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sgretolarsi, il suo pr e addetto stampa sapeva esattamente chi chiamare. Beccato con la droga? Sorpreso a tradire il coniuge? Pagato per una prestazione sessuale sul Sunset Boulevard? Bastava una telefonata: un’intervista con Oprah, una copertina su People, e si poteva imboccare la strada verso la redenzione. Lo scenario oggi è cambiato. I vlogger di gossip su YouTube hanno la stessa risonanza mediatica di Anderson Cooper, gli account dei fan di Selena Gomez vantano più follower di interi Paesi europei, e gli influencer di TikTok specializzati in tutorial di trucco affrontano le deposizioni legali con la disinvoltura di avvocati al terzo anno di pratica. Un numero crescente di persone si guadagna da vivere analizzando ogni passo falso delle celebrità e la natura di ciò che costituisce uno scandalo è cambiata. In questo clima, un gesto innocuo, come smettere di seguire un collega su Instagram, può diventare un caso diplomatico. Blake Lively e Justin Baldoni sono stati coinvolti in una guerra mediatica senza tregua. L’era del gossip h24 e della sorveglianza permanente ci ha insegnato che i crolli privati possono diventare titoli da prima pagina. Leccare un vassoio di ciambelle o litigare con il marito di tua sorella in ascensore, sperando di farla franca una volta era possibile. Prima dei bot. Prima degli account sarcastici su Reddit. Prima dei pettegolezzi

Forse, viviamo il momento più difficile in assoluto per essere una star, ma è l’età dell’oro per lavorare nelle pubbliche relazioni quando c’è da assistere una celebrità da tirare fuori dai guai. Se hai l’abilità di placare gli influencer, piegare l’algoritmo e convertire la folla digitale in un esercito personale, i tuoi servizi non sono mai stati così richiesti. Lo conferma Emily Reynolds Bergh, che gestisce un’agenzia di comunicazione con sede a Nashville munita di un reparto di PR specializzato in situazioni di crisi: «Quando è esplosa la cancel culture, il mio lavoro è decollato».

Spesso etichettati come esperti di “comunicazione strategica”, questi addetti stampa d’élite operano appena dietro le quinte del mondo scintillante dei junket e dei red carpet. Il loro mestiere? Trovare soluzioni costose ai guai di Hollywood. «Più il servizio è salato, meno è probabile che venga definito PR», mi confida uno di loro. «Miglioramento e sviluppo della reputazione, prevenzione delle crisi: è il tipo di assistenza che vendo». Laureati in giurisprudenza, dal curriculum che spesso include incarichi governativi, questi architetti della reputazione si muovono con disinvoltura, tra affari e politica, rappresentando non solo star in caduta libera ma anche aziende e Stati sovrani. E no, non sono lì per organizzare un’intervista lampo sulla nuova linea di balsami biologici di una celebrità.

Sebbene tutte le principali agenzie di PR nel mondo dello spettacolo offrano servizi di gestione delle crisi, naturalmente a tariffa maggiorata, la parte più delicata del lavoro viene affidata a specialisti del calibro di Matthew Hiltzik di Hiltzik Strategies (tra i suoi clienti: Brad Pitt, Johnny Depp), Risa Heller di Heller (Anthony Weiner, Mario Batali, Jeff Zucker) e Michael Sitrick di Sitrick and Company (il patrimonio di Michael Jackson, Dartmouth, Twinkies). Molti dei giovani che fondano agenzie del genere hanno fatto gavetta in questi studi: Melissa Nathan, rappresentante di Justin Baldoni, ha lavorato per anni alla Hiltzik prima di mettersi in proprio. A capo delle squadre che gestiscono la reputazione ci sono quasi sempre gli stessi nomi: avvocati specializzati in intrattenimento. Se sei furbo, «assumi Marty Singer o Bryan Freedman», mi informa un addetto stampa. Sono loro che entrano in scena appena il gioco si fa duro.

I casi legali clamorosi, sono il pane quotidiano delle agenzie di PR specializzate nel gestire le crisi. Grazie all’accesso ai documenti pubblici, una quantità crescente di informazioni su personaggi famosi diventa materiale grezzo per investigatori dilettanti e commentatori digitali. Il compito dell’addetto stampa è governare questo flusso: durante il processo a carico di Diddy, Holly Baird, specialista di crisi per Sean Combs, ha garantito che influencer e giornalisti avessero accesso alle trascrizioni quotidiane, permettendo ai TikToker di rilanciare citazioni dalle testimonianze non trasmesse in tv. Le cause legali diventano spesso strumenti di comunicazione strategica. Grazie a un principio chiamato fair report privilege, privilegio di cronaca, i giornalisti possono riportare le affermazioni contenute nei documenti ufficiali con un rischio minore di incorrere in accuse di diffamazione. Il risultato? Atti giudiziari che sembrano articoli di rivista. Quando Justin Baldoni ha contro-citato Blake Lively lo scorso gennaio, il suo team ha pubblicato online il testo della causa. Sembrava l’incipit di una fiaba dark: “Quella che segue non è una storia che i querelanti avrebbero mai voluto raccontare”. E da lì, ogni dettaglio è stato messo nero su bianco.

Holly Baird ha lavorato con Sean “Diddy” Combs durante il suo caso

Nel 2025, una cultura già ossessionata dalle celebrità è stata ulteriormente alimentata dagli algoritmi dei social media, che premiano l’indignazione, la speculazione e il voyeurismo. Il risultato? Una nuova avanguardia di detective digitali, teorici della cospirazione ed esperti da salotto che si guadagnano da vivere seguendo il flusso incessante di scandali legati ai volti noti. I professionisti delle pubbliche relazioni hanno capito che non basta più gestire i media tradizionali: oggi è fondamentale lavorare sugli influencer indipendenti, spesso immuni alle logiche di potere. «Non credo mai a nulla di ciò che mi dice un pubblicitario», afferma il gestore dell’account anonimo Deuxmoi, diventato una fonte quotidiana di gossip sulle celebrità. «Devono manipolare la verità ogni giorno e non riesco a immaginare un lavoro più stressante. A volte, mi dispiace persino per loro».

Nel 2018, la Principal Communications Group rappresentava l’Academy of Motion Pictures quando sono riemersi alcuni vecchi tweet omofobi di Kevin Hart, allora designato come presentatore degli Oscar. Hart ha rinunciato all’incarico, e poco dopo il team ha lanciato Foresight Solutions, una “società di gestione della reputazione” il cui staff include due ex profiler dell’FBI.
La missione: proteggere studi cinematografici e reti televisive dai danni reputazionali, scandagliando ogni angolo del web alla ricerca di informazioni compromettenti, compreso il dark web, dove, come ha svelato una fonte, «si può comprare di tutto, dai trapianti di organi all’indirizzo di casa di Bob Iger». Purtroppo, nemmeno l’accesso al mercato nero delle milze è servito a Netflix nel momento in cui, all’inizio del 2025, sono riemersi alcuni tweet razzisti di Karla Sofía Gascón, protagonista di Emilia Pérez. L’incidente ha probabilmente compromesso le sue possibilità di vincere l’Oscar come miglior attrice protagonista.

Le agenzie di PR specializzate nella gestione delle crisi hanno potenziato le loro operazioni digitali. Con testate come CNN o Reuters, «siamo riusciti a rettificare le notizie e a ottenere correzioni a mezzanotte», racconta Michael Sitrick, che Gawker ha definito il “Maestro Ninja dell’Arte Oscura della Manipolazione”, un titolo che lui stesso riporta con orgoglio sul sito della propria agenzia. Eppure, avverte: «È impossibile fare lo stesso con Instagram, X o qualsiasi altro social. Non c’è nessuno da chiamare». Non a caso, quattro anni fa, Sitrick ha assunto Yael Bar Tur, ex addetta stampa dell’esercito israeliano, già a capo del team social media del Dipartimento di Polizia di New York, per dirigere il reparto digitale dell’agenzia. Oggi, dice, l’azienda utilizza sofisticati strumenti di ascolto sociale utili a monitorare in tempo reale le conversazioni online, nel caso in cui qualcosa di problematico venisse pubblicato nel cuore della notte.

Da giornalista, passata dalle interviste leggere alle celebrità al lavoro d’inchiesta, pensavo di conoscere il manuale delle PR in caso di crisi. Quando leggevo una citazione anonima attribuita a “una fonte vicina a Drake, Leo, Meghan e Harry” su Page Six o TMZ, sapevo che non si trattava di un amico qualunque che parlava ai tabloid, ma delle parole calibrate di un consulente di crisi ben pagato, operativo da una sala stampa blindata a Century City. Stavo in guardia. O almeno così credevo.


A un certo punto, nella primavera del 2024, ho percepito qualcosa di strano attorno a Blake Lively. La cosa curiosa è che, fino a quel momento, non avevo prestato particolare attenzione alla polemica montata intorno al suo film It Ends with Us – Siamo noi a dire basta, né avevo seguito le gaffe che iniziavano a circolare, come la volta in cui ha invitato il pubblico a «indossare abiti a fiori» per andare a vedere un film dove si parla di violenza domestica. Dopo una semplice navigazione sui social, ho avvertito una crepa nella narrazione che la riguardava. Quell’informe palude di opinioni pubbliche, dove le reputazioni si costruiscono e si dissolvono, sembrava avere cambiato tono. E, in modo quasi impercettibile, anche la mia impressione si era trasformata. Non pensavo più a Lively come alla donna elegante e da me tanto apprezzata in 4 amiche e un paio di jeans. Qualcosa, o qualcuno, mi aveva instillato l’idea che fosse fredda e presuntuosa.

Alla fine di dicembre 2024, il New York Times ha pubblicato una notizia che ha cambiato il tono della conversazione intorno a Blake Lively. L’articolo raccontava di una causa intentata dall’attrice contro il collega e regista di It Ends with Us, Justin Baldoni, e il suo team di PR di crisi, guidato da Melissa Nathan. Nel documento legale, Lively accusava Baldoni di comportamenti inappropriati sul set. Il cuore della denuncia, però, riguardava qualcosa di più inquietante: l’uso, da parte del team di Baldoni, di un “esercito digitale” per diffamarla. La causa citava un preventivo da 175.000 dollari che Nathan avrebbe presentato al Wayfarer Studios, la società di Baldoni, per un piano di “manipolazione sociale” comprensivo di cancellazione di account, diffusione di thread speculativi e altre tattiche in grado di spingersi, secondo Lively, «ben oltre le normali PR di crisi». Il documento elencava una serie di messaggi di testo che, secondo l’accusa, avrebbero dimostrato un’azione deliberata per orientare l’opinione pubblica contro l’attrice. Non si trattava di inserire citazioni anonime nei tabloid o di negoziare con i giornalisti sui dettagli. Sembrava qualcosa di più oscuro. Quasi una forma di magia nera digitale.

«Se affermi: “Farò solo quello che farebbero i giornalisti più etici”, allora non stai davvero partecipando a nessuna strategia mediatica»

Baldoni e Wayfarer hanno risposto al fuoco. Nella loro controquerela hanno dichiarato che la presunta campagna diffamatoria non era dimostrabile e, di fatto, non esisteva. Hanno negato le accuse di cattiva condotta sessuale mosse da Lively e sostenuto che Stephanie Jones, fondatrice dello studio Jonesworks e in passato rappresentante di Baldoni, avrebbe fatto trapelare messaggi privati poco lusinghieri con l’intento di danneggiare Baldoni e la pubblicista di Wayfarer, Jennifer Abel. Jones, da parte sua, ha precisato che quei messaggi non erano stati divulgati, ma forniti come prove in seguito a un mandato di comparizione. La controffensiva si è estesa anche al New York Times, accusato da Baldoni e Wayfarer di avere pubblicato un articolo basato su una denuncia legale non ancora formalmente depositata al momento della raccolta delle informazioni. Secondo loro, si trattava di un tentativo di diffamazione orchestrato da Lively attraverso il quotidiano. La risposta finale è arrivata sotto forma di un sito web, thelawsuitinfo.com, dove sono stati resi pubblici centinaia di messaggi di testo tra Lively, Baldoni e altri protagonisti della vicenda. Un giudice ha poi respinto le cause intentate da Baldoni, ma non prima che fossero lette, condivise e analizzate da milioni di persone.

Seguire gli sviluppi della vicenda è stato come subire un colpo di frusta: il fastidio iniziale si è trasformato in una strana forma di empatia, lo scetticismo ha ceduto il passo al dubbio, e le alleanze, quelle interiori e digitali, hanno oscillato dopo ogni nuovo flusso di messaggi o video imbarazzanti trapelati dal set. Capire cosa fosse realmente accaduto sembrava impossibile. E presto, il “cosa fosse successo” è stato oscurato da qualcosa di più grande: la metastoria del ruolo delle PR di crisi in tutta la vicenda. La maggioranza dei professionisti consultati, hanno dichiarato che la mia confusione era il sintomo di una cattiva gestione della crisi. Secondo loro, i rappresentanti di Baldoni e Lively non erano degli specialisti, ma semplici addetti stampa catapultati in una situazione che richiedeva ben altro tipo di competenze. «Sembrano dei dilettanti», ha commentato uno dei consulenti più navigati. «Chi scrive certe cose in un messaggio?». Nel frattempo, Lively ha alzato il livello della sua difesa, assumendo Nick Shapiro, ex vicecapo di gabinetto della CIA, già responsabile della risposta dell’amministrazione Obama all’attentato alla maratona di Boston e al disastro nucleare di Fukushima.

Baldoni e Lively sul set of It Ends With Us

Alcuni PR di crisi sostengono che il settore operi secondo un codice etico, e i loro servizi si siano semplicemente adattati a un ecosistema mediatico pronto a premiare i contenuti più accattivanti, provocatori o narrati in prima persona. «Proprio come si è evoluto il giornalismo, così ha fatto la nostra professione», afferma il direttore di una delle principali agenzie per celebrità. «È una corsa al ribasso, e nessuno ne esce vincitore». Altri, come Susie Arons, presidente della comunicazione strategica di 42West, prendono le distanze dalle accuse di “manipolazione sociale” sollevate da Blake Lively. Le loro agenzie, dicono, non si sono mai prestate a operazioni del genere, e scaricherebbero qualsiasi cliente che chiedesse loro di agire contro l’etica professionale.

A essere sincera, non mi interessa granché l’altalena reputazionale di una singola celebrità. A inquietarmi è un’altra domanda: i pensieri che faccio sono davvero miei? Chi sono le figure che lavorano dietro le quinte per orientare le nostre emozioni verso i volti pubblici suggerendoci quali meritino indulgenza o disprezzo? Come lavora chi prende in carico alcune delle persone più odiate del Paese per convincere il pubblico che, forse, non sono poi così male?


È metà giugno, a poche settimane dall’assoluzione di Sean “Diddy” Combs dalle accuse più gravi nel processo federale per traffico sessuale e racket. Sono seduta tre metri dietro l’imputato, nell’aula del tribunale di Manhattan. Combs si muove nervosamente sulla sedia. Ha un’aria provata: capelli grigi, occhiaie profonde, abiti trasandati. Accanto a me, impeccabile nel suo abito nero a maglia a coste, rossetto rosso e capelli neri lucenti, c’è Holly Baird, crisis PR di Combs a Los Angeles.

Quella mattina ascoltiamo la deposizione di un agente speciale che ha condotto la perquisizione nella proprietà del rapper. Baird è composta, vigile. Di tanto in tanto si sporge per passare biglietti alla madre e al figlio di Combs, seduti davanti a noi, oppure sottolinea appunti su un block notes con un evidenziatore viola. L’accusa chiede all’agente di estrarre da una scatola un fucile trovato durante la perquisizione e di mostrarlo alla corte. Baird alza gli occhi al cielo. «È solo scenografia», mi sussurra. «Il signor Combs non andava in giro con un fucile in mano».

Durante la pausa pranzo, la scena cambia. Diversi youtuber e creatori di contenuti si avvicinano a Baird per salutarla e abbracciarla. Una donna in sedia a rotelle dice di venire ogni giorno in tribunale per sostenere Diddy e assicurarsi che abbia un processo equo. «Molte persone fanno sesso stravagante!», esclama mentre Baird le risponde con un sorriso cortese. «Ero anche al processo di Ghislaine Maxwell. L’ha fatto? Certo che sì. Ma non ha avuto un processo equo».

Fuori dall’aula, l’atmosfera è paradossalmente festosa. La gente si mette in fila dalle 4 del mattino per entrare. Un ragazzo con un cappellino da camionista con la scritta “Free Puff” distribuisce spille. Un uomo con una maglietta “Legends Never Die” urla che Diddy è stato incastrato e il mondo ha bisogno di pace. Per poco non urto un ragazzo che fa il moonwalk sorseggiando rosé da una bottiglietta. Streamer parlano ai loro iPhone montati su treppiedi. L’influencer Tisa Tells, che ha raccolto oltre 600.000 follower con i suoi live quotidiani su YouTube, grazie a titoli quali “L’accusa ha messo la difesa sotto scacco e qualcuno ha detto qualcosa di molto grave”, si sistema i capelli davanti alla telecamera e ipotizza che Trump possa concedere al rapper la grazia presidenziale.

Holly Baird ha seguito il processo per stupro di Danny Masterson, ha lavorato alla campagna presidenziale di RFK Jr. e ora è impegnata con i fratelli Menendez. Ma il caso Diddy, dice, è un caos di tutt’altro livello. «Non ho mai visto nulla di simile per quanto riguarda i creatori di contenuti», racconta, ricordando di essere stata coinvolta nel procedimento lo scorso ottobre, dopo che due agenzie di crisi avevano già fallito. «Quando ho iniziato a occuparmi di PR in situazioni di crisi, nessuno sapeva nemmeno di cosa si trattasse. Non esisteva una serie tv chiamata Scandal. Non c’era Ray Donovan», osserva. «Erano i tempi in cui i comunicati stampa si mandavano via fax».

A spingerla a mettersi in proprio, racconta, è stato Harvey Weinstein, all’epoca suo cliente presso la società Sitrick and Company. «Mi disse: “Senti, ragazza, guarda le bollette”». Baird reputa il proprio lavoro una forma di empatia per chi è stato giudicato irrecuperabile dalla società. «Non è come nella pubblicità, dove tutti leccano i piedi a qualcuno», mi ha detto al telefono qualche settimana prima del processo. «Hai a che fare con persone nel momento più buio della loro vita. E questo richiede tatto, comprensione, capacità di ascolto. Perché nessuno presta loro la dovuta attenzione».

Lultimo caso di violenza sessuale di Harvey Weinstein è finito con un annullamento del processo che il suo publicist...

Nel corso della conversazione con Baird, ciò che all’inizio sembrava nitido si fa via via più opaco. Non si parla più di un uomo ripreso dalle telecamere mentre aggredisce la compagna, né di accuse dirette di coercizione sessuale. Il terreno si sposta: vergogna per pratiche sessuali non convenzionali, cancel culture, diritto alla privacy. Secondo Baird, l’accusa di traffico sessuale è «un modo inverosimile e irragionevole» per etichettare quello che lei definisce lo “stile di vita” di Combs. (La giuria, almeno in parte, ha condiviso tale visione.) «La scena dello stile di vita per adulti è enorme nella California meridionale», spiega. «Quello che le persone fanno nella privacy della loro camera da letto non mi fa rabbrividire». C’è qualcuno che non rappresenterebbe? «Non sono qui per difendere razzisti. Non mi occupo di assassini, né di pedofili», afferma. Nel caso di Combs, sottolinea, è stata ritirata una denuncia per stupro che coinvolgeva una ragazza minorenne.

Eppure, Baird ammette di essere esausta. In fila alla mensa del tribunale, con un vassoio di plastica in mano e il pranzo a base di pollo e patate davanti a sé, racconta che il team legale di Combs è estremamente conservatore sul fronte delle PR. Di recente, a tutti i partecipanti al processo è stato imposto il silenzio stampa. «Non posso parlare con i media, ed è dura per chi fa il mio mestiere», confessa. Vorrebbe che più giornalisti e creatori di contenuti potessero entrare in aula, per offrire «tanti punti di vista». Ieri sera, ammette, era così frustrata che è stato lo stesso Combs a chiamarla dalla prigione per incoraggiarla. Un’inversione di ruoli: di solito è lei a fare da terapeuta. «Credo abbia capito che ero stanca e scoraggiata», racconta. «Mi ha detto: “Siamo in dirittura d’arrivo”». La mattina in cui ero lì, l’atmosfera è stata alleggerita dall’arrivo di Kanye West che si è presentato in tribunale per salutare. Gli agenti gli hanno impedito l’ingresso in aula, e se n’è andato prima che potessi vederlo. West, che ha appena pubblicato una traccia controversa dal titolo Heil Hitler, potrebbe essere l’unico artista nell’industria musicale tossico quanto Diddy. Secondo Baird, però, il suo gesto di sostegno non è affatto un problema. «Molti in questo ambiente non hanno spina dorsale. Rispetto chi è disposto a rischiare il collo per un collega», sostiene, scrollando le spalle mentre cerca di tagliare un pezzo di pollo gommoso con un coltello di plastica. «E appena cambia il vento, tutti tornano al tuo White Party a sorseggiare una Cîroc».


Ho scoperto il lavoro di Mitchell Jackson mentre scrivevo un articolo per The Guardian sulle influencer conservatrici. Il pezzo includeva anche Candace Owens, commentatrice di destra e cliente di Jackson. All’epoca ci siamo scambiati alcune e-mail sulle opinioni più controverse di Owens. «Candace non ha mai detto che l’ebraismo è una religione incentrata sulla pedofilia e crede nei demoni e nei sacrifici di bambini», mi ha scritto ad aprile, durante la fase di fact-checking. (In realtà, la commentatrice aveva espresso quelle affermazioni in riferimento alla Kabbalah, la tradizione mistica ebraica, come riportato nell’articolo poi pubblicato.)

In una giornata piovosa di giugno, lo incontro per un brunch in un ristorante vicino al Lincoln Center. Quando arrivo, Jackson, un tipo sarcastico, barbuto, con una giacca elegante e una borsa L.L.Bean su cui è ricamata la parola “Cancelled”, sta sfogliando un numero del 1994 di Vibe. In copertina, Lisa “Left Eye” Lopes delle TLC è ritratta in uniforme da pompiere, poco dopo avere dato fuoco alla casa del suo compagno.

Jackson ha portato con sé la rivista per mostrarla a un cliente: un esempio, dice, di come si gestisce una crisi di pubbliche relazioni con intelligenza. «Lei non si è scusata, ha ironizzato sulla situazione. Nell’intervista ha parlato dei suoi problemi di salute mentale, e altre persone raccontano che è stata vittima di violenza domestica. Perciò copre davvero tutti gli aspetti», spiega. (L’ex fidanzato di Lisa “Left Eye” Lopes era stato accusato di aggressione aggravata dopo una lite, anche se il caso fu poi archiviato.)

Mitchell Jackson specialista in pubbliche relazioni in situazioni di crisi ritiene che Reddit sia importante quanto i...

Davanti a una tazza di tè e a un toast all’avocado, Jackson mi racconta della sua infanzia nel Sud della Florida, in un quartiere popolato da figure eccentriche: una drag queen, uno sceriffo finito in carcere per appropriazione indebita, «una lesbica con una gamba sola». Sua madre gestiva un negozio di animali accusato di rifornirsi da allevamenti intensivi. Per difendersi dagli attivisti della PETA che stazionavano regolarmente fuori dal negozio, aveva utilizzato una strategia provocatoria: organizzava zoo didattici rivolti ai membri dell’associazione e pagava senzatetto e adolescenti per contestarli. «Quello è stato il mio primo corso intensivo di PR in situazioni di crisi», dice Jackson. In seguito, ha lavorato per Vice, da cui è stato licenziato dopo che alcune e-mail finite su BuzzFeed hanno rivelato come avesse contattato influencer di destra quali Milo Yiannopoulos per ripubblicare contenuti della testata. Secondo Jackson, era stato un incarico ricevuto dai colleghi per aumentare il traffico. (Come giornalista era, a modo suo, efficace. «Era bravo a procurarsi informazioni, e ovviamente non aveva alcuna etica», mi ha detto un ex collega di Vice).

Jackson considera il suo lavoro una «vocazione dotata di una propria etica». Dice di rifiutare incarichi che prevedano di «diffamare le persone senza motivo» e promette che «lotterà fino alla fine del mondo» in difesa dei suoi clienti. «Chiedi a qualsiasi addetto stampa che abbia attaccato i miei clienti e ti dirà che li ho battuti», afferma. «Loro hanno perso. Io ho vinto, in parte perché conosco i media, ma anche perché ho un’etica».

L’esperienza del licenziamento, o «cancellazione» come lui la definisce, lo ha reso particolarmente adatto a lavorare con persone travolte dalle crisi. «Israele è il cliente dei miei sogni», afferma. Ha qualche consiglio da offrire allo Stato in questo momento? «Non do consigli gratis!», risponde. (Più tardi, mi invia un’e-mail chiedendomi di chiarire che non approva la violenza). La sua agenzia, BCC Communications, si presenta come “un’azienda di comunicazione strategica per un nuovo ambiente mediatico”. Tra i clienti figurano Candace Owens, l’influencer conservatrice Brett Cooper, il podcaster di sinistra Adam Friedland, la scrittrice e attivista queer Sarah Schulman, l’autrice e influencer Caroline Calloway e Maya Henry, ex fidanzata della star degli One Direction, Liam Payne. Jackson racconta che, quando Liam Payne è morto lo scorso autunno, TMZ lo ha subito contattato. Il sito sperava che potesse convincere Maya Henry, sua cliente, a identificare il corpo nelle fotografie in loro possesso.

Jackson appartiene a una nuova generazione di PR cresciuti con i social media, consapevoli che ignorare gli influencer può essere un errore strategico. «Incontro un TikToker e gli consegno dei documenti come farei con un giornalista», spiega. Intrattenere rapporti con la stampa tradizionale è utile, osserva, «ma se cento ragazze su TikTok iniziano a raccontare una versione diversa, saranno loro a dettare la narrazione». Il suo team è composto da «ex giornalisti ed ex Redditor», questi ultimi considerati fondamentali per modellare la reputazione online. «Reddit è il luogo dove nascono le storie. Per me, non è diverso da un quotidiano», afferma. Jackson trascorre 5 ore al giorno al telefono o in riunione con avvocati, clienti, giornalisti e influencer. Di recente, ha coinvolto anche Emilie Hagen, autrice emersa da Substack, passata, come dice lui, «dal processo a Diddy al Barbiere di Siviglia».

Un professionista delle PR di Los Angeles conferma che gestire la rabbia dei fan online è diventato «una parte cruciale» del mestiere. Lo ha capito quando alcuni suoi clienti hanno avuto problemi con i fan di una popstar, considerata una superpotenza nel mondo delle community digitali. Il primo passo per contenere le reazioni di una fanbase di quelle dimensioni, spiega, è capire se il team dell’artista è coinvolto e collaborare con loro per calmare le acque. «Non ho mai incontrato una celebrità di quel livello che non conosca chi gestisce i principali siti di fan», afferma. Il secondo passo è mappare il campo: individuare i protagonisti della scena, i “generali” che guidano la carica e i “guerriglieri” che agitano dall’esterno. In una “situazione proattiva”, si può pensare di far trapelare informazioni a uno dei generali più influenti. In una “situazione reattiva”, quando uno di loro sta diffondendo qualcosa che si vuole fermare, serve un intervento deciso. «Se c’è un generale in attesa, frustrato perché non riceve l’attenzione che crede di meritare, lo sfruttiamo per cercare di prendere il controllo della community e spodestarlo», dice.

Nel tentativo di comprendere meglio i “generali”, le figure dominanti nella fanbase digitale di Baldoni-Lively, ho trascorso una settimana contattando gli influencer più attivi. Solo una ha risposto: Katie Paulson, nota su Instagram come @WithoutACrystalBall. Sul suo canale YouTube, seguito da oltre 440.000 iscritti, pubblica video dai titoli sensazionalistici, come Blake Lively GOES BANANAS. Paulson ha risposto con cautela, chiedendomi quale fosse il mio punto di vista e sottolineando che molti media «pubblicano contenuti per screditare i creatori». Ho deciso di prendermi del tempo per riflettere sulla risposta.

La mattina seguente era già troppo tardi. Paulson mi aveva messo alla gogna davanti ai suoi oltre 150.000 follower su Instagram, accusandomi di averla lasciata «in sospeso». Nel post, ha evidenziato i legami della rivista per cui scrivo con varie celebrità e gli stessi addetti stampa coinvolti nella vicenda, concludendo che stavo preparando un «articolo al vetriolo» per manipolare l’opinione pubblica sul caso Lively vs. Baldoni.

L’interazione mi ha scosso. La maggior parte dei PR con cui avevo parlato riconosceva ancora il valore di un confronto con un giornalista tradizionale. Ma per Paulson e la sua community, io ero diventata il simbolo della disinformazione: un emissario stipendiato dalle celebrità. In poche ore, il suo post aveva raccolto quasi un centinaio di commenti ostili. Nel frattempo, anche un subreddit dedicato alle critiche contro Paulson si era agganciato alla vicenda: un utente ha ipotizzato che non potessi davvero lavorare per GQ, visto che non avevo mai scritto prima per quella testata. Ho provato a contattare Paulson in privato per chiarire, ma mi aveva bloccato.


Lo scorso anno, il giornalista investigativo Alexi Mostrous ha pubblicato il podcast Who Trolled Amber?, un’inchiesta sulla campagna di odio online che ha travolto Amber Heard durante la battaglia legale con Johnny Depp nella primavera del 2022. Chiudi gli occhi e immagina: stai ascoltando Harry’s House, controlli la tua collezione di NFT su OpenSea, scorri non l’X di Elon Musk ma il Twitter di Jack Dorsey e, all’improvviso, vieni sommerso da un’ondata di hashtag furiosi: #AMBERHEARDISANABUSER, #AMBERTURD, #WEJUSTDONTLIKEYOUAMBER. In quel periodo, Depp era impegnato in una causa per diffamazione contro Heard, basata su un editoriale in cui lei parlava di violenza domestica. Navigare online significava imbattersi in migliaia di commenti velenosi contro di lei. Da dove veniva tanto odio?

Mostrous voleva capire se parte di quella rabbia fosse costruita artificialmente. Ha sottoposto un milione di tweet pro-Depp a esperti di disinformazione e data scientist. L’analisi ha rivelato che circa la metà dei messaggi era stata generata da bot. Il suo reportage ha poi tracciato l’origine di molti account fino all’Arabia Saudita, dove da anni operano i cosiddetti Flies, bot utilizzati per diffondere propaganda governativa, anche contro il giornalista Jamal Khashoggi, ucciso nel 2018.

In una deposizione, l’avvocato di Johnny Depp, Adam Waldman, ha dichiarato di avere rapporti con quelli che definisce “giornalisti online”. Tra questi figurano account di super fan come @ThatUmbrellaGuy, che ha condiviso testimonianze inedite con i suoi 380.000 follower su YouTube, e @ThatBrianFella, responsabile della diffusione di un audio di una lite tra Depp e Heard, poi rivelatosi manipolato.

I fan di Johnny Depp fuori dal tribunale durante il processo per diffamazione tra lattore e Amber Heard un momento...

Così mi sono chiesta: è possibile che il divorzio della star di Pirati dei Caraibi abiti lo stesso ecosistema digitale della propaganda politica e degli omicidi di Stato? Ho chiamato un’amica, ricercatrice nel campo della disinformazione politica. «Abbiamo visto account nati all’interno di reti pro-dittatoriali essere riutilizzati per promuovere celebrità negli Stati Uniti e nel Regno Unito», mi ha riferito.

Trovare qualcuno disposto ad ammettere l’uso diretto delle cosiddette tattiche di manipolazione sociale, le stesse denunciate da Blake Lively nella sua causa, è stato arduo. Alcuni interlocutori hanno riconosciuto che ormai fanno parte del gioco, anche se nessuno ha ammesso di praticarle personalmente. «Non sto dicendo che non usiamo quelle persone», mi ha confessato un noto esperto di crisi. «È solo che bisogna chiedersi fino a che punto ci si può spingere».

Secondo diverse fonti, il lavoro sporco avviene in aziende opache con sede in India, Malesia e nell’Europa orientale, realtà di cui nessuno ha saputo fornirmi nomi precisi. «Non è un’attività pulita», ha spiegato uno specialista digitale di una grande società di PR. «Non vedrai mai aziende americane pubblicizzare servizi dicendo che usano i bot o fanno astroturfing. Al massimo, per le strategie in grado di indurre a credere che si sia spontaneamente diffusa una determinata opinione o tendenza, ricorrono a un linguaggio criptico».

Alcuni interlocutori sono stati più espliciti. «Non facciamo giornalismo etico. Siamo qui per offrire l’immagine più negativa possibile dei nostri avversari, basandoci sui fatti», afferma un noto esperto di New York. «Se affermi: “Farò solo quello che farebbero i giornalisti più etici”, allora non stai davvero partecipando a nessuna strategia mediatica». Anche lui affida parte del lavoro a collaboratori all’estero: «In una situazione in cui il denaro non è un problema, puoi assumere i migliori mercenari». Cosa fanno esattamente? Fa una pausa. «Possiamo riprendere tra un’ora o due? Vorrei essere più informato sull’argomento», chiede. Non mi richiamerà più.

Quando ho domandato alle mie fonti se l’ondata di odio contro Amber Heard potesse essere stata generata artificialmente, la maggior parte si è mostrata scettica. Matthew Hiltzik, all’epoca responsabile delle PR di Depp, ha rifiutato di commentare. Una persona informata mi ha assicurato che non c’era stato alcun coinvolgimento in campagne digitali, né «uso di arti oscure», solo un team «molto disciplinato, attento ai fatti e a raccogliere ogni dettaglio dall’aula di tribunale». I PR con cui ho parlato sottolineano come Depp fosse una delle star più amate del cinema: Heard era un bersaglio facile ed entrambi sono stati travolti dal contraccolpo crescente del movimento #MeToo. Un esperto di crisi può sapere come sfruttare queste dinamiche, ma non può inventarle di sana pianta. «Puoi alimentare le fiamme già esistenti, o accendere il fiammifero», mi dice uno specialista digitale. «Non puoi creare il fuoco dal nulla. Devi avere qualcosa a cui aggrapparti».


È un pomeriggio soffocante da 30 gradi quando mi dirigo verso il centro di Manhattan per incontrare Juda Engelmayer, il publicist di Harvey Weinstein, nel suo ufficio temporaneo, arroccato su uno dei piani alti dell’Empire State Building. In linea con la reputazione di “bad boy” delle PR in tempi di crisi, indossa una camicia a quadri rosa con i primi bottoni slacciati, lasciando intravedere una catena d’argento e qualche pelo sul petto. Ha venduto da poco la moto. «Finirei con l’ammazzarmi se la usassi», spiega. «Come fai a rispondere a una telefonata di Harvey che ti urla contro mentre sfrecci sull’autostrada a 110 chilometri all’ora?».

Juda Engelmayer che rappresenta Harvey Weinstein afferma che i media non tradizionali offrono un contrappunto alle...

Engelmayer racconta di avere accettato l’incarico da Weinstein nel 2018, dopo che molte agenzie lo avevano rifiutato, tra cui Hiltzik, con cui aveva lavorato ai tempi della Miramax, o avevano interrotto i rapporti, come Sitrick. Dice di averlo fatto, almeno in parte, per una questione di principio: crede nel giusto processo. Quando abbiamo chiacchierato per la prima volta al telefono, Weinstein era sotto processo a New York per tre diversi casi di presunte violenze sessuali. Engelmayer parlava con tono rapido e monotono, elencando quelli che, secondo lui, erano i punti deboli delle accuse. «Non dirò mai a nessuno: “Oh, è davvero un bravo ragazzo”», mi ha detto. «Ma affermo che non è colpevole dei reati di cui è accusato».

Dopo le accuse di molestie sessuali, stupro e aggressione rivolte a Harvey Weinstein nel 2017 e nel 2018, seguite dalle querele che hanno dato slancio al movimento #MeToo, sembrava impossibile, persino per Juda Engelmayer, immaginare una svolta. Nel 2020, The Cut ha rivelato che Engelmayer stava inviando ai giornalisti un PowerPoint di 57 pagine in cui si celebrava il “grande cuore” di Weinstein. «Era chiaro che non avrebbero ripreso ciò che avevo scritto», ha ammesso. Tuttavia, ha trovato un varco. «Si cominciano a cercare fonti mediatiche alternative, quelle che dichiarano di volere raccontare la verità. Si tratta delle testate più conservatrici», ha detto. Senza entrare nei dettagli, Engelmayer ha confermato in interviste precedenti che il pagamento agli influencer, con tariffe variabili dai 5.000 ai 100.000 dollari, è diventato parte integrante della strategia di crisi. «Non serve molto per instillare il dubbio», ha spiegato. «Se vuoi fare circolare rapidamente un’opinione, giusta o sbagliata che sia, usi pratiche manipolative sui social. Magari, paghi un paio di influencer, investi in media e pubblicità a pagamento, per spingere il messaggio necessario a supportare la tua tesi». Alla fine, «si passa da contenuti digitali fabbricati ad arte a persone reali che li ripetono. Finché non si sa nemmeno più da dove sia partita la storia».

Nell’ultimo anno, diversi influencer conservatori hanno preso le difese di Harvey Weinstein, presentandolo come simbolo degli eccessi del movimento #MeToo. A maggio, Candace Owens, cliente di Mitchell Jackson, ha pubblicato una serie di articoli in suo favore, tra cui una lunga intervista realizzata in carcere, disponibile sul suo sito per 4,99 dollari. «Dopo aver esaminato il caso», ha dichiarato Owens, «sono giunta alla conclusione che Harvey Weinstein sia stato condannato ingiustamente e, in sostanza, sia una vittima del movimento #MeToo». La sua versione è stata rilanciata da Joe Rogan.

Oggi Juda Engelmayer è soddisfatto. Questa mattina, il giudice ha dichiarato nullo il processo: la giuria non è riuscita a raggiungere un verdetto sulla terza accusa di stupro, bloccata da un acceso disaccordo interno. Non è una vittoria definitiva, perché Weinstein era già stato giudicato colpevole per la prima accusa e assolto per la seconda, ma Engelmayer ritiene che qualcosa sia cambiato. Secondo lui, Weinstein sta ricevendo un trattamento diverso, e parte del merito va ai mutamenti nell’opinione pubblica fuori dall’aula. Le narrazioni alternative, dice, nascono nei media non tradizionali e finiscono per essere riprese da quelli mainstream, offrendo un contrappunto alla “folla dei social media”. «Adesso, le persone iniziano a considerare le sfumature, le zone grigie. E questo, secondo me, è molto importante».

Ciò che definiamo crisi e chi alla fine siamo disposti a perdonare, dipende in larga parte dal contesto culturale. Per scatenare l’inferno dell’opinione pubblica servono alcune condizioni fondamentali. Certo, puoi accendere il fuoco con l’indignazione degli influencer e alimentarlo con legna da ardere ricorrendo a bot, astroturfing, amplificazione algoritmica, ma se il vento non soffia nella direzione giusta, puoi fare poco. A volte, il modo più efficace per ricostruire la reputazione di una celebrità è sfruttare opportunisticamente le battaglie culturali già in corso. Non sempre funziona (ricordate quando Kevin Spacey pensò di salvarsi dichiarandosi gay?), ma se si azzecca il momento, si può cavalcare la corrente dell’opinione pubblica fino a tornare alla ribalta.

Negli ultimi anni, il vento ha cambiato direzione. Dopo un decennio in cui il femminismo è stato spesso usato come leva per l’autopromozione, il consenso attorno al movimento #MeToo si è incrinato. Attualmente, combattere e smantellare il “wokeness” è diventato, letteralmente, una politica governativa. Nel frattempo, è cresciuto un potente ecosistema mediatico alternativo di destra. La gestione delle crisi nel mondo delle PR è una questione di controllo narrativo. Nella contesa, non riusciamo nemmeno a metterci d’accordo sulla definizione di realtà. Per chi lavora nel settore, è un momento d’oro. «L’era del “solo perché qualcuno lo dice, noi crediamo che sia vero” sta finendo», dice Engelmayer.


Questo viaggio mi ha disorientata. Nel mondo moralmente relativista della comunicazione di crisi, cominciavo a sospettare che non esistessero verità assolute, ma solo narrazioni concorrenti. Nessuna colpa sembrava troppo grave per essere perdonata, nessun peccatore troppo compromesso per essere redento, purché il prezzo fosse giusto. E la cosa inquietante è che i PR di crisi potrebbero avere ragione.

Parlano il linguaggio della morale: verità, giustizia, diritto alla propria versione dei fatti. Dicono di aggiungere sfumature, di difendere chi è stato preso di mira dalle autorità e messo alla gogna dai media, di schierarsi con i deboli. Sembrano avvocati che accettano i casi più controversi perché credono nel diritto universale alla difesa. Solo che, a differenza degli avvocati, non tutti hanno accesso a un team di PR di crisi. La maggior parte delle persone non può permetterselo.

Alla fine, ho trovato chi non ha avuto esitazione nel descrivere il proprio lavoro. KG Summer, nome di fantasia, ha fondato qualche anno fa TrollToll, quando ancora si occupava di marketing tradizionale. All’epoca, un cliente stava perdendo quote di mercato a causa di un concorrente. «Mi disse: “L’unica cosa per cui sono disposto a pagare è fare sapere al mondo che i miei concorrenti mentono quando dicono che i loro prodotti sono made in USA”», ricorda Summer. Nei successivi trenta giorni, ha disseminato forum su Reddit e gruppi Facebook con post che denunciavano come il prodotto rivale fosse in realtà fabbricato in India. Alla fine della campagna, TrollToll era nata e oggi promette di “metterti al comando del tuo esercito di troll su Internet”. Per 55 dollari, si può assumere un “troll dei social media” che pubblicherà commenti favorevoli. Per 2.250 dollari, si accede a un servizio di 30 giorni che include trollaggio mirato, articoli su blog, contenuti video e altri strumenti di pressione digitale.

KG Summer è il CEO di TrollToll che offre la possibilità di “dire cose che non vorresti necessariamente fossero...
Le strategie segrete delle PR nelle situazioni di crisi

Ho sentito parlare di TrollToll dopo che Business Insider aveva pubblicato un articolo in cui si affermava che il sito aveva contribuito a diffondere online informazioni sul caso Lively-Baldoni. Nella controquerela intentata da Baldoni contro Blake Lively, i suoi avvocati hanno sostenuto che la causa di Lively travisava i messaggi scambiati tra i PR durante la crisi. Sì, Jennifer Abel aveva effettivamente inviato a Melissa Nathan un link a un articolo del Daily Mail intitolato “Blake Lively è destinata a essere CANCELLATA?”, commentando: «Wow. Ti sei davvero superata con questo pezzo». La denuncia, però, ometteva un dettaglio: Abel aveva concluso la frase con un’emoji dalla faccina sorridente capovolta, un segnale nel linguaggio digitale che lo scambio era ironico. L’idea del coinvolgimento diretto di Nathan nell’articolo era, almeno in parte, uno scherzo.

Summer racconta che una persona anonima gli ha versato 120 dollari per diffondere contenuti legati a una semplice emoji: quella con il sorriso capovolto. Non ha idea di chi fosse. «Sono stati bravissimi a coprire le loro tracce», sottolinea. Oggi, Summer sostiene di avere oltre venti clienti con contratti mensili e una lista di 2.200 “troll” pronti all’azione, reclutati via e-mail. Alcuni, dichiara, sono diventati «informatori di alto livello» per Deuxmoi, le pagine sarcastiche di Reddit, TMZ e Perez Hilton. Racconta anche di essere stato contattato da un’agenzia di PR con un reparto dedicato alle crisi. Un attore rappresentato dall’agenzia era appena entrato in riabilitazione, e il team voleva distogliere l’attenzione inondando la rete con foto che lo ritraevano insieme a una nota influencer. «Ho passato 7 giorni su questo caso con il team, solo per farlo arrivare ai tabloid e agli account Instagram giusti che hanno condiviso quella spazzatura», dice.

Parlare con Summer è stato, in un certo senso, rinfrescante. È un mercenario, e lo ammette senza esitazioni. «Non è compito nostro giudicare cosa sia giusto o sbagliato, manipolato o reale», afferma. Secondo lui, viviamo tutti sotto costante influenza e manipolazione. Perché non usare quegli stessi strumenti a proprio vantaggio? «C’è un’intera generazione di uomini arrabbiati», continua, «che vedono Jack Sparrow e il regista con la coda di cavallo [Baldoni] e li percepiscono come vittime del bullismo esercitato dalla coppia di potere hollywoodiana. E dicono: “Quello sono io. Mi identifico in lui”». Questo meccanismo di identificazione alimenta l’intera narrazione, sostiene Summer. A suo avviso, tutto è nato dal populismo culturale esploso nel 2016, quando l’elezione di Trump ha trasformato il risentimento in strategia. Da allora, la stessa mentalità, quella che trasforma la frustrazione in mito, il sospetto in verità alternativa, si è replicata all’infinito. «Continuerà a ripetersi», osserva. «Perché c’è un pubblico, una strada già tracciata e una struttura mentale che si riproduce da sola, come un algoritmo emotivo».

Quando ho iniziato a scrivere questa storia, ero terrorizzata dall’idea che da qualche parte, in una sala riunioni insonorizzata, un machiavellico esperto di PR potesse decidere cosa dovessi pensare e provare, su Blake Lively, sulla guerra in Ucraina, sulle elezioni presidenziali, persino sui Twinkies. Ma più mi addentravo nel vortice digitale, più mi rendevo conto che il mondo in cui viviamo è troppo caotico, frammentato e contraddittorio per essere controllato da qualcuno.

Gli strateghi della comunicazione non sono programmatori onnipotenti che manipolano la realtà da dietro un pannello di controllo. Somigliano invece a ingegneri esausti, intenti a tirare leve e girare manopole su una macchina che cambia forma ogni minuto. Come ha sostenuto Mitchell Jackson: «Penso che i giorni del controllo totale siano finiti». Questo non significa che abbiano smesso di provarci. Lavorano instancabilmente, cercando di piegare l’universo narrativo al loro volere. E durante il mio reportage, l’idea di trovarmi dalla parte sbagliata di una campagna di crisis PR mi ha fatto tremare. Poi, pochi giorni prima della pubblicazione del mio pezzo, ho ricevuto un’e-mail inaspettata che ha ribaltato la prospettiva. Mi ha fatto immaginare come sarebbe avere un esercito digitale dalla propria parte, pronto ad amplificare il mio messaggio. «Buongiorno», scrive TrollToll. «Ti è utile che molti visitatori del sito passino del tempo sul tuo articolo?».

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