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La storia dei protagonisti di un film-denuncia contro la violenza sulle donne che finiscono per denunciarsi a vicenda per molestie sessuali e diffamazione è così paradossale che sembra uscita direttamente da Hollywood. Hollywood invece è solo il suo set, mentre il paradosso della vicenda che oppone Blake Lively e Justin Baldoni è un sintomo di come si è evoluta (e in alcuni casi involuta) la risposta alle molestie sessuali sul lavoro a partire dal dibattito sulle violenze di Harvey Weinstein proprio nel mondo del cinema. Tanto che qualcuno, come la critica del New Yorker Doreen St. Félix, l’ha usata per sancire la fine del movimento MeToo. Eppure – come succede spesso – la questione è più complicata di così.

Il 31 dicembre l’attrice Blake Lively ha denunciato il regista e co-protagonista di It Ends With Us Justin Baldoni, accusandolo di molestie sul set e di aver organizzato una campagna diffamatoria contro di lei dopo la fine delle riprese. Come ricostruisce l’Ap, la sua causa è stata depositata nello stesso giorno in cui Baldoni aveva a sua volta depositato una causa contro il New York Times, sostenendo che il più prestigioso giornale al mondo si è coordinato con Lively per diffamarlo e chiedendo 250 milioni di dollari di risarcimento. Ieri Baldoni ha citato in giudizio anche Lively e suo marito, l’attore Ryan Reynolds, chiedendo altri 400 milioni di dollari per danni che includono la perdita di reddito futuro.

La premessa di tutto è che Lively e Baldoni hanno girato insieme il dramma romantico It Ends With Us, adattamento del romanzo bestseller di Colleen Hoover del 2016, che racconta la storia di Lily (interpretata da Lively), giovane donna cresciuta in una famiglia dominata da un padre violento, che si ritrova suo malgrado in una relazione con un uomo violento, Ryle Kincaid (Baldoni). Il titolo It Ends With Us – Siamo noi a dire basta si riferisce alla «scelta» delle donne abusate di uscire da una relazione violenta, come se fosse solo una questione di volontà — inutile dire che il film e il libro trattano tutta la questione all’acqua di rose.

Uscito ad agosto, il film ha avuto un successo inaspettato di pubblico (adesso è distribuito in streaming in Italia da Amazon), ma è stato accompagnato da speculazioni su dissapori tra Lively e Baldoni. I due non hanno mai fatto promozione insieme: Baldoni è rimasto in secondo piano, Lively invece è apparsa spesso insieme al marito, l’attore Ryan Reynolds, che nello stesso periodo era impegnato nel tour promozionale di Deadpool & Wolverine. Intanto Lively, gran parte del cast e la stessa autrice del libro hanno smesso di seguire Baldoni su Instagram. Nello stesso periodo si sono diffuse le accuse all’attrice, prima sui social poi sui media tradizionali, di essere insensibile al tema della violenza, prepotente e manipolatoria sul set e con i giornalisti, una «bulla». Mentre il film andava bene, la fama di Lively peggiorava sempre di più, tanto che il Daily Mail è arrivato a scrivere che l’attrice ha iniziato a «temere che la sua carriera fosse finita». Baldoni, che fin dall’emergere del movimento MeToo si è sempre espresso come un sostenitore dei diritti delle donne e delle loro rivendicazioni, sembrava intanto usare tutti i toni giusti, rivendicando continuamente il valore di denuncia del film.

Le cose sono cambiate quando il 20 dicembre Lively ha depositato un esposto contro Wayfarer Studios, la società di produzione di Baldoni e del produttore Jamey Heath. Il giorno dopo, il New York Times ha pubblicato una lunga inchiesta sulla presunta campagna di diffamazione che i due avrebbero organizzato insieme all’esperta di comunicazione di crisi Melissa Nathan per affossare Lively. Il titolo dell’inchiesta, «We Can Bury Anyone: Inside a Hollywood Smear Machine» («Possiamo seppellire chiunque. Dentro una macchina del fango di Hollywood») è un riferimento a un sms mandato dalla pr Nathan a proposito di Lively. Nathan è anche la pr che ha gestito la comunicazione e l’immagine di Johnny Depp nella sua causa contro la ex Amber Heard.

«Durante le riprese, Blake Lively, la co-protagonista, si era lamentata del fatto che gli uomini avessero ripetutamente violato i limiti fisici e fatto commenti sessuali e altri inappropriati nei suoi confronti. Il loro studio, Wayfarer, ha accettato di fornire un consulente per le scene di intimità a tempo pieno, di assumere un produttore esterno e di adottare altre misure di salvaguardia sul set. In una lettera di accompagnamento al contratto di Lively, firmata dal signor Heath, lo studio si impegnava anche a non compiere ritorsioni nei confronti dell’attrice. Ma ad agosto i due uomini, che si erano posizionati come alleati delle femministe nell’era del MeToo, hanno espresso il timore che le accuse della Lively diventassero pubbliche e li macchiassero, secondo la denuncia legale che la donna ha presentato venerdì. La denuncia sostiene che le loro attività di pubbliche relazioni avevano un obiettivo esplicito: danneggiare la reputazione di Lively» scrive il New York Times in una ricostruzione nella quale Lively compare per la prima volta come duplice vittima: di molestie e comportamenti sessisti sul lavoro e di una campagna diffamatoria organizzata.

Nella sua denuncia Lively afferma che Baldoni, la casa di produzione del film e la loro pr hanno messo in atto «un piano di ritorsione accuratamente elaborato, coordinato e dotato di risorse per impedire a lei e ad altri di parlare» e per danneggiare la sua reputazione. Il piano sarebbe stato organizzato dopo un incontro in cui lei e suo marito, l’attore Ryan Reynolds, hanno parlato delle «ripetute molestie sessuali e altri comportamenti inquietanti» da parte di Baldoni e del produttore Jamey Heath, anch’egli denunciato. I presunti maltrattamenti sul set includevano commenti di Baldoni sui corpi di Lively e di altre donne presenti e il fatto che Baldoni e Heath «hanno discusso delle loro esperienze sessuali personali e della loro precedente dipendenza dal porno, e hanno cercato di fare pressione sulla signora Lively affinché rivelasse dettagli sulla sua vita intima». Il piano, si legge nella causa, comprendeva la proposta di diffondere teorie diffamatorie online, di organizzare una campagna sui social media e di pubblicare notizie critiche nei confronti di Lively.

Nella loro contro-causa Baldoni, Wayfarer e la pr Melissa Nathan rovesciano le accuse. «Questo è il caso di due delle star più potenti del mondo che hanno usato il loro enorme potere per rubare un intero film dalle mani del suo regista e dello studio di produzione», si legge nella loro causa contro Lively e Reynolds. «Quando gli sforzi di Lively e Reynolds non sono riusciti a ottenere il successo che credevano di meritare, hanno rivolto la loro furia contro il capro espiatorio che avevano scelto».

Baldoni e gli altri contro querelanti affermano che sono stati Lively e il New York Times a mettere in atto un piano diffamatorio. E che il giornale «si è basato quasi interamente sulla narrazione non verificata e autoreferenziale di Lively, riprendendola quasi alla lettera e ignorando un’abbondanza di prove che contraddicevano le sue affermazioni e svelavano le sue vere motivazioni». Una portavoce del giornale, Danielle Rhoades, ha dichiarato in un comunicato che «la nostra storia è stata riportata in modo meticoloso e responsabile» e che «si è basata sull’esame di migliaia di pagine di documenti originali, compresi i messaggi di testo e le e-mail che abbiamo citato accuratamente e diffusamente nell’articolo. Ad oggi, Wayfarer Studios, il signor Baldoni, gli altri soggetti dell’articolo e i loro rappresentanti non hanno evidenziato alcun errore», si legge nella dichiarazione.

L’articolo al centro del contenzioso è stato firmato da Mike McIntire, da Julie Tate e soprattutto da Megan Twohey, giornalista premio Pulitzer perché co-autrice della prima inchiesta che ha rivelato le violenze del produttore Harvey Weinstein, dando vita al movimento MeToo. È anche questo che permette alla giornalista del New Yorker Doreen St. Félix di dire che se il MeToo non è proprio morto, di certo non sta tanto bene. «Il team di Baldoni sta aumentando il senso di cospirazione intorno alla situazione, in un periodo in cui la fiducia nelle organizzazioni tradizionali come il Times è diminuita. Nel frattempo, gli osservatori sui social media si dividono tra il team Lively e il team Baldoni. Lively è stata vista come una dell’élite, troppo grande per entrare nella condizione di vittima. Baldoni sembrava la vittima; si era allineato con la condizione delle vittime. Dopo l’articolo del Times, l’opinione pubblica ha iniziato a spostarsi verso Lively e alcuni critici della cultura pop si sono spinti fino a chiederle scusa. Ma ora la contro-causa di Baldoni ha spostato nuovamente l’opinione pubblica, creando confusione e disagio» scrive St. Félix.

«Non siamo più nell’era di MeToo. “Credere alle donne” non è diventato uno standard. Le storie di molestie e abusi vengono ora accolte in modo irrancidito, cinico ed esausto. In questo nuovo ambiente prospera una schiera di esperti di relazioni pubbliche di crisi, così come gli autoproclamati “esperti legali” su TikTok e altri commentatori dei social media. Quindi le accuse di Lively a Baldoni non sarebbero mai state viste come coraggiose, ma piuttosto come l’innesco di una guerra culturale. Il genere di reportage MeToo della fine degli anni Venti non può prosperare nella volatilità di Internet di oggi. L’informazione è disinformazione e viceversa. Le vittime sono colpevoli e i colpevoli sono vittime. La parola che ricorre più volte in tutte le controversie su Internet di Lively contro Baldoni è “narrazione”. Gli abusi sembrano essere lontani dalla mente di tutti. Ciò che conta è quale storia di una parte sia più adatta alla politica del nostro tempo».

St. Félix coglie alcuni aspetti importanti, come il ritorno alla guerra tra opposte versioni («lei ha detto» contro «lui ha detto»), la stanchezza per la contrapposizione sulle accuse di violenza di genere (e la loro possibile strumentalizzazione), e il ruolo preponderante delle agenzie di comunicazione nel gestirle. Tra le persone citate in giudizio ci sono le responsabili della comunicazione dei due litiganti, perché le persone che gestiscono l’immagine delle star hanno un ruolo sempre più importante e un potere enorme. Questa storia lo rende evidente e ormai dovremmo aver capito tutti che il «dibattito sui social» ha smesso di essere uno specchio onesto di ciò che le persone pensano «davvero» ed è diventato un veicolo facilmente manipolabile di interessi occulti. Chi sa come funziona la macchina della comunicazione online oggi ha gioco facile nell’indirizzarle i social media a proprio vantaggio: lo fa anche la Russia di Vladimir Putin. L’era dell’innocenza della comunicazione online — se mai c’è stata — è finita da tempo.

Ma lo scontro tra Lively e Baldoni mostra anche un altro lato della questione, che è il tema di fondo, mai abbastanza elaborato, della violenza di genere e in particolare delle molestie sul lavoro. Le molestie sono sempre e comunque una questione di potere, un potere che nella nostra società è ancora saldamente in mano agli uomini. Gli uomini di potere, per secoli, sapevano di poter molestare le donne o avere comportamenti inappropriati nei loro confronti senza esserne chiamati a rispondere. La forza dirompente del caso Weinstein è stato mostrare che anche le donne più famose e adorate del mondo – le attrici di Hollywood – erano impotenti di fronte agli abusi di un potere maschile invisibile ma onnipotente (Weinstein). Per un (breve?) periodo quel potere è stato eclissato dalla potenza delle parole delle donne che denunciavano – grazie a Ashley Judd (la prima, insieme a Rose McGowan, a rivelare nel 2017 le molestie che avevano subìto dal produttore).

Entrambe le cause dedicano molto tempo a episodi che leggono in maniera opposta. Il fatto per esempio che Lively si sia trovata ad allattare il figlio di fronte a Baldoni: lo ha fatto lei, dimostrando di essere a suo agio con lui (come dice Baldoni), o è lui che si è intrufolato nel suo camerino mentre lo faceva, violando confini che non doveva violare? O che lui le abbia parlato della sua dipendenza da porno e, scrive il New York Times, «della sua vita sessuale, compresi gli incontri in cui ha detto di non aver ricevuto consenso». Secondo la sua versione, Lively già «prima dell’inizio delle riprese, ad esempio, si era opposta alle scene di sesso che lui voleva aggiungere e che lei considerava gratuite». E si è lamentata del fatto che mentre giravano una scena di parto, lei è dovuta rimanere «per lo più nuda» con persone non essenziali presenti, tra cui il finanziatore del film. Secondo la versione di Baldoni, «Lively indossava slip neri e una tuta da gravidanza che le copriva la pancia, mentre il suo seno era coperto da un camice da ospedale». Tra gli episodi citati nelle cause c’è anche quello in cui Baldoni avrebbe chiesto all’attrice quanto pesava, cosa per cui il marito di lei lo avrebbe accusato di fat-shaming (cioè di fare bullismo sul suo peso). Baldoni invece sostiene che visto che lui ha problemi alla schiena, aveva chiesto privatamente e gentilmente a Lively il suo peso in modo da poter lavorare con il suo personal trainer per poterla sollevare in sicurezza nel film. «In realtà, Lively aveva già espresso la sua insicurezza riguardo al suo fisico post-parto e Baldoni ha fatto ogni tentativo per rassicurarla sinceramente», si legge nella sua causa.

La natura delle molestie su cui sono in corso cause da centinaia di milioni di dollari è per certi versi sorprendente. Ma anche significativa per misurare la distanza dall’era pre-MeToo. Un tempo nessuna attrice, nemmeno la più famosa, avrebbe potuto neppure provare a tenere testa a un regista su questioni come queste. Fino a pochi anni fa il potere nell’industria cinematografica è sempre stato in mano ai registi e ai produttori (uomini). E le attrici dovevano subire qualunque loro decisione, anche quelle che erano vere e proprie prevaricazioni, se non violenze: conosciamo tutti la storia di Maria Schneider e della sua impotenza di fronte a Bernardo Bertolucci Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi.

A Hollywood Lively (diventata famosissima grazie alla serie Gossip Girl che si è conclusa nel 2012) è sicuramente più potente di Baldoni (noto soprattutto per una serie minore, Jane the Virgin). E ha usato quel potere per pretendere dalla produzione una serie di garanzie, come il consulente per le scene di intimità, la presenza di un produttore esterno e la possibilità di non rimanere mai sola con Baldoni (cosa che finora non è stata messa in dubbio).

Ma Lively è comunque «vulnerabile», come la definisce St. Félix, perché vìola le aspettative di piacevolezza che continuano a esserci nei confronti delle donne. «È un bersaglio privilegiato per l’odio contro le ragazze bianche. È una donna sarcastica, affascinante e abrasiva. Non sempre sta al gioco con i giornalisti» ricorda St. Félix, aggiungendo che non ha giovato alla sua immagine il fatto che lei e Reynolds si siano sposati in un’ex piantagione di schiavi. Non solo: «La stretta amicizia tra Lively e Taylor Swift ha danneggiato anche lei nelle guerre di reputazione. Swift è enormemente potente. Una giusta critica al potere economico e culturale di Swift si trasforma facilmente in misoginia. Queste sono donne che altre donne possono permettersi di odiare» (ancora St. Félix). Baldoni con le sue accuse la fa passare come una star capricciosa, che abusa del suo privilegio per sopraffare lui, che è meno potente ed è sempre stato dalla parte delle donne vittime di violenza.

Le molestie che Lively ha denunciato non sono chiare come le aggressioni sessuali che hanno subito le vittime di Weinstein. Né sono suffragate dalle accuse di altre donne, come in quel caso. E questo rende tutto più difficile da sbrogliare. Forse la verità è da qualche parte a metà tra le due accuse contrapposte. Ma è vero che viviamo ancora in una cultura in cui è facile far passare per «difficile» una donna che si rifiuta di accettare le allusioni sessuali dei colleghi o i loro comportamenti inopportuni. Forse il MeToo non sta tanto bene, ma ne abbiamo ancora bisogno.

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