image_pdfVersione PDFimage_printStampa

Transizione digitale, mutamenti climatici, pandemia: negli ultimi vent’anni è cambiato il mondo, e con lui l’arte della diplomazia. Se per negoziare bisogna comunicare, il negoziatore 2.0. ha bisogno di nuovi ferri del mestiere: non più tastare il polso all’interlocutore nelle pause caffè di trattative fiume, ma padroneggiare la dittatura tecnologica, sorta di dad istituzionale che impone video-riunioni. Fino alla “twiplomacy” (almeno prima di Elon Musk), la declinazione per cui nel 2011 il ministro degli Esteri svedese fu contattato dal suo omologo del Bahrein attraverso un cinguettio. Ma andò peggio a Massimo D’Alema che nel 2007, da ministro degli Esteri, si ritrovò in prima pagina sulla stampa la lettera aperta di sei ambasciatori stranieri che lo invitavano pubblicamente a non abbandonare l’Afghanistan. Insomma, con il rimescolamento degli equilibri economici e finanziari globali portare a casa un accordo commerciale o un trattato di pace richiede competenze in costante
aggiornamento.

E proprio alla fluttuante arte della diplomazia novella è dedicato il manuale “Negoziato e comunicazione negli anni Venti” curato da Francesco Tufarelli, attuale segretario generale del Cnel, e da Monica Didò, direttrice del centro studi La Parabola (in uscita per edizioni The Skill Press).

Una “cassetta per gli attrezzi” con i contributi di una ventina di esperti tra cui Constantina
Skenteri docente della Swiss School of Management, Cristiano Zagari esperto di tecniche di negoziato e posizionamento internazionale, Luca Poma professore di reputation management alla Lumsa. Il titolo gioca sui parallelismi tra gli avvenimenti del primo ventennio del secolo scorso – Mussolini e il primo populismo tra partiti di massa e suffragio universale – e quelli del primo ventennio di questo millennio funestato da crisi economica e pandemia.

Anni, questi ultimi, adrenalinici anche per chi tesse i fili delle intese. Cambiamo strumenti e modalità negoziali. I grandi game changer sono due: la transizione ecologica – che intreccia obiettivi politici e bilancia degli scambi – e quella digitale che ha introdotto nel linguaggio comune criptovalute, fintech e metaverso. Emerge quello che Zagari chiama “effetto Bruxelles”: il ruolo dell’Unione europea come titolare di un soft power a livello mondiale, crocevia di regole certe e autorevoli, mercato enorme di consumatori consapevoli, infine partner affidabile ma non temibile (troppo arretrate la sua tecnologia e le sue infrastrutture) per Usa e Cina, al punto da diventare quasi un arbitro nelle loro contese commerciali. Un ruolo che la partita collettiva dei vaccini anti-covid ha amplificato. E che ora si trova davanti alla sfida del Pnrr, “cigno bianco” per il futuro degli Stati, frutto di un braccio di ferro in guanti di velluto: moltiplicatore di valore sul piano delle riforme e della formazione di classe dirigente (attenzione: a valle come a monte, inutile avere grandi cervelli programmatori se negli enti locali si strozza l’imbuto). Mentre caso di scuola delle difficoltà pratiche sono stati gli estenuanti round per arrivare alla direttiva sul tabacco aromatizzato, contemperando interessi economici dei produttori e tutela della salute collettiva.

Il negoziatore moderno, poi, deve tenere conto dei novelli stakeholder: non più solo pubbliche amministrazioni e governi. In partita sono entrate le grandi aziende capaci di influenzare il dibattito (un esempio su tutte: le Big Tech che detengono il potere assoluto sui nostri dati sensibili) e i gruppi di pressione e interesse civico. Si è affermato nel tempo un concetto che affianca quelli tradizionali della “diplomazia segreta” – la Triplice Alleanza versus la Triplice Intesa – e della “diplomazia aperta e trasparente” tessuta dal presidente americano Wilson che portò alla nascita della Società delle Nazioni. Et voilà la “public diplomacy”, la diplomazia pubblica che consiste – spiega il professor Poma – nell’insieme di azioni e procedure per influenzare le opinioni pubbliche. Insieme al “nation branding” ovvero l’applicazione di tecniche di marketing e comunicazione aziendale a supporto della reputazione di uno Stato.

Tutto questo esisteva già durante la Guerra Fredda, quando gli Usa combattevano i sovietici a colpi di blue jeans e rock’n’roll, e la propaganda si rivelava più efficace delle minacce. Penultima evoluzione (prima appunto della twiplomacy) è la “digital diplomacy” cavalcata da Barack Obama, che in campagna elettorale fece distribuire non gadget ma 10mila questionari per “profilare” gli elettori e rispondere alle loro attese. Anche se ogni regola contiene un’eccezione: accusato di laconicità, Mario Draghi stroncò i cronisti con un “parlerò quando avrò qualcosa da dire”. Tufarelli mette in guardia dagli eccessi tecnologici: “Nelle video call il
negoziato ha perso la sua vera anima”. Già: qualsiasi comunicazione parte dall’empatia, dalla chimica che si sviluppa tra le persone. E il “diaframma del video”, oltre ai costi, spesso riduce anche i risultati.

Tutti

image_pdfVersione PDFimage_printStampa