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Val la pena, per chiunque si occupi di comunicazione e di reputation management, approfondire la figura di questo personaggio sui generis, principale paladino impegnato in Brasile nella lotta alla disinformazione online.

Il suo lavoro è la risposta più efficace ed eclatante a chi – per convinzione o per semplice provocazione – considera già persa la lotta contro la deregulation voluta dalle Big tech, Facebook Meta e X (ex Twitter) in testa, imprese golose di spazzatura digitale in grado di solleticare l’attenzione delle maree crescenti di analfabeti funzionali – spesso incidentalmente di destra – capaci di generare un numero impressionante di like e un costante e crescente hype, che favorisce l’aumento degli accessi alle piattaforme e quindi, in diretta conseguenza, l’aumento dei ricavi pubblicitari, ormai quasi interamente gestiti da algoritmi di intelligenza artificiale.

Una carriera in prima linea, a rischio della vita

Figlio della classe media, cresciuto a San Paolo, frequentò la facoltà di legge; a 20 anni era già procuratore, fra i 30 e i 40 anni ha ricoperto vari incarichi governativi nelle istituzioni regionali, tra cui Segretario alla Giustizia e Capo della Sicurezza Pubblica, con delega al controllo delle forze di Polizia (oltre 100.000 agenti alle sue dipendenze) e infine Ministro della Giustizia federale, a Brasilia, nel 2016. L’anno dopo è stato nominato Giudice nel Tribunale Supremo Federale, e poi – occupa oggi entrambe le cariche – Presidente del Tribunale Superiore Elettorale, l’organo che in Brasile sovraintende alla regolarità dello svolgimento delle elezioni. Qualcuno sostiene sia il secondo uomo più potente del Brasile dopo il Presidente: di sicuro è un uomo che non ha paura di fare la cosa giusta scontrandosi con i colossi della Silicon Valley. Al punto da rischiare la vita.

Alcuni militari golpisti nel 2023 lo hanno fatto seguire per settimane, e il 15 dicembre un gruppo di rivoltosi armati con armi pesanti – come hanno confermato le indagini, che hanno smascherato il complotto, coordinato su una chat Signal – ha circondato la sua casa, per rapirlo o ucciderlo. Il programma era di fare poi irruzione nei palazzi governativi, creare le condizioni per l’annullamento delle elezioni che avevano visto Bolsonaro sconfitto, e proclamare lo stato d’assedio: all’ultimo momento, sulla chat è arrivato l’ordine di abortire l’operazione, molto probabilmente a causa del mancato sostegno di alcuni ambienti militari, con i quali De Moraes aveva stretto ottimi rapporti durante il suo mandato di un anno da Ministro della Giustizia.

Lo stato di diritto in Brasile in quei giorni agitati ha rischiato molto, anche se queste vicende non hanno più di tanto fatto notizia nel nostro Paese. L’annullamento del tentato golpe non ha tuttavia impedito a una folla di oltre 4.000 persone, aizzate sui Social network, di irrompere negli edifici governativi, devastandoli, e mettendo in scena proteste violente “fotocopia” rispetto a quelle scatenate dai fedelissimi di Trump in USA nel gennaio 2021. Durante quella notte infuocata, De Moraes – senza attendere l’alba – emise migliaia di mandati di arresto, inclusi quelli per il Segretario alla Sicurezza del Distretto Federale e per il Comandante della Polizia Militare, che erano collusi con i rivoltosi: “Il rischio era l’effetto domino, dovevo agire subito, e mandare un messaggio chiaro a tutto il Paese: il caos non può essere tollerato”, ha dichiarato il Giudice.

Buoni e cattivi nell’arena digitale

Elon Musk non ha esitato ad attaccare De Moraes, definendolo “un cattivo travestito da giudice” e paragonandolo – parole di Musk – a “una via di mezzo tra Voldemort, il cattivo di Herry Potter, e un Sith di Guerre Stellari”. Bolsonaro, egualmente, lo odia, e Trump ha sollecitato da Washington iniziative contro di lui (la recente decisione della Casa Bianca di elevare al 50% i dazi sulle merci brasiliane importate in USA ha il sapore di una vendetta politica). La Trump Media ha inoltre avviato una causa contro il Giudice in USA (l’eventuale sentenza sarà comunque ininfluente in Brasile) accusandolo di “voler comprimere la libertà di espressione”; tuttavia, l’amministrazione Trump – in nome di un curioso ideale di libertà di espressione a corrente alternata – ha avviato una campagna di sanzioni rivolte verso chi sostiene la Corte Penale Internazionale, come anche contro chiunque abbia preso posizione contro le manovre militari israeliane a Gaza.

In ogni caso molti osservatori qualificati si chiedono: istigare all’odio le folle tramite appelli online e diffondere deliberatamente disinformazione sui canali digitali, significa davvero promuovere e difendere la libertà di espressione?

L’ex Presidente Bolsonaro – recentemente sottoposto a misure restrittive, condannato a ben 27 anni di carcere per sedizione, tentato golpe e attentato alla Costituzione – ha potuto contare per la sua propaganda elettorale su veri e propri “squadroni digitali” che hanno inondato internet di disinformazione funzionale alla sua agenda politica, accusando falsamente i suoi avversari di pedofilia, paventando complotti inesistenti, minacciando di rapire o uccidere giudici, diffondendo accuse di illegittimità rivolte al Tribunale Supremo e lamentando un – presunto, inesistente – malfunzionamento del sistema elettorale, ovviamente “difettoso” solo quando il risultato ha penalizzato Bolsonaro, e invece perfettamente funzionante quanto lui venne eletto alla presidenza. Poi, non appena una specifica accusa, inventata, veniva smentita, le equipe di troll ne costruivano a tavolino un’altra, in un ciclo senza fine, continuando “ad avvelenare i pozzi”.

L’analisi di un’importante agenzia indipendente di fact-checking ha confermato che solo 4 delle 50 immagini più condivise nella campagna elettorale di Bolsonaro erano autentiche, mentre le restanti 46 contenevano offese e diffamazioni ai danni dei suoi avversari; e anche chi sollecitava attenzione sulle dinamiche della disinformazione veniva attaccato: l’agenzia di fact-checking in questione ricevette 56.000 minacce sui canali digitali in un solo mese, mentre nel contempo le segnalazioni per post disinformativi online sono aumentate durante la campagna elettorale di Bolsonaro in modo impressionante, + 16.000% rispetto alla tornata di elezioni precedenti.

È possibile lottare contro il populismo estremista digitale?

In Brasile la libertà di espressione è costituzionalmente garantita, ma con maggiori accortezze rispetto gli USA: sono infatti vietati i discorsi razzisti, la diffamazione (anche online) e i crimini contro lo stato di diritto.

De Moraes è convinto che il Brasile – in questo periodo storico – sia il terreno di prova più importante per le strategie di affermazione del potere politico attraverso internet, parte di un disegno populista strutturato, e a modo suo intelligente: “la libertà di espressione in Brasile viene invocata e travisata per aver mano libera nell’offendere, diffamare, minacciare e intimidire. Questa è la libertà di espressione, per certe persone”.

Quando De Moraes ha chiesto a X il blocco di alcuni account che diffondevano notizie palesemente false e istigavano all’odio, X non l’ha fatto; De Moraes allora ha imposto delle sanzioni contro la compagnia, ma X non ha pagato; allora il Giudice ha semplicemente bloccato i conti bancari dell’azienda in Brasile, e da un giorno all’altro ha emesso un ordine esecutivo che ha reso fuori legge X in tutto il Paese. Musk, dicono fonti a lui vicine, è stato scosso da queste iniziative, molto incisive: a quel punto X ha pagato le multe (circa 5 milioni di dollari) e rimosso gli account sotto accusa, e De Moraes ha rapidamente fatto riattivare X in Brasile. Questo match è la prova definitiva che l’unico linguaggio che certi populisti comprendono (e in parte rispettano) è quello dell’assertività.   

In un altro caso, quando Bolsonaro prima ha minimizzato il rischio da pandemia Covid-19 sostenendo che era superfluo prendere precauzioni anche elementari contro il contagio (il Brasile ha stabilito uno dei record mondiali di mortalità da virus), e poi ha disposto tramite il Ministero della Salute la sospensione della pubblicizzazione delle statistiche di mortalità giornaliera, crescenti in modo esponenziale, De Moraes ha emesso senza esitazione un ordine esecutivo che ha obbligato il Ministero a riprendere la pubblicazione dei dati entro 48 ore.

De Moraes nell’intervista al New Yorker ha affermato convintamente: “la libertà di espressione non è la libertà di diffondere odio e pregiudizi, né idee contrarie all’ordine Costituzionale”. Alcuni Deputati brasiliani, tuttavia, hanno ribattuto che la lotta all’odio e alla pubblicazione di falsità online non andrebbe combattuta a colpi di sentenze di un Tribunale, bensì attraverso una legge, e hanno sollecitato il Parlamento a prendere in carico il problema. Le piattaforme digitali hanno però respinto ogni proposta di dialogo, e diverse di esse hanno diffuso messaggi ostili su questo argomento. Un senatore, ex capo della Polizia Statale del nord-est, ha dichiarato: “la maggioranza del Parlamento teme ritorsioni da parte delle big-tech. Immaginate solo di candidarvi con un algoritmo che lavora contro di voi”, e ha aggiunto “le indagini di De Moraes forse sono autoritarie, ma per ora sono l’unica soluzione possibile”.

De Moraes nella conclusione dell’intervista concessa al New Yorker ha dichiarato: “I Social media rappresentano il potere più grande, perché non solo influenzano le persone, ma generano la maggior quantità di entrate pubblicitarie al mondo, dando alle aziende che li controllano la forza finanziaria per orientare i risultati elettorali. Se non si agirà ora per controllare questi strumenti, presto sarà troppo tardi”.

In USA è “terra di nessuno”, mentre in Europa, negli ultimi anni, c’è stato un significativo giro di vite sulla disinformazione online, sia mediante l’approvazione di direttive comunitarie, che per iniziativa di singoli Stati. La Francia ad esempio ha formulato ripetutamente – e inizialmente senza alcun successo – varie accuse contro Telegram, piattaforma sospettata di aver ospitato attività criminali, dal traffico di droga (innumerevoli account permettevano il contatto diretto con spacciatori di droghe pesanti e con venditori di armi) al terrorismo jihadista. La situazione si è risolta non appena un Giudice ha emesso un ordine di arresto per uno dei fondatori della App: improvvisamente, gli account che Telegram “non avrebbe potuto neppure tracciare”, sono stati rimossi. Il Brasile ha preso già da tempo una posizione molto netta a riguardo, tramite le azioni di De Moraes e dei suoi colleghi giudici.

Il Tribunale Supremo Federale dove si trova l’ampio e luminoso ufficio di De Moraes è ubicato a Brasilia, vicino alla Camera dei Deputati e al Palazzo Presidenziale, nella piazza cosiddetta “Dei Tre Poteri”, luogo simbolo dello “spazio pubblico” brasiliano per antonomasia: forse, il segreto per non dichiararsi vinti contro la strapotere delle big tech, e avviare una possibile riscossa dello Stato di diritto, sta lì, in un luogo quanto mai fisico e non virtuale, nonché nel cervello e nel coraggio di uomini come De Moraes, che hanno le idee chiare sull’urgenza di contrastare le derive populiste montanti nel mondo in particolare sui canali digitali, e lottare senza quartiere contro gli oceani di spazzatura che ammorbano la rete.

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