sessanta. Ma è utile ricordare, a chi intende specializzarsi nella scrittura pubblicitaria, il talento e il lavoro di molti altri – dai pionieri come John Caples[1] a Jim Durfee, da Jerry Della Femina a Mary Wells, da Ed McCabe a Barbara Nokes, da David Abbott ad Alfredo Marcantonio, per citare qualche nome alla rinfusa.
Detto questo, occorre chiarire che sarebbe improprio – e, ai nostri giorni, poco producente per un copywriter – limitare il proprio ambito di ricerca e di studio ai soli protagonisti della scrittura pubblicitaria. Che è una forma di scrittura applicata e – pur se contraddistinta da stilemi e funzioni che le appartengono in modo specifico – presuppone un insieme di cognizioni e sensibilità non troppo lontane dalla letteratura, dal giornalismo e da altre forme di espressione colta. Analizzare i contributi pubblicitari più riusciti di ogni tempo è istruttivo e necessario, ma non deve essere l’unico dei serbatoi ai quali attingere: in tal modo si rischia l’iperspecializzazione, tra le cui conseguenze ci sono quelle, mortali, dell’autoreferenzialità e dell’imitazionismo.
Il copywriting presenta qualche somiglianza con le cosiddette arti applicate: arti decorative, arti industriali, artigianato artistico. Attività che procedono da ascendenti “nobili” (le arti vere e proprie) per adattarsi a scopi manifestamente commerciali. Il bravo specialista di design industriale, o editoriale, ha una molteplicità di punti di riferimento che vanno dalla pittura all’architettura, dalla tecnologia alle teorie della percezione. Analogamente, il bravo copywriter trarrà profitto da una varietà di campi estranei, ma solo in apparenza, al tipo di professione cui ha scelto di votarsi. Quella che chiamiamo – con un po’ di autocompiacimento – “creatività” altro non è se non il risultato di fusioni a sorpresa tra intuizioni e stimoli d’origine eterogenea; e più aperti si è alla varietà, più umori se ne possono ricavare. Va dunque bene considerare maestri Bernbach, Tony Brignull, Tim Delaney o il vostro capo, ma a condizione di lasciar entrare nel vostro club ideale anche – sparo a caso – Hemingway, Calvino, la saggistica sul Bauhaus e qualche trattato di economia, filosofia, psicologia, musicologia, un po’ di critica d’arte, insomma quello che vi pare: perché un copywriter che si rispetti deve essere diverso da tutti i suoi colleghi (o antagonisti), e questa diversità la si raggiunge attraverso una formazione così articolata da permettere una fuga dall’omologazione.
Lo stesso termine “copywriter” andrebbe preso come una riduzione di orizzonte. Nessuno si sognerebbe di riferirsi a un Bernbach, o a un Ogilvy, definendolo semplicemente così. Non c’è nulla di offensivo, beninteso, nella parola in sé; tutt’altro. Ma i tempi sono cambiati, esigono un surplus di ambizione e competenze. Le nuove generazioni professionali sono costrette a misurarsi con una committenza scaltrita, scettica, persino avara: questa barriera di resistenza può crollare solo se l’interlocutore è in grado di sottrarsi alla subalternità, forte di una superiore credibilità razionale e dialettica sui problemi o le opportunità che è stato invitato, di volta in volta, ad affrontare.
C’era una volta, a San Francisco, l’agenzia di Howard Luck Gossage, sistemata in una ex stazioncina di pompieri.
La frequentavano divi dello spettacolo come Stan Freberg, teorici della comunicazione di massa come Marshall McLuhan, inventori come Richard Buckminster Fuller, scrittori come John Steinbeck e Tom Wolfe. In Italia Gossage non è mai diventato popolare come altri geni dell’advertising; il suo culto è condiviso all’interno di una ristretta cerchia di fan, che amano presentarlo come “il copywriter più eccentrico di tutti i tempi”. Anch’io l’ho sempre presentato così, ogni volta che ho voluto istigare i giovani copywriter a ragionare in modo “eccentrico” – cioè nell’unico modo che, a parer mio, giustifichi l’insano desiderio di occuparsi di pubblicità.
Vero è che l’eccentricità di Gossage si vede e si tocca con mano in ogni cosa che ha detto, scritto e fatto. Intanto non lo si può chiamare copywriter, anche se va considerato, almeno potenzialmente, tra i massimi trainer della categoria. Gossage è stato un pensatore, scrittore, teorico dei media, operatore culturale, sperimentatore, innovatore – un polivalente uomo di genio prestato alla pubblicità. È stato anche polemista sublime: sarcastico e cattivo come pochi; e gli strali più appuntiti li ha scagliati proprio contro la pubblicità. Con ciò dimostrando, nel modo più esplicito possibile, la verità di un paradosso che mi sta a cuore: per fare della pubblicità interessante bisogna odiarla un po’.
Il nostro uomo scriveva solo, o prevalentemente, annunci destinati a giornali e periodici, con poche o senza immagini ma, in compenso, con abbondante testo. Li pensava come articoli d’informazione, e detestava l’idea di fare uscire lo stesso lavoro più d’una volta, o su testate diverse, perché questo nel giornalismo non si fa. Trovava che la ripetizione fosse un controsenso: una mancanza di fiducia verso i propri mezzi, il giornale ospitante e soprattutto il lettore; un’ammissione di stolidità, di fallimento. Non considerava nessuno dei suoi messaggi come rivolto a una massa, ma a un gruppo di persone che avessero qualche interesse in comune:
«Se avete da dire qualcosa di rilevante, non dovete rivolgervi a molte persone (basta parlare alle persone veramente interessate al messaggio), né dovete ripetervi troppe volte. Quante volte bisogna dirvi che sta bruciando la vostra casa? Quante volte dovete leggere un libro o una notizia o guardarvi un film? Se si tratta di una cosa interessante, basta una volta. Se invece si tratta di qualcosa di noioso, una volta è più che sufficiente.»
Tornava sì sullo stesso tema, ma come si torna su una storia a puntate, ampliandolo e sviluppandolo, aggiungendovi delle novità. L’aspetto più notevole di questa attività stava nel fatto che l’efficacia dei suoi testi si poteva misurare. Non solo perché gli annunci finivano spesso con un coupon che ne rendesse, appunto, controllabile la redemption; ma perché li concepiva allo scopo di mobilitare i lettori alla partecipazione compiendo un gesto specifico, tangibile e riscontrabile. Questo lato dell’esperienza di Gossage è attuale in modo indiscutibile. Fosse vissuto nell’era digitale, avrebbe usato i mezzi di cui oggi disponiamo per moltiplicare in modo considerevole gli effetti di quelle campagne: a dir poco profetiche per il modo di rapportarsi al lettore in una condizione quasi one-to-one, sollecitandone e ottenendone forme di partecipazione attiva sperimentate solo nelle azioni di marketing postale.
Il caso Aria Rosa.
A quei tempi (siamo negli anni sessanta; Gossage è morto nel 1969, poco più che cinquantenne, di leucemia) le compagnie petrolifere erano tra i maggiori investitori in pubblicità. Anche in Italia. Agip, Shell, Esso, British Petroleum e le altre erano una presenza costante sui giornali, sui muri, alla radio e in televisione, come adesso Barilla, Lavazza e le marche di automobili. Si facevano concorrenza a colpi di additivi, puntando su argomenti come l’economia di esercizio e l’ambiente pulito (le colombe) ma, più spesso, la maggiore potenza sprigionata da manipolazioni chimiche dei carburanti (i falchi), spacciate come esclusive e dotate di presunti effetti mirabolanti. «Metti un tigre nel motore.» «Scappa con Superissima.» Gli additivi servivano soprattutto a incrementare il numero di ottano, prima che la benzina verde, senza piombo, entrasse nell’uso comune.
Era evidente anche allora che a quelle promesse, edificanti o spaccone che fossero, non ci credeva nessuno. Così come nessuno si lasciava impressionare dalle cosiddette campagne d’immagine, cariche di simbolismi aggressivi e talvolta pateticamente erotici. A muovere qualche punto Nielsen in più o in meno non erano le rosse sexy con la pompa in mano o i ruggenti felini nel motore, ma le promozioni a punti, come avviene ancora oggi. Nel remoto 1962, Gossage uscì con un paginone di solo testo per l’American Petrofina di Dallas. C’era scritto, a caratteri cubitali e senza virgole, come per simulare un ironico flusso di coscienza:
«Se state guidando per strada e vi capita di vedere una stazione Fina e questa si trova nel vostro senso di marcia così che non siete costretti a fare una svolta a U in mezzo al traffico e non ci sono sei macchine in attesa davanti alla vostra e vi serve benzina o altro** prego accomodatevi.»***
Come negli articoli di giornale, il titolone era sormontato da un occhiello, ovvero un breve testo introduttivo, messo tra parentesi:
[Il nostro motto]*
L’asterisco rimandava a una minuscola nota a pie’ di pagina:
Sappiamo che come motto non è molto stimolante, ma è realistico e del resto Fina non si aspetta da voi nulla che non sia ragionevole e appropriato.
Era tutta qui la chiave concettuale della campagna, e anche l’etica di Gossage: non spariamo sciocchezze, diciamo le cose come stanno.[2] Di per sé la benzina era ed è nient’altro che una commodity: un bene utile ma uguale a sé stesso, a prescindere dalla marca. Non il prodotto, ma la singola stazione di servizio può eventualmente esibire vantaggi differenziati. Il doppio asterisco, dopo le parole «benzina o altro», rimandava a una nuova nota:
Lubrificanti, per esempio. E altri 1503 articoli di cui la vostra auto potrebbe aver bisogno.
Triplo asterisco alla fine della headline, e relativa nota di chiusura:
Tuttavia, se vi mancasse (come probabilmente vi manca) il tappo di una valvola, e ve ne piacesse uno rosa, saremmo lieti di inviarvene uno gratis e prepagato. Dovete solo compilare il coupon. Se dovesse interessarvi anche una carta di credito Fina, segnate una X nell’apposito quadratino.
Il coupon era così concepito:
Spettabile Fina,
o Per cortesia inviatemi un coperchio di valvola rosa.
o Per cortesia inviatemi il modulo per la richiesta della credit card Fina.
Come si vede, la campagna aveva lo scopo di esortare il lettore a compiere un gesto. Non solo un gesto prevedibile, di immediata utilità commerciale; ma anche un gesto superfluo, di pura e scherzosa partecipazione. Chi scrive lancia un’esca per stabilire una relazione basata sul gioco inaspettato e sul nonsense. Gossage prefigura, con mezzo secolo di anticipo e senza computer, un tipo di comunità molto simile al social network; come quando qualcuno, su Facebook, ci invita a giocare a Papa Pear Saga o a Criminal Case. Mettere una X sul coperchio rosa, o sulla richiesta di credit card, equivale al clic su «Mi piace» dei giorni nostri.
E non si creda che quel tappo rosa sia solo una battuta en passant: perché arriva a conclusione di una saga di stravagante rilievo, fondata su un additivo immaginario chiamato Pink Air, aria rosa. La case history dell’aria rosa è burlesca, dada e, al tempo stesso, spietatamente critica sui meccanismi e i cliché della comunicazione di massa. Lo scherzo era cominciato nel 1961 con un annuncio-notizia, una pagina intitolata, per l’appunto,
PINK AIR!
Anche lì il titolo era preceduto da un occhiello tra parentesi quadre, una costante nei lavori di Gossage:
[Fina rivendica la proprietà dell’additivo del futuro.]L’intero testo era impostato alla maniera di un servizio giornalistico:
[Fina rivendica la proprietà dell’additivo del futuro.] ARIA ROSA!Riportiamo questa notizia apparsa sul Daily Commercial News di San Francisco il 21 marzo 1961:
In un futuro non lontano le stazioni di servizio forniranno ai vostri pneumatici aria colorata, anche in tinte brillanti, secondo R. G. Lund, consulente di marketing.
Lund ha dichiarato che le compagnie petrolifere, in linea con una forte tendenza di mercato, «stanno già aggiungendo additivi ad additivi ai loro prodotti per guadagnarsi il favore degli automobilisti in questo settore ad alta competizione. Hanno arricchito di ingredienti extra ogni parte dell’automobile eccetto l’aria che va nelle gomme. L’additivo per l’aria rappresenterà senza alcun dubbio il punto d’arrivo dell’evoluzione in corso.» Ci vorranno dieci anni, secondo le stime dell’esperto di Portland, Oregon, per mettere a punto la ricerca e risolvere i problemi di produzione. Gli impianti esistenti dovranno subire adeguate riconversioni per soddisfare la domanda di prodotti cromaticamente più attraenti. «Ma alla fine», conclude, «le stazioni saranno in grado di offrire aria in sfumature di verde, blu, viola e persino rosa, come avviene per i prodotti destinati alla decorazione d’interni.»
A buon intenditor poche parole, ammesso che ci sia qualche buon intenditore in ascolto. Fina non è il genere di compagnia che si lascia dire le cose due volte. Il rosa è un colore buono quanto un altro e, in più, ha un nome corto e orecchiabile. Lo diciamo per notificarvi che abbiamo deciso di concentrarci su Aria Rosa®.
E non è tutto. Abbiamo già varato, senza esitare, un programma d’urto: il Piano Quinquennale Fina. Ciò che gli altri hanno bisogno di fare in dieci anni, noi lo faremo in metà tempo. Il 12 maggio 1966 – giorno più, giorno meno – chiedete Aria Rosa nelle migliaia di stazioni Fina! La ragione di tanta fretta sta nel fatto che, come dice quel tale, se si vuole stare in vetta bisogna avere qualcosina di nuovo da offrire, di tanto in tanto. Ma la benzina, l’olio e gli accessori Fina sono già buoni come sono, esattamente uguali ai migliori. Non vorremmo aggiungergli nulla che serva soltanto come pretesto per dirvi che l’abbiamo fatto. (Oh, gli additivi li abbiamo anche noi, ci mancherebbe; solo che non siamo riusciti a trovargli dei nomi o delle sigle efficaci). Ecco perché siamo così felici di avere un additivo nuovo di zecca tutto per noi: Aria Rosa. Se vi capita di sentirlo vantare da qualche altra compagnia, fatecelo sapere e la sistemeremo a dovere. Tenete gli occhi aperti. Nel frattempo ci piacerebbe darvi un’idea più precisa di come sarà l’aria nei vostri pneumatici il 12 maggio 1966. Stiamo già lavorando a una serie di prototipi sperimentali. Quando uscirà il nostro prossimo annuncio dovremmo essere già in grado di inviarvi per posta un campione di Aria Rosa; stiamo solo pensando a come non farlo scappare dalla busta. Ed ecco, prima di lasciarvi, il nostro emblema Fina.[3] Così, la prossima volta che vedete una nostra stazione di servizio, potrete riconoscerla. E se si troverà nel vostro senso di marcia in modo da non costringervi a fare una svolta a U e non ci saranno già sei macchine a fare la fila prima di voi e vi servisse benzina o altro, accomodatevi.
La Fina story continua con episodi come The Pink Inch? e Send for your free sample of Pink Air! Nel primo, Gossage si interroga sui problemi di logistica e distribuzione dell’Aria Rosa:
Sorge spontanea una domanda: come far arrivare l’Aria Rosa in oltre 2000 stazioni Fina entro il 12 maggio 1966?
(Aria Rosa, se ve lo ricordate, è l’additivo Fina del futuro; l’ingrediente segreto per colorare l’aria nei vostri pneumatici. Era l’unico additivo ancora mancante; tutte le altre parti della vostra auto hanno già ricevuto le attenzioni dovute. Perché Fina arrivi prima a questo traguardo abbiamo varato un programma d’urto: il Piano Quinquennale Fina.)
Chi ha memoria storica ricorderà i «piani quinquennali» dell’economia programmata dallo stato, introdotti da Stalin in Unione Sovietica nel 1928 e sopravvissuti, in parte, solo nella Repubblica Popolare Cinese. La stampa occidentale non esitava a commentare con sarcasmo queste pianificazioni, specialmente quando gli obiettivi fallivano o venivano ritoccati – a metà strada – in caso di difficoltà insormontabili. Gossage si diverte a caricare lo scherzo dell’aria a colori paragonandola, indirettamente, ai progetti mancati delle strategie sovietiche. All’epoca degli annunci Fina si era appena concluso, sotto la guida di Nikita Chruščёv, il Sesto Piano Quinquennale (1956-1960), esibito come un grande successo dalla propaganda sovietica. La “campagna delle terre vergini”, finalizzata allo sfruttamento di aree incolte, aveva creato lavoro e spostamenti in massa mobilitando 300.000 aspiranti agricoltori russi e ucraini verso le steppe del Kazakistan e dei monti Altai. La produzione di grano era stata notevolmente incrementata, ma la pianificazione aveva trascurato, oltre all’impatto ambientale sui territori interessati, “dettagli” come la costruzione di silos e la gestione della distribuzione: sicché nel resto dell’Urss il grano continuò a scarseggiare e se ne dovettero importare venti milioni di tonnellate dal Canada. Forse fu proprio questo paradosso a ispirare la parodia di Gossage, che nel testo di The Pink Inch? esamina due soluzioni possibili: utilizzare le stesse autocisterne adibite al trasporto di carburante o, in alternativa, realizzare un sistema capillare di oleodotti o pompe («The Pink Inch Hose Line») riservati esclusivamente all’Aria Rosa.
Lo scherzo rende evidente, come in tutto il lavoro di Gossage, una delle caratteristiche del suo metodo: adottare il linguaggio del mezzo utilizzato (in questo caso il quotidiano) anziché il “pubblicitese”, ovvero quel sottosistema di segni e parole al quale l’advertising ci ha abituato. La pubblicità, secondo Gossage, altro non è se non un derivato del giornalismo: un modo parallelo di fare notizia.
L’altro principio tipico della visione di Gossage è, come si è detto, l’interattività con lacommunity di lettori disposti a giocare con lui. L’annuncio intitolato Send for your free sample of Pink Air! promette un campione di Aria Rosa ai curiosi che vogliano dare un sbirciatina in anteprima al “prodotto” allo studio. In realtà si tratta di doppi palloncini a ossigeno, uno infilato nell’altro: una coppia per ogni bambino in casa; il coupon da compilare e spedire alla Petrofina invita ciascun interlocutore a specificare quanti figli ha.
Il gioco diventa ancora più coinvolgente con la promozione «15 iarde di Asfalto Rosa» (equivalente a circa 14 metri di pavimentazione). Questa volta il lettore è chiamato a partecipare in modo creativo: deve spiegare dove e come intenderebbe utilizzare l’asfalto eventualmente conquistato, e sarà la risposta più originale a decretare il vincitore. Oltre che divertente per la sua bizzarria, l’idea sembra essere straordinariamente congeniale alla web communication dei nostri giorni: se ne possono immaginare senza sforzo gli sviluppi su una pagina Facebook, su Twitter (“spiegare cosa faresti con l’asfalto in 140 caratteri”), su YouTube (tutorial videos per lanciare la promozione, candid camera per registrare le reazioni pubbliche a insoliti interventi urbani realizzati con l’asfalto rosa, video creati spontaneamente dai partecipanti, referendum attraverso i social network per designare il vincitore, etc.)
Traduco i passi salienti dell’annuncio di lancio:
[Apriamo la strada a un’altra tappa fondamentale del Piano Quinquennale Fina]
LA VOSTRA CHANCE DI VINCERE 15 IARDE DI ASFALTO ROSA Lo sapete anche voi cosa succede nelle aziende quando un reparto si distingue con qualcosa di speciale: è come con i bambini. Quelli del TBA (Tires/Battery Accessories), per esempio, hanno preteso di avere anche loro un Pink Program. Per non essere da meno, si sono inventati il Tappo di Valvola Rosa («l’accessorio che vi aiuta nel difficile periodo di transizione dall’Aria Normale alla Premium Pink»). Alla Divisione Trasporti, invece, qualcuno ha proposto: «Perché non dipingiamo di rosa un po’ dei nostri automezzi? Almeno la gente saprà che siamo pronti a trasportare Aria Rosa dalle nostre raffinerie Fina, nel caso che la Pink Air Pipeline non sia stata completata entro il Pink Day.» Detto, fatto. Al Dipartimento Asfalti si sentivano tagliati fuori. Siamo mica dei piccoli incatramatori di provincia; siamo fra i maggiori produttori di asfalto del paese. Roba di qualità: il nostro è un signor asfalto. Modello base, il nero; finché i nostri ragazzi non hanno compiuto una serie di esperimenti rivoluzionari. Ecco perché adesso disponiamo di 15 iarde di Asfalto Rosa di qualità superiore, da consegnare a chi sia capace di immaginare il modo migliore di utilizzarle. (15 iarde fanno un bel mucchio di asfalto: che sia rosa o di altro colore pesa una trentina di tonnellate. Se lo vincete, ci vorranno due autoribaltabili con ruote gemellate o due semirimorchi per scaricarvelo a domicilio). Una volta spianato occuperà una superficie complessiva di circa 270 iarde quadrate, che è come tingere di rosa la rampa del box, più un campetto da badminton, più il pavimento di un patio. Oppure sette ottavi di un campo da tennis. Vabbè, d’accordo, ve lo pavimentiamo per intero. Anche se qui nessuno sa come si sentirebbero le mucche in una stalla dal fondo ridipinto interamente di rosa, almeno una cosa possiamo darla per scontata: che l’asfalto ne tratterebbe con delicatezza le estremità, ed è pulito. Riteniamo sia il materiale ideale anche per la copertura di terrazzi e solarium; solo che non abbiamo ancora idea di come portare il rullo compressore a quell’altezza. Quanto a voi, se avete un pezzo che vi piacerebbe rivestire gratis con il Premium Pink Asphalt, non dovete far altro che precisare, nella prima sezione del coupon sottostante, il cosa e il perché. Vince la risposta più interessante.
La chiusura del concorso è annunciata in pretto stile “notizia di cronaca”:
[Fina annuncia tre premi ex aequo, ovvero: ciò che merita di essere fatto, merita pure di essere strafatto]MADRE DI CINQUE FIGLI VINCE 15 IARDE DI ASFALTO ROSA
Dal testo si apprende che la vincitrice del Gran Premio, una signora di Nashville madre di cinque maschi, per anni ha infiocchettato di nastri rosa la culla di vimini nella speranza di partorire una bambina. Auspici sprecati. Ma se il vialetto d’ingresso fosse rosa, la vecchia cicogna… chissà.
Premio di consolazione a una scuola di Wichita, in risposta ai solleciti di 86 studenti vogliosi di una pista o un campo da tennis rosa per «avere qualcosa in cui eccellere dopo i disastrosi risultati conseguiti nel football»; e premio speciale a un benzinaio texano della catena Fina, desideroso di migliorare l’aspetto della sua modesta stazioncina di servizio.
[1] Autore, nel 1925, del citatissimo annuncio per una scuola di musica intitolato They Laughed When I Sat Down At the Piano – But When I Started to Play!–
[2] «La maggior parte dei messaggi pubblicitari va sul sicuro e non esprime un’opinione propria. Non c’è collegamento col pubblico, non si sa mai se si è arrivati fino alla gente, se abbiano applaudito, fischiato o se semplicemente non vi abbiano sentito. Fintanto che la pubblicità non si convince che là fuori c’è qualcuno in carne e ossa e fin quando non gli si rivolge la parola (non con accento pubblicitario ma con la propria madrelingua semplice e senza fronzoli), non svilupperemo mai neanche la metà del senso di responsabilità nei confronti del pubblico e di noi stessi di quanto non ne abbia una spogliarellista di terz’ordine.» (Howard L. Gossage)
[3] Il marchio dell’azienda.