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La cronaca: Deutsche Bank nella bufera

Martedì scorso una cinquantina di funzionari dell’ufficio del Pubblico ministero, dell’Autorità di vigilanza finanziaria BAFIN e dell’Ufficio Federale di Polizia criminale (BKA) hanno “occupato”, con un regolare mandato, la sede della Deutsche Bank di Francoforte e l’edificio della controllata del fondo Deutsche Bank “DWS”, con l’ipotesi di sospetta frode sugli investimenti. In realtà il faro delle autorità di vigilanza si era acceso sull’istituto finanziario già da mesi, e – come in molti celebri precedenti – le avvisaglie c’erano tutte, anche considerando che Deutsche Bank – colosso tedesco definito a più riprese da diversi analisti “spacciatrice di titoli tossici” – non è certo nuovo a questo tipo di scandali.

Il gestore patrimoniale DWS oggi è formalmente accusato di aver venduto “prodotti finanziari verdi” certificati ESG (da chi, sarà da appurare…) come ben più “sostenibili” di quanto non fossero in realtà, sovraposizionando scientemente nelle sue comunicazioni alla clientela il (presunto) basso impatto ambientale degli stessi, al fine di convincere gli investitori ad acquistarli. Una banca che mente, quale inedita novità: che il settore sia tra i più avidi e con la peggiore reputazione sul mercato, in poco nobile gara con i big del pharma e altre “selezionate” multinazionali, è cosa notissima.

In ogni caso, il primo immediato effetto sono state le dimissioni del CEO di DWS Mr. Asoka Wöhrmann: i tedeschi, che tanto si piccano di rigore a Bruxelles, sono invece esperti in dimissioni inutili e di facciata, come già vedemmo nel corso del vergognoso scandalo Dieselgate di Volkswagen, quando l’allora CEO di VW presentò le proprie dimissioni passando però a ritirare alla cassa oltre 60 milioni di euro di buonuscita.

Con un tempismo degno di miglior causa, la SEC – Securities and Exchange Commission, l’ente di controllo USA – aveva proprio poche settimane fa dichiarato che stava pianificando iniziative per reprimere le affermazioni ESG ingannevoli, e anche l’Unione Europea – finalmente – si sta muovendo in questa direzione con precise e più stringenti regolamentazioni. Le nuove regole specificherebbero le informazioni che devono essere fornite dai fondi di investimento quando menzionano termini come “ESG”, “a basse emissioni di carbonio” o “sostenibili” nel loro marketing, e via discorrendo, a maggiore tutela dei cittadini che potranno quindi fare scelte più informate e consapevoli. Era ora, verrebbe da dire, perché mai una moda nel mondo della sostenibilità è stata più pervasiva: i criteri ESG – ovvero gli standard secondo i quali si definisce la compliance sotto il profilo etico riguardo a Environment (impatto ambientale), Social (preoccupazioni sociali) e Governance (sistemi di governo delle organizzazioni) – paiono ormai essere apparentemente irrinunciabili da parte di qualunque azienda.

Ecco cosa succede nei fondi di investimento

Semplicemente – e il caso DWS non fa che confermarlo una volta di più – il procedimento è il seguente: gli analisti selezionano potenziali investimenti attraverso delle analisi puramente finanziarie, che in realtà ignorano le questioni ESG; successivamente, usano – in conclusione di analisi – la performance ESG generale della società come screening finale per la riduzione del rischio, come una specie di “foglia di fico” utile per giustificare scelte già fatte.

La verità è che un metodo così poco personalizzato e così tanto centrato su un fuorviante concetto di materialità, è nel migliore dei casi un’indicazione utile per “prendere le misure” a un intero settore, ma raramente è utile per fotografare al meglio una specifica azienda.

Si tratta infatti di un approccio “burocratico” ad un tema importante e complesso, che – tra l’altro, mi piace ricordarlo – spesso viola i fondamentali stessi del Reputation management, uno dei quali, com’è noto, è quello dell’autenticità, ovvero della correlazione tra identità e immagine. Con il modello basato sugli ESG com’è attualmente inteso ci si concentra – appunto – solo sull’immagine. Questo è, a miei occhi, uno dei limiti principali di questo genere di strumenti: contraddicono l’approccio “tailor-made” che dovrebbe sempre contraddistinguere il lavoro del reputation manager.

Tornando però allo scandalo DWS, le analisi dell’osservatorio di Bloomberg sui flussi income/outcome dei fondi ESG parlano chiaro: nel mese appena concluso sono stati registrati per la prima volta negli anni recenti valori fortemente negativi causato dai disinvestimenti da questo genere di strumenti.

Un “effetto panico” del tutto emotivo, generato dalla contingenza, si dirà, e quindi destinato in parte a rientrare: molto probabile, ma il tema di come riuscire a setacciare le iniziative serie da quelle corrotte dal greenwashing resta comunque più che mai attuale.

Gli strumenti – e le aziende – certificate ESG sono più affidabili e performanti?

Le opportunità di una maggiore crescita in termini di redditività e vantaggio competitivo derivanti dal inserimento dei problemi sociali e ambientali come parte integrante dei piani strategici di una azienda sono confermate da una crescente mole di evidenze scientifiche, a partire dall’antico ma sempre attualissimo lavoro di Robert G. Eccles, Ioannis Ioannou, and George Serafeim: il tema casomai è saper distinguere tra il grano e la gramigna, ovvero – e non è facile – individuare con precisione il greenwashing.

Opinione attualmente diffusa vuole che le società che hanno posizioni migliori in classifica sulla base di metriche ESG, otterranno – già solo per questo – migliori rendimenti per gli azionisti. Come avevo scritto ripetutamente già in passato, anche richiamando il bel lavoro di Porter, Serafeim e Kramer dal titolo “Where ESG fails”, pubblicato nel lontano 2019 sulla rivista Institutional Investor, questa convinzione è semplicemente errata, ed è basata su un castello di carte: metaforicamente, è un gigante dai piedi d’argilla.

Le azioni, quelle si, possono certamente fare la differenza; non altrettanto, di per sé, le “classifiche”: aziende in alta posizione in quelle classificazioni non necessariamente garantiscono over-performance agli investimenti, né un profilo di sostenibilità più elevato.

Il problema però è che molti analisti finanziari considerano il posizionamento rispetto agli indici ESG come un modo per attirare – solo grazie all’apposizione di un “bollino” – investitori socialmente responsabili, nonché come uno strumento per ridurre i rischi di reputazione di una società.

Senza timore di smentita, mi sento di affermare – come già sostenuto autorevolmente dai colleghi che ho citato sopra – che il modello basato sugli indici ESG è centrato su di uno sguardo del tutto generale, avulso dal particolare, che può generare effetti imprevisti e preoccupanti: si tratta in poche parole di una vera e propria mania classificatoria, l’ennesima, tipica del mondo anglosassone e degli USA in particolare.

Quale straordinario effetto rassicurante garantiscono le griglie classificatorie: ne abbiamo un esempio assai calzante nel DSM, il Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali, elaborato da una certa psichiatria organicista americana, che classifica minuziosamente – quanto superficialmente – una miriade pressoché infinita di disturbi mentali, perché per i nostri amici oltreoceano ogni cosa deve avere una sua propria casella ben precisa, quindi c’è un disturbo mentale per ogni minima variazione di temperamento e comportamento. Esattamente come per gli indici ESG: semplici, binario-sequenziali e molto rassicuranti, specie per i bulimici fondi di investimento che centrano convintamente i propri processi di analisi sul modello culturale made in USA.

Per comprendere meglio, facciamo alcuni esempi pratici. L’impatto ambientale di una banca, per esempio, non è rilevante per la performance economica della stessa: una corretta politica di contenimento delle emissioni in atmosfera, otterrebbe un alto punteggio sugli indici ESG, ma non influenzerebbe significativamente le emissioni di carbonio globali. Al contrario, l’emissione, da parte della banca, di prestiti subprime che i clienti non saranno in grado di ripagare, potrebbe avere devastanti conseguenze sociali e finanziarie, come le cronache di pochi anni fa hanno dimostrato; nonostante ciò, il reporting ESG ha dato credito alle banche per la prima questione, e allo stesso tempo ha tralasciato la seconda.

Un secondo esempio? Walmart e Amazon dipendono entrambi da sistemi di distribuzione a uso intensivo di carbonio, ma Amazon ha esternalizzato i costi della distribuzione, della consegna e degli imballaggi, quindi, il suo impatto ambientale risulta essere molto minore di Walmart, nonostante l’impatto per l’alto contenuto di carbonio derivante della spedizione di singoli articoli nelle abitazioni sia enorme. Al contrario, Walmart ha deciso di ridurre fortemente l’impatto ambientale del proprio sistema di distribuzione, integrando nei negozi le spedizioni di grandi volumi, con imballaggi riprogettati, un fleet management innovativo, e investendo miliardi di dollari nella riduzione dei costi. In realtà, il modello esternalizzato di Amazon è molto più vulnerabile alle normative sul carbonio e ai costi del carburante, nonostante l’impatto ambientale della società risulti essere – apparentemente – minore. Come per i corrieri espressi, che in base agli indici ESG presentano un elevato impatto ambientale a causa delle copiose immissioni di Co2 in atmosfera (ma no…? Con migliaia di automezzi in viaggio ogni giorno…) suggerendo così l’opportunità laddove possibile di esternalizzare l’impatto appaltando le consegne a padronicini esterni, e sfuggendo così all’analisi ESG (ovvero alterandone gli indici…).

Mi piace anche ricordare che Volkswagen prima dello scandalo del Dieselgate era prima in molte classifiche ESG, e che Jeff Bezos, con il suo Bezos Earth Fund, ha deciso sì di destinare 10 miliardi di dollari a borse di studio e finanziamento di idee sulla sostenibilità (senza peraltro curarsi di verificare poi il buon fine dei progetti finanziati…) ma ben si guarda dallo spendere un solo dollaro per migliorare realmente la qualità della vita lavorativa e gli standard retributivi all’interno del proprio colosso. E potremmo continuare a lungo…

Morale: l’adozione diffusa dei reporting ESG ha avuto, come effetto indiretto, l’aver “tranquillizzato” gli investitori e i cittadini, ma, al contempo, ha distratto le aziende dall’attrezzarsi per causare un impatto sociale rilevante riguardo alle questioni realmente centrali per i propri business.

Esistono soluzioni?

In questa direzione si sta muovendo in modo assai professionale l’associazione Diligentia ETS[1], che ha redatto un position paper dal titolo “Asserzioni etiche di sostenibilità: criteri di scelta per dichiarazioni affidabili, accurate e credibili”, molto ben costruito, e anche a tratti provocatorio rispetto allo scenario attuale.

La scelta di un’asserzione etica (e questo include anche le certificazioni ESG, sulle quali si è scatenato un assai redditizio mercato della consulenza) dovrebbe essere effettuata in base a criteri di accuratezza, affidabilità e credibilità degli elementi e metriche di valutazione, di competenza di chi effettua le verifiche e, soprattutto, di credi­bilità e affidabilità di chi verifica e valida tali asserzioni, possibilmente in conformità a norme riconosciute a livello internazionale: in molti, moltissimi casi purtroppo – e lo scandalo DWS lo dimostra un’ennesima volta – non è così.

Il Position Paper di Diligentia è frutto di un esercizio di scrittura collettiva cui hanno partecipato numerosi soci dell’associazione e special invitees in rappresentanza di organismi istituzionali e del mondo accademico, ed è articolato in 3 parti: la prima parte è focalizzata sull’analisi del­la domanda di informazioni sulle prestazioni etiche delle organizzazioni proveniente dal quadro normativo emergente e dai diversi Sta­keholders; la seconda parte contiene i 16 criteri proposti da Diligentia per scegliere un’asserzione etica accurata, credibile, affidabile con una verifi­ca e validazione di una terza parte indipendente; la terza parte, infine, mette in evidenza il modo in cui i diversi Stakeholders possono adottare nei propri processi i criteri elencati nella parte 2 e i relativi conseguenti vantaggi.

Tempo addietro, aggiungo, in un articolo per l’Harvard Business Review avevo proposto di considerare le false dichiarazioni in campo ambientale e sociale al pari del falso in bilancio, reato punito penalmente: francamente, mai come ora se ne sente la necessità.

Conclusioni

La domanda è solo apparentemente scontata: ci vuole davvero così tanto impegno per essere autentici? Più autenticità e meno bulimia classificatoria, verrebbe da dire, sarebbe d’aiuto: si abbatterebbe il profilo di rischio e si massimizzerebbero i profitti sul medio-lungo periodo semplicemente facendo le cose per bene, ovvero generando dei cambiamenti concreti all’interno dell’organizzazione e poi comunicandoli all’esterno, stimolando maggior stakeholder engagement, e quindi aumentando il valore del marchio, come la letteratura scientifica dimostra in modo ormai solidissimo.

Come convincere allora gli investitori a uscire dalla zona di confort di un sistema di classificazione “standard”? La domanda è ambiziosa, forse è possibile tentare di indicare delle risposte: una strategia realmente innovativa e in linea con la dottrina del reputation management richiederebbe che le aziende comunichino e misurino rigorosamente le metriche quantitative concrete che collegano direttamente i fattori etici con la performance economica, abbandonando un approccio meramente schematico qual è quello tipico degli ESG come sono ad oggi intesi.

Ad esempio, una società d’investimento non può delegare la considerazione delle questioni sociali e ambientali ad un singolo analista ESG ex post: l’intero team d’investimento dovrebbe combinare la comprensione dei fattori e dell’impatto sociale con la competenza finanziaria e industriale, ad esempio inserendo esperti in questioni ambientali e sociali all’interno dei team che valutano gli investimenti. Gli investitori dovranno iniziare, piuttosto che terminare, le proprie analisi con il passare in rassegna tutte le questioni sociali e ambientali salienti che influenzano le aziende, come i cambiamenti climatici, il crescente interesse per una sana nutrizione, le esigenze della classe media globale emergente, la diffusione di malattie trasmissibili, la bassa produttività dei piccoli agricoltori, il cambiamento dei dati demografici di dipendenti e clienti, gli effetti della carenza idrica e via discorrendo.

Inoltre, analizzare e comprendere queste dinamiche sociali e ambientali aiuterà gli investitori ad anticipare i cambiamenti nel proprio settore industriale e a identificare le opportunità per la creazione di valore condiviso nel futuro: Summa Equity, un fondo d’investimento azionario scandinavo, ha deciso ad esempio – come ricordano Porter, Serafeim e Kramer nel loro paper – di muoversi proprio in questa direzione. Sarebbe interessante analizzare con attenzione e nel dettaglio le procedure seguite dai più importanti fondi di investimento green per verificarne l’aderenza alle buone prassi seguite da Summa e da pochi altri.

Il capitalismo, quando introduce preoccupazioni di carattere etico nel business, può rappresentare una leva potentissima di sviluppo: ma i cittadini chiedono concretezza e autenticità, non solo promesse e greenwashing. Gli investitori possono scegliere di guadagnare denaro e nel contempo di contribuire a una comunità più sana, prospera e sostenibile, o possono decidere di ricavare alti rendimenti ma in modi distruttivi per la società stessa.

È ora di scegliere: è tempo di fare qualcosa di concreto, non solo di compilare checklist.

PS: sugli ESG per ora ci fermiamo qui, ma in giugno porremo l’attenzione su un altro tema caldissimo, ovvero la blockchain, venduta come garanzia di totale affidabilità nelle asserzioni di carattere etico e anch’essa ultimamente molto di moda. È sempre così? In realtà abbiamo individuato e analizzato i primi casi – abili e diabolici! – di greenwashing anche sulla blockchain, che dovrebbe essere lo strumento di trasparenza per eccellenza. Purtroppo, ne vedremo – e leggeremo – ancora delle belle…

Breve bibliografia:

  • Cappucci, M. (2018), The ESG integration paradox, Journal of Applied Corporate Finance, 30(2), 22-28.
  • Cornell, B., & Damodaran, A. (2020), Valuing ESG: Doing good or sounding good?, NYU Stern School of Business.
  • Eccles, R. G., Ioannou, I., & Serafeim, G. (2014), The impact of corporate sustainability on organizational processes and performance, Management Science, 60(11), 2835-2857.
  • Gartenberg, C., Prat, A., & Serafeim, G. (2019). Corporate purpose and financial performance. Organization Science, 30(1), 1-18.
  • Hafner, M., Pollard, J., & Van Stolk, C. (2020), Incentives and physical activity: An assessment of the association between Vitality’s Active Rewards with Apple Watch benefit and sustained physical activity improvements, Rand Health Quarterly, 9(1).
  • Ioannou, I., & Serafeim, G. (2015), The impact of corporate social responsibility on investment recommendations: Analysts’ perceptions and shifting institutional logics, Strategic Management Journal, 36(7), 1053-1081.
  • Lierop W. V. (2020), Most ESG Investing Makes A Charade Of Fighting Climate Change, Forbes.
  • Lierop W. V. (2021), Accusations Of ESG Greenwashing Miss The Point, Forbes.
  • Porter, M., Serafeim, G., & Kramer, M. (2019), Where ESG fails, Institutional Investor, 16.
  • Yu, E. P. Y., Van Luu, B., & Chen, C. H. (2020), Greenwashing in environmental, social and governance disclosures, Research in International Business and Finance, 52, 101192.

[1] Disclaimer sul conflitto di interessi: sono tra i co-fondatori dell’associazione, e membro, pro-bono e senza fine di lucro, del comitato scientifico della stessa, dal maggio 2022

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